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Salman
Rushdie
La
terra sotto i suoi piedi
"Tre di noi, da Bombay, presero la via dell'occidente.
Dei tre fu Vina, per la quale era un viaggio di ritorno, la prima a sentire
i morsi della fame spirituale del mondo occidentale, a restare intrappolata
nei suoi abissi d'incertezza e a trasformarsi in una tartaruga: un guscio
coriaceo sopra una massa molliccia."
Musica, amore, morte: questi tre temi dominano, dall'inizio alla fine
l'ultimo romanzo di Salman Rushdie, La terra sotto i suoi piedi.
Ed è la terra che aprendosi sotto i piedi degli uomini, inghiotte
la protagonista dell'ampio romanzo, Vina, idolo della musica rock,
creatura che ancora viva è stata trasformata in un mito e la cui
vita è narrata da Rai, suo amante per gioco, ma soprattutto il narratore,
la voce del cantore dell'epica classica.
Il rock è una musica demoniaca, la vera anima di una generazione
nomade, che non ha una patria, un luogo, una cultura ma che, partendo dall'Occidente
entra nelle vene dell'Oriente e lo permea. Qui il cammino è inverso:
è dall'India che si sviluppa e nasce la storia ed è l'Occidente
l'elemento esotico, il territorio che permette rimozioni del passato e
nuovi incontri. Ma spesso è un Occidente putrido, malato. L'Inghilterra
è forse il luogo naturale per il lungo coma di Ormus, protagonista
maschile, amore eterno di Vina, giovane dalla voce magica, dal corpo bellissimo,
amico d'infanzia di Rai, il fotografo-narratore. La sinfonia che Rushdie
sviluppa in questo romanzo, che si trasforma anzi in un'opera-rock, riprende
e ripercorre il mito: Orfeo ed Euridice, l'amore e la morte. Ma è
solo il mito che unisce gli uomini, è solo dalla sua immobile staticità
che gli eventi possono svilupparsi e la storia procedere. Se, come
dice Franco Cordelli sul Corriere della Sera, "i miti sono la radice del
mutamento", questo romanzo rientra pienamente nel genere epico, paradigmatico:
il linguaggio talvolta sentenzioso, ricco di aggettivazione, la frase ampia
e il dialogo quasi fittizio, perché fissato in schemi, lo testimoniano.
"Questa è una storia di vite umane unite e separate da quello
che succede nelle (e tra le) nostre orecchie": la musica è voce
di anime, la vita che trionfa sulla morte (Orfeo ne è il primo testimone).
Il canto di Ormus bambino che risveglia gli uccelli che si posano in ascolto
sul davanzale è il segno iniziale di un potere che non potrà
vincere materialmente la morte, ma che l'ha già sconfitta dentro
di noi. La "musica è il suono dell'amore", "il tentativo di mettere
ordine nel caos, di dare un senso all'assurdo", dice Rushdie.
Incrocio di culture, stessi suoni che attraversano il mondo (questo
libro esce contemporaneamente in tutto il mondo, anche questo è
un simbolo?), e talvolta appiattimento che porta a non saper più
ascoltare la voce dei cuori, il bisogno di "giocare" fuori dai sentimenti
più impegnativi. Un terremoto che scuote la terra, come le grandi
migrazioni come trasportano civiltà e culture da una parte all'altra
del pianeta. Resta però il bisogno di conquistare più
di quello che si vuole. Non è più l'aspirazione alla libertà
che muove il mondo, ma all'amore: "Quando il mondo s'innamora, la mancanza
d'amore colpisce nel modo più duro".
Quattro anni per scrivere "quest'Ade di inchiostro e di bugie": un
impegno che l'autore testimonia come espressione di una sintesi tra
la classicità greca e latina (Roma è una città che
appare nel romanzo in tutta la sua storica bellezza), la civiltà
ebraica e quella indiana, nella laicità di un intellettuale
che, da sempre, rifiuta il dogma e lo frantuma.
La
terra sotto i suoi piedi di Salman Rushdie
Titolo originale: The ground beneath her feet
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Pag. 701, lire 35.000 - Edizioni Mondadori (Scrittori italiani
e stranieri)
ISBN 88-04-46040-7
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L'apicoltore
Il giorno di San Valentino del 1989, l'ultimo della sua vita, la leggendaria
cantante pop Vina Apsara si svegliò tra i singhiozzi da un sogno
di sacrifici umani in cui era la vittima designata. Uomini a torso nudo
somiglianti all'attore Christopher Plummer l'avevano afferrata per i polsi
e le caviglie. Il suo corpo era stato disteso, nudo e fremente, sopra una
pietra levigata che recava l'immagine scolpita dell'uccello serpente Quetzalcoatl.
La bocca aperta del serpente piumato cingeva una buia cavità scavata
nella pietra; e, anche se lei stessa aveva la bocca spalancata dalle urla,
l'unico rumore che riusciva a sentire era il crepitio dei flash dei fotografi;
ma prima che potessero tagliarle la gola, prima che il suo sangue potesse
sprizzare in quella terribile coppa, si svegliò a mezzogiorno nella
città messicana di Guadalajara, in un letto che non era il suo e
con uno sconosciuto mezzo morto al fianco, un mestizo nudo sui vent'anni
che fu identificato, negli interminabili reportage dedicati dalla stampa
alla catastrofe, come Raúl Páramo, il playboy erede di un
notissimo palazzinaro del posto, al quale, tra le altre cose, apparteneva
la società proprietaria dell'albergo.
