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Approcci allo studio della traduzione

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A partire dalla nascita della "scienza della traduzione" dopo la seconda guerra mondiale, l'interesse degli studiosi si è via via concentrato su aspetti diversi di questa attività. In un primo momento il principale oggetto di studio è stato la lingua: in quest'ottica lo studio della traduzione è concepito come un'applicazione della scienza linguistica, e gli studi sulla traduzione si servono dei principali strumenti della linguistica teorica dell'epoca: De Saussure per i francesi (Vinay e Dalbernet 1958), Chomsky per gli americani (Nida 1964), Firth e Halliday per gli inglesi (Caftord 1965). Nel corso degli anni '70 e '80 si verifica uno spostamento degli interessi della linguistica dall'analisi sintattico-grammaticale allo studio dei fenomeni testuali e pragmatici. Particolare preminenza assumono così per la traduzione le tipologie testuali e lo studio delle traduzioni come testi, più ancora che come manifestazioni dei rapporti tra sistemi linguistici (cfr. Reiss 1977, Newmark 1981). L'interesse per le traduzioni come testi è condiviso anche da un altro gruppo di studiosi di diversa nazionalità che si occupa principalmente di traduzione letteraria. L'approccio teorico di questi studiosi, conosciuti sotto il nome di "Manipulation school" (cfr. Gentzler 1993, Hermans 1999), contribuisce notevolmente alla cosiddetta "svolta culturale" (sul finire degli anni '80) e allo sviluppo della scienza della traduzione (ora translation studies) come disciplina autonoma.

Parallelamente a un riordinamento delle priorità di analisi, per cui si è passati da uno studio in una prospettiva prima linguistica, poi testuale e infine culturale (e specificamente traduttologica), si è avuto anche uno spostamento da un'enfasi sulla lingua del testo di partenza a una sulla cultura del testo di arrivo.

La prospettiva decostruzionista ha esercitato un notevole influsso nell’ambito dei Translation Studies negli ultimi anni (ad esempio, Godard 1991; Gentzler 1993Venuti 1995,1998). Il decostruzionismo nega l’esistenza di un “originale”, di un testo primario che abbia uno statuto di validità superiore ad una sua traduzione, postulando così l’impossibilità di qualsiasi equivalenza. Godard suggerisce ad esempio di sostituire a quest'ultimo concetto quello di “trasformazione” come idea centrale per parlare di traduzione, mentre Venuti sintetizza l'essenza della traduzione nel seguente modo:

Translation is a process by which a chain of signifiers that constitutes the source-language text is replaced by a chain of signifiers in the target language which the translator provides on the strength of an interpretation. (Venuti 1995 : 17)

Se Nida afferma il concetto di “equivalenza dinamica” per cui compito dei teorici della traduzione è quello di scoprire le regole che portano alla produzione di un testo che mantiene il significato dell’originale ottenendo lo stesso effetto, per Derrida (1995) il significato procede da una “differenza” (in entrambi i significati ricoperti dal neologismo derridiano di “différance", termine che segnala la relazione tra termini, testi e lingue piuttosto che la contrapposizione tra di essi) lungo una catena potenzialmente infinita di relazioni, e non può essere attribuito al testo in quanto tale. Il significato è una relazione contingente che non può essere stabilita in una traduzione in base a criteri di equivalenza semantica che stabiliscono corrispondenze binarie tra unità di analisi linguistica.[1]

Come sostiene Littau, infatti, se in termini postmoderni un testo è concepito come un intertesto, "a trace of other texts, itself a translation of other texts and fragments of language" (Littau 1997: 82), in una prospettiva traduttologica viene a cadere la netta distinzione tra originali e traduzioni e viene minata la relazione gerarchica solitamente istituita tra un testo ritenuto primario e uno ritenuto secondario. Una traduzione, proprio in quanto è intrinsecamente la manifestazione di una relazione tra due testi, esemplifica lo status indeterminato dei testi stessi. Proprio in quanto è una delle possibili letture possibili di un testo, essa esemplifica la molteplicità dei significati inscritti in esso: "the seriality of translation not only pluralises "the original", but it always already calls into question originality, that is, uniqueness per se" (Littau 1997: 84, enfasi nell'originale).

