La critica della traduzione letteraria nell’epoca della letteratura digitale
Alcuni spunti a partire dal “metodo Berman”
By Giovanni Nadiani (University of Bologna, Italy)
Abstract
After discussing the problems of defining the new electronic esthetical products as literature, the author proposes to distinguish between what he calls "hard digital literature" (all kinds of literary products originally written for traditional media such as books and magazines and then transferred to the electronic medium) and "soft digital literature" (a kind of literature which is made possible only by electronic media). Both kinds of electronic literature call for a new critical approach. Literary critics should try to update their methods to take into account the new ways of both archiving or presenting traditional literature and producing literature with and through the computer. In this context the author suggests to re-read the critical work of Antoine Berman, in particular Pour une critique des traductions: John Donne, where Berman writes about "non-textual transformation forms". The new critic will probably consist of different persons, each with different knowledge and competence. The goal is to lead the "readership" through the forest of new literary products in translation.
Keywords: traduzione letteraria, literary translation, multimedia translation, traduzione multimediale, translation theory, teoria della traduzione, berman, antoine
©inTRAlinea & Giovanni Nadiani (2000).
"La critica della traduzione letteraria nell’epoca della letteratura digitale Alcuni spunti a partire dal “metodo Berman”", inTRAlinea Vol. 3.
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/archive/article/1629
1. Sulla letteratura digitale. Verso un nuovo genere da «jam session»?
“[…] i teorici della scomparsa dell’autore dicono anche che una storia messa su dischetto ipertestuale o in linea permette al lettore anche di cambiare il finale o di sottoporre il personaggio a nuove esperienze o addirittura permette a lettori diversi, come in una gara, di intervenire per mostrare chi sa sviluppare la storia più interessante […]. Quello che vorrei far notare è che, così facendo, non si è sostituita la letteratura quale la conosciamo da alcune migliaia di anni, ma si è semplicemente inventato un nuovo genere letterario, che equivale a quello che nella musica è la jam session del jazz. Cosa avviene in una jam session? A partire da un tema, i musicisti inventano, e ogni sera la soluzione è diversa: se non si mantiene la registrazione ogni jam session sarà diversa dalla precedente e potrebbero anche alternarsi o sostituirsi i musicisti e quell’esperienza musicale andrebbe avanti in modo collettivo. Ma l’esistenza della jam session non ha affatto chiudere le sale da concerto o inibito la produzione di musica su spartito. Semplicemente, si è aggiunto un nuovo genere” (Eco, 1998: 47).
Con la sagacia e la chiarezza consuete, Eco «liquida» sbrigativamente la questione della cosiddetta «letteratura elettronica o digitale», «web literature», «Internet-Literatur», «Hypermedia Poetry» ecc., e le connesse, discusse e discutibili problematiche della «morte» del libro o dell’autore, catalogandola semplicemente in un genere nuovo, probabilmente un sottogenere al pari di tanti altri.
Ma è proprio così? Si può effettivamente parlare ancora di letteratura riferendoci alle varie esperienze di scrittura creativa ipertestuale, informatizzata spesso associata alla multimedialità? E, in caso affermativo, ci troviamo di fronte a «un» genere nuovo, o a un insieme di generi diversi? E i testi letterari scritti inizialmente in modo «tradizionale», «lineare», «pensati» per i cosiddetti supporti cartacei, una volta trasposti su supporti elettronici o immessi «in linea», digitalizzati insomma e, quindi, «smaterializzati», potenzialmente manipolabili o estensibili ipertestualmente (ben al di là della loro ipertestualità naturale), sono da considerarsi anch’essi «letteratura digitale», ovvero un suo sottogenere?
1.1. «Letteratura digitale dura» e «letteratura digitale molle»
Probabilmente, dovremo innanzitutto cominciare ad affrontare la problematica da quest’ultima questione, in quanto essa concerne una tendenza del mercato editoriale nonché un metodo di lavoro della critica letteraria sotto gli occhi di tutti e ben più vasto, ad esempio, delle esperienze di «narrativa ipertestuale elettronica» o della «poesia in rete», cioè la continua, esponenziale memorizzazione informatica e relativa trasposizione di testi letterari della tradizione su supporti digitali sia a scopi scientifico-didattici sia per la fruizione «letteraria» del lettore comune. Il quale ormai trova a sua disposizione e a poca spesa gran parte del corpus della propria letteratura nazionale racchiuso in alcuni e poco ingombranti CD-ROM di rapida consultazione (si pensi ad esempio alla LIZ, Letteratura Italiana Zanichelli), o dedicarsi alla lettura in linea di tanti classici anglo-americani e tedeschi (come nei casi del Project Gutenberg negli Stati Uniti e del Projekt Gutenberg-DE in Germania).
Con riferimento a questa e ad altre simili forme di digitalizzazione e di presentazione ipertestuale interessanti determinati generi testuali [2] e possibili varianti [4]; (2) a interattività/manipolabilità (anche multimediale) parzialmente codificata – limitata dall’emittenza [6] , alors il faut dire que la critique des traductions commence à peine à exister” (Berman, 1995: 13).
Queste righe di Berman, pur partendo da tutt’altri presupposti, ci riportano a quelle iniziali di Zimmer, alla necessità di una critica. E Berman con il suo saggio Pour une critique des traductions: John Donne, scritto poco prima di soccombere alla malattia, strappato per così dire alla morte, ne è un assoluto testimone.
Nel suo appassionato sforzo di «sprigionamento della verità» cerca di elaborare un metodo praticabile della critica della traduzione, richiamantesi tanto all’ermeneutica moderna sviluppata da Paul Ricoeur e Hans Robert Jauss quanto al pensiero critico di Walter Benjamin e differenziantesi da tutti i metodi «generati» dal modello base engagé e «polemico» di Henri Meschonnic da una parte, e da quello di tipo funzionalistico e sociologico-deterministico della Scuola di Tel-Aviv dall’altra. Secondo Berman “entre une analyse «trop» militante genre Meschonnic et une analyse «trop» fonctionnaliste genre Toury ou Brisset, il y a place pour un autre «discours» qui, loin de s’opposer polémiquement aux deux premiers, sache conquérir son autonomie en leur rendant justice” (1995: 62). Egli, però, intende intraprendere questa «terza via» seguendo proprio la lezione dei colleghi citati, che ha mostrato come sia possibile fondare discorsi scientificamente rigorosi senza cadere nella tentazione di costituire un sapere positivista e scientista della traduzione, poggiante servilmente e acriticamente sulle procedure delle cosiddette scienze «esatte». Discorsi scientifici, dunque, che sono nello stesso tempo discorsi critici e che, quindi, non sono, non possono essere «scientificamente» neutri. “L’histoire, la sociologie, l’ethnologie ne sont pas neutres. Ce sont des sciences critiques non idéologiques. Telle doit être la «science de la traduction», quelles que soient son orientation, sa méthodologie, ses concepts de base etc.” (1995: 63).
Il metodo schizzato da Berman – piuttosto «un trajet analytique possible» come egli sostiene – propone innanzitutto di assumere, più che uno sguardo sospettoso e puntuale o neutro e oggettivo, uno sguardo ricettivo accordante una «fiducia limitata» al testo tradotto. In questa prima fase è assoluta la necessità di resistere alla compulsione del confronto con l’originale, in quanto solo la lettura della traduzione permette di presentire se il testo «tiene», sia come lavoro scritto nella lingua ricevente sia come testo vero e proprio dotato di sistematicità, coerenza, organizzazione di tutte le sue componenti.
Questa operazione iniziale ha lo scopo di scoprire il grado di consistenza immanente e di vita immanente del testo tradotto, svelando altresì le eventuali «zone testuali» problematiche ove potrebbero annidarsi eventuali difetti. Allo stesso tempo però essa svela – non sempre, ovviamente – le «zone testuali» miracolose, «de bonheur», che arricchiscono la lingua e la cultura ricevente.
Berman insiste sull’importanza di queste prime «impressioni» date dalla ripetuta lettura dell’originale: “ce sont elles, elles seules, qui vont orienter notre travail ultérieur, lequel, lui, sera analytique. Se laisser envahir, modeler par ces «impressions», c’est donner un sol sûr à la critique à venir” (1995: 66).
Il secondo momento prevede le ripetute letture dell’originale senza però dimenticare mai le «zone testuali» problematiche evidenziate in precedenza, studiandole, anzi, attentamente per preparare il futuro confronto. Questa lettura dell’originale diventa ben presto “pre-analyse textuelle, c’est à dire repérage de tous les traits stylistiques, quels qu’ils soient, qui individuent l’écriture et la langue de l’original” (1995: 67), cercando di vedere, più globalmente, che rapporto intercorra nell’opera tra la scrittura e la lingua, che ritmo abbia il testo nel suo complesso. In tal modo il critico compie lo stesso lavoro svolto (o che avrebbe dovuto svolgere) il traduttore prima e durante la traduzione.
Partendo da questa pre-analisi e dalle letture che devono accompagnarla, in quanto il critico è tenuto a produrre un discorso concettualmente rigoroso, ci si dedicherà a un paziente lavoro di selezione di esempi stilistici (in senso lato) pertinenti e significativi nell’originale. La scelta e l’estrapolazione degli esempi è un lavoro molto delicato basantesi sull’interpretazione dell’opera: i passi prescelti dell’originale sono i luoghi in cui l’opera “se condense, se représente, se signifie ou se symbolise. Ces passages sont les zones signifiantes où une oeuvre atteint sa propre visée (pas forcément celle de l’auteur) et son propre centre de gravité. L’écriture y possède un très haut degré de nécessité” (1995: 70). Sono proprio questi passi a dirci il senso dell’intera opera in modo preciso e accecante. Essi non sono sempre i più «belli» esteticamente, però testimoniano il significato dell’opera e di una scrittura che possiede il più alto grado di necessità possibile. Una necessità che va di pari passo e si integra con tutte quelle parti dell’opera aventi un «carattere aleatorio».
Per Berman è, però, proprio questa «dialettica» del necessario e dell’aleatorio ad essere determinante e per il critico e per il traduttore. Rifacendosi alla citazioni di Genette che “l’intangibilité du poétique est une idée «moderne» qu’il serait temps de bousculer un peu” (Genette, 1982: 281) e alla sottolineatura di questi che l’idea di intangibilità è legata al dogma dell’intraducibilità, Berman evidenzia come la coesistenza di elementi tangibili e intangibili nell’opera da tradursi abbia una notevolissima importanza per il traduttore.
Al termine di questo terzo momento non si è ancora pronti alla comparazione di originale e traduzione. Se si è «presentito» che la traduzione possedeva un sistema, si ignora, tuttavia, la logica di tale sistema. E per comprenderlo è necessario rivolgersi al lavoro traduttivo e per suo tramite al traduttore.
Riconoscere, capire chi è il traduttore significa, oltre alla raccolta di informazioni tecniche sulla sua figura (se egli stesso sia autore; da quali lingua traduca e che rapporto abbia con esse; che genere di opera traduca; se sia politraduttore o montraduttore ecc.) , determinare la sua posizione traduttiva, il suo progetto di traduzione e il suo orizzonte traduttivo.
La posizione traduttiva è il «compromesso» tra la maniera in cui il traduttore percepisce, come soggetto preso dalla pulsione del tradurre, “la tâche de la traduction, et la manière dont il a «internalisé» le discours ambiant sur le traduire (les «normes»). La position traductive, en tant que compromis, est le résultat d’une élaboration: elle est le se-poser du traducteur vis-àvis de la traduction” (1995: 74-75). Tale «compromesso» ha a che fare direttamente con la posizione linguistica del traduttore e relativa position scripturaire. Ne consegue che ogni traduzione è basata su un progetto o indirizzo articolato a loro volta determinati dalla posizione traduttiva e dalle esigenze poste, di volta in volta, dall’opera da tradursi.
Attraverso lo studio delle traduzioni il critico può rivelare il «modo» di traduzione scelto e la «maniera» di tradurre del traduttore esaminato. A ciò concorrono anche tutte quelle dichiarazioni esplicite del traduttore sul proprio lavoro, sapendo però che la traduzione è sempre e solo la realizzazione del progetto: essa va dove la conduce il progetto e fin dove questo la porta. Essa non ci dice la verità del progetto se non rivelando come esso sia stato realizzato e quali siano state le conseguenze di ciò in rapporto all’originale.
La posizione traduttiva e il progetto di traduzione sono comprese dentro un orizzonte. Questo può essere definito, approssimativamente, come l’insieme dei parametri linguistici, letterari, culturali e storici che «determinano» il sentire, l’agire e il pensare di un traduttore. “La notion d’horizon a une double nature. D’une part, désignant ce-à-partir-de-quoi l’agir du traducteur a sens et peut se déployer, elle pointe l’espace ouvert de cet agir. Mais, d’autre part, elle désigne ce qui clôt, ce qui enferme le traducteur dans un cercle de possibilités limitées” (1995: 81).
Dopo tutti questi passi, Berman giunge alla tappa concreta della critica della traduzione: il confronto dell’originale con la traduzione.
La forma dell’analisi può variare in base all’ampiezza della traduzione (singole poesie, raccolte, opere intere ecc.), ma dovrà sempre confrontarsi con delle «totalità». Essa varierà anche a seconda che si affronti un’unica traduzione di quella data opera o che si proceda in modo comparativo con diverse traduzioni. La forma della critica varierà, infine, in funzione dei generi delle opere tradotte.
La comparazione vera e propria avviene, in linea di principio, in quattro momenti:
- confronto di elementi e di brani selezionati dell’originale con la «resa» degli elementi e dei passi corrispondenti della traduzione;
- confronto inverso delle «zone testuali» giudicate problematiche ovvero compiute della traduzione con le «zone testuali» corrispondenti dell’originale;
- confronto – all’interno dei precedenti – con altre traduzioni;
- confronto della traduzione con il suo progetto.
Un elemento particolare sottolineato da Berman e che recepisce le esigenze di un possibile utente della critica della traduzione è il problema della comunicabilità di questa, cioè della sua leggibilità, evitando tecnicismi terminologici, il carattere specialistico, la citazione a profusione di passi in lingua originale, la minuziosità ecc. Il «tecnicismo» ha la sua necessità, certo, però potrebbe minacciare anche “la visée fondamentale de la critique, qui est d’ouvrir un texte à des publics multiples qu’on ne peut présupposer ni trop vastes ni réduits à une poignée de happy few” (1995: 87).
Perché il movimento dell’analisi sia trasparente, ricco e aperto alla pluralità delle questioni traduttive, Berman suggerisce chiarezza espositiva, incessante autoriflessività del discorso alla base del confronto originale-traduzione, una sorta di «digressività illuminante». Le digressioni, allontanandosi dalla «spiegazione del testo», assicurano all’analisi la sua autonomie scripturaire, vale a dire una propria commentativité. E’ attraverso questi elementi che entra in gioco la soggettività dell’analista.
L’ultimo aspetto con cui il critico viene a confrontarsi è la questione della valutazione del traduttore, che si potrebbe basare su un doppio criterio, di carattere etico e poetico. “La poéticité d’une traduction réside en ce que le traducteur a réalisé un véritable travail textuel, a fait texte, en correspondance plus o moins étroite avec la textualité de l’original. […] Même s’il pense que son oeuvre n’est qu’un «pâle reflet», qu’un «écho» de l’oeuvre «véritable», le traducteur doit toujours vouloir faire oeuvre. […] L’éthicité, elle, réside dans le respect, ou plutôt, dans un certain respect de l’original” (1995: 92). Ma l’eticità del tradurre è minacciata dalla non veridicità, dall’inganno, causati dai silenzi sulle manipolazioni intervenute: il traduttore può avere tutti i diritti a patto che il suo gioco sia scoperto. Allo stesso modo il critico deve precisare il più ampiamente possibile le basi del suo giudizio, insomma assumere anch’egli una posizione poetica e etica.
Eticità e poeticità garantiscono la presenza di una corrispondenza all’originale e alla sua lingua. Il termine «corrispondenza» è scelto volutamente da Berman per la sua ricca polisemia e indeterminatezza. Le qualità citate garantiscono, inoltre, tale «fare opera-in-corrispondenza» da sempre considerato il compito supremo della traduzione.
In conclusione, il potere fecondante dell’analisi critica risiede “dans la (dé)monstration au lecteur du faire-oeuvre positif du traducteur, et dans l’exemplarité de la traduction même” (1995: 97).
2.3 «Interstizi digitali» nella riflessione di Berman
A prescindere dall’opinione che si può avere del metodo «autoriale» e «soggettivo» appena illustrato [8] ) rese possibili dalla digitalità; mentre nell’altra componente, le «forme di trasformazione non testuale» evidenziata in grassetto, si potrebbero includere, ad esempio, tutte quelle operazioni e quegli accorgimenti a carattere ipermediale destinati, probabilmente, ad accompagnare (ed «espandere») in modo sempre più rilevante (di qui la sottolineatura) le traduzioni, gli «oggetti traduttivi», le forme di tarsformazione testuali non traduttive ecc., e ad assumere notevole importanza all’interno della lingua-cultura della «traslazione».
Come conseguenza di tale, forse, ardita considerazione bisognerà tenere nel dovuto conto l’inserimento di un’ulteriore componente determinante la «traslazione», ovvero l’ampliamento del concetto di «critica della traduzione» fino ad inglobare quasi obbligatoriamente una critica delle altre componenti, cioè delle «forme di trasformazione».
Anche nel suo metodo critico vero e proprio Berman apre spazi che, col senno di oggi, potremmo leggere in un’ipotesi di «traduzione digitalizzata». Ad esempio là dove nel caso della ritraduzione egli propone il confronto di tutte le traduzioni precedenti antiche, di quelle coeve e di quelle straniere: come non pensare immediatamente alle diversificate possibilità date dalle nuove tecnologie per svolgere nel migliore dei modi e con la massima rapidità tale compito? [10].
Riferimenti bibliografici
Benne, C. (1998). “Lesen, nicht klicken. Literatur im Internet? Eine irrige Vorstellung. Sprachkunst braucht Kritik”. Die Zeit, 37 (3. September): 73.
Berman, A. (1995). Pour une critique des traductions: John Donne. Paris: Gallimard.
Bernard, M. (1998). “Letture ipertestuali dei testi letterari tradizionali”. Abstracts del convegno “Ipertesti creativi: modifiche della scrittura e nuove tecnologie” – Università di Bologna (Dipartimento di Italianistica) 15 maggio.
Borgmeier, R. (1970). “Shakespeares Sonett ‘When forty winters’ und die deutschen Übersetzer”. Bochumer Arbeiten zur Sprach- und Literaturwissenschaft, 4. München.
Cadioli, A. (1998). Il critico navigante. Saggio sull’ipertesto e la critica letteraria. Genova: Marietti.
D’Orsi, S. (1998). “Il ritorno della parola”. Salsa and Chips. Supplemento de “Il Manifesto”. (24 ottobre).
Eco, U. (1998). “L’opinione di Umberto Eco”. Effe. La rivista delle librerie Feltrinelli, 8 (primavera): 45-47.
Funkhouser, C. (1996). Toward a Literature Moving outside Itself: The Beginning of Hypermedia Poetry. http:// cnsvax.albany.edu/~poetry/inside.html
Gigliozzi, G. (1997). Il testo e il computer. Milano: Bruno Mondadori.
Huyssen, A. (1969). “Die frühromantische Konzeption von Übersetzung und Aneignung”. Studien zur frühromantischen Utopie einer deutschen Weltliteratur. Zürich.
Kaplan, N. (1995). “E-Literacy. Politexts, Hypertexts and Other Cultural Formations in the Late Age of Print”. Computer-Mediated Communication Magazine, maggio.
Kendall, R. (1995). Writing for the New Millenium. The Birth of Electronic Literature. http://www.wenet.