Aveva sudato moltissimo, e nel tanfo delle coperte inzuppate c'era
tutto lo squallore di quell'incontro notturno. Raúl Páramo
era svenuto, aveva le labbra livide, e il suo corpo era scosso, ogni due
o tre secondi, da spasmi che Vina trovò identici ai propri fremiti
nel sogno. Dopo qualche istante l'uomo cominciò a emettere rumori
spaventosi dal fondo della trachea, come se qualcuno gli stesse tagliando
la gola, come se attraverso il sorriso scarlatto di un'invisibile ferita
il suo sangue fluisse in un calice fantasma. Presa dal panico, Vina balzò
dal letto e afferrò la sua roba, i calzoni di pelle e il bustier
trapunto di lustrini dorati con cui era scesa per l'ultima volta, la sera
prima, dal palco del centro congressi della città. Sdegnosamente,
disperatamente, si era concessa a questo nessuno, a questo ragazzo che
aveva meno della metà dei suoi anni; lo aveva incontrato nella solita
ressa che dopo lo spettacolo si formava tra le quinte, scegliendolo più
o meno a caso tra i cascamorti, gli untuosi spasimanti con i fiori, i magnati
dell'industria, gli aristocratici-spazzatura, i narcotrafficanti, i re
della tequila, tutti con limousine, champagne, cocaina e forse persino
diamanti da regalare alla star della serata.
Il giovane, pavoneggiandosi, si era presentato e aveva cominciato a
farle la corte, ma lei non voleva conoscere né il suo nome né
l'ammontare del suo conto in banca. Lo aveva colto come un fiore e ora
voleva metterselo tra i denti, lo aveva ordinato come il piatto di una
rosticceria e ora lo spaventava con la ferocia del suo appetito, perché
prese a divorarlo nell'istante in cui si chiuse la portiera della limousine,
prima ancora che l'autista avesse il tempo di alzare la parete divisoria
che assicurava ai passeggeri la loro intimità. Successivamente lui,
lo chaffeur, mostrò grande rispetto per il corpo nudo della star,
e mentre i giornalisti lo riempivano di tequila parlò sommesso della
sua avida e rapace nudità come di un miracolo: chi avrebbe mai pensato
che aveva più di quarant'anni? Immagino che qualcuno, lassù,
volesse proprio conservarla com'era. Avrei fatto qualunque cosa per una
donna simile, gemette lo chaffeur, sarei andato a duecento chilometri l'ora
se quello che voleva era la velocità, per lei mi sarei schiantato
contro un muro di cemento se il suo desiderio fosse stato di morire.
Solo quando uscì nel corridoio all'undicesimo piano dell'albergo,
semivestita e confusa, inciampando nei giornali non ancora ritirati, i
cui titoli sui test nucleari francesi nel Pacifico e sui disordini politici
nella provincia meridionale del Chiapas le sporcarono le piante dei piedi
nudi con il loro inchiostro urlante, solo allora Vina si rese conto che
la suite appena abbandonata era la sua: aveva chiuso la porta e non aveva
la chiave; e fu una fortuna, per lei, in quel momento di vulnerabilità,
che andasse a sbattere proprio contro il sottoscritto: Umid Merchant, fotografo,
altrimenti detto Rai, il suo - diciamo pure - grande amico dai tempi ormai
lontani di Bombay, e l'unico paparazzo nel raggio di mille miglia che non
si sarebbe mai sognato di fotografarla in un disordine così scandaloso
e gradito, mentre era ancora momentaneamente frastornata e - cosa peggiore
- mentre mostrava tutti i suoi anni; l'unico ladro d'immagini che non le
avrebbe mai rubato quell'espressione stanca e braccata, né lo sguardo
spaurito di quegli occhi lacrimosi e indiscutibilmente gonfi, né
la massa arruffata di capelli crespi tinti di rosso che le ondeggiava sopra
la testa in un ciuffo da picchio, né la bocca, ancora bella, ma
tremula e incerta, con i piccoli fiordi degli anni spietati sempre più
profondi agli angoli delle labbra. Il vero e proprio archetipo della dea
del rock a metà della strada che portava verso la desolazione e
la rovina. Aveva deciso di cambiare il colore dei capelli per questa tournée
perché a quarantaquattro anni voleva la rivincita, una carriera
tutta sua, senza di Lui: per la prima volta in tanti anni si era messa
in viaggio senza Ormus; dunque non c'era da meravigliarsi se per la maggior
parte del tempo era confusa e disorientata. Confusa, disorientata e sola.
Bisogna riconoscerlo. Vita pubblica o vita privata, la verità è
che non c'è nessuna differenza: quando non era con lui, non contava
con chi fosse, era sempre sola.
Disorientamento: perdita dell'Oriente. E di Ormus Cama, il suo sole.
© 1999, Arnoldo Mondadori S.p.A.
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