 Al centro delle discussioni tra i fautori dei diversi approcci sono spesso fondamentali questioni terminologiche e concettuali, a partire dalla definizione stessa di traduzione e di alcuni altri termini usati in relazione ad essa, in particolare quelli di equivalenza e di norme.[2]

Sintetizzando, si può affermare che tuttora coesistono essenzialmente due modi di guardare a una traduzione (letteraria): il primo si basa sulla presunzione della superiorità epistemologica dell’”originale” rispetto a qualsiasi traduzione, superiorità che trova nella traduzione di un’opera letteraria la sua più forte esemplificazione, in quanto il testo che viene tradotto viene spesso descritto come in possesso di caratteristiche di “autorevolezza”, se non addirittura di “sacralità”.[3] Lo scopo di una traduzione è allora quello di ricercare i modi e le forme più appropriate per riprodurre in un’altra lingua lo “stesso” testo, ovvero quello di creare la copia “equivalente” dell’originale. Da questo punto di vista si tratta di un’impresa disperata in partenza, proprio in quanto si presuppone una superiorità inerente nel testo da cui si traduce. Qualsiasi traduzione non potrà quindi essere niente altro che una brutta copia, in quanto sarà sempre possibile trovare un aspetto sotto il quale l’equivalenza non viene rispettata. Un secondo punto di vista nega invece il presupposto di superiorità costitutiva di un “originale” rispetto a una “traduzione”, riconoscendo solamente un’anteriorità cronologica del primo rispetto alla seconda. La traduzione entra rispetto al testo “originale” in un rapporto di “differenza”, così come questo istituiva un rapporto differenziale rispetto ad altri testi che lo hanno cronologicamente preceduto. L’equivalenza non è più allora una relazione che la traduzione tenta inerentemente di ricreare, ma solamente un rapporto che si viene necessariamente a creare una volta che un testo viene dichiarato essere la traduzione di un altro testo. Non si ha più a che fare con “la” equivalenza, ma con “una” equivalenza, in base a una definizione di tipo circolare per cui se un testo è considerato una traduzione di un altro testo, allora un rapporto di equivalenza è stato stabilito tra i due.

La relazione tra "originale" e "traduzione", definita da alcuni di "equivalenza" e da altri di "similarità rilevante", non è data in partenza ma è ricostruibile retrospettivamente attraverso un confronto tra i testi nelle due lingue.

"[O]ne reason for studying translations is to discover the concept of "equivalence" or "relevant similarity" held by a particular translator or a particular culture at a given time, for a given kind of text, etc. The minimum requirement is simply that a text is claimed to be a translation, and that it is accepted (by the client and/or readers) as a translation in the target culture: it is accepted as conforming to the prevalent translation norms. […] the boundaries of the concept "translation" are ultimately not set by something intrinsic to the concept itself, but by the ways in which members of a culture use the concept." (Chesterman 1997: 62-63).

Il concetto di norme è importante perché ha relativizzato la nozione di equivalenza e ha sottolineato la necessità di un fondamento empirico allo studio dei fenomeni traduttivi come condizione preliminare alla ricerca. Lo spostamento dall'enfasi dalle relazioni astratte tra sistemi linguistici alle relazioni effettivamente stabilite tra testi (originali e traduzioni e/o traduzioni e altri testi nella lingua di arrivo), ha coinciso con il progressivo spostamento di interesse della linguistica dallo studio delle proprietà formali e strutturali della lingua allo studio dei fenomeni testuali. Il concetto di norme come regolarità di comportamento presuppone inoltre lo studio non più di traduzioni individuali, ma di un corpus di traduzioni, allo stesso modo in cui lo studio delle regolarità di uso linguistico presuppone lo studio di corpora di testi. Così come la linguistica dei corpora fornisce gli strumenti per lo studio di "actual language used in naturally occurring texts" piuttosto che per lo studio di "what is theoretically possible in a language" (Biber et al. 1998: 1), un corpus di traduzioni costituisce il fondamento per uno studio delle norme o regolarità di comportamento nelle traduzioni realmente esistenti piuttosto che di quanto è teoricamente nella traduzione.

L'applicazione degli strumenti metodologici della linguistica dei corpora alla traduzione viene discussa in corpora e traduzione.

 



[1] L’idea che esista un rapporto di equivalenza tra le lingue presuppone che esistano dei sistemi linguistici ben definibili, come risulta implicito nella distinzione proposta da Jakobson tra traduzione interlinguistica e traduzione intralinguistica (cfr. Jakobson 1995). Derrida fa notare come il confine tra le due sia in verità molto instabile, in quanto possono esistere testi che contengono contemporaneamente più lingue. Venendo meno l'identificabilità dei suoi limiti, l'unità e l'identità stessa della lingua viene messa in discussione (cfr. intervento di Derrida in “Roundtable on Translation”, in McDonald 1985: 100, citato in Littau 1997: 83). Per questo motivo è forse più appropriato parlare di traduzioni tra testi piuttosto che di traduzione tra lingue.

[2] La produzione di libri ed articoli sui concetti di norme ed equivalenza è sterminata e non facilmente riassumibile. È sufficiente scorrere le ultime annate di riviste specializzate come Target, Babel, TTR, The Translator e META per rendersi conto di come l'uso e la definizione di questi due termini in traduttologia continui ad essere fonte di dibattito tra gli studiosi.

[3] Cfr. ad esempio Newmark 1988: 39-41, 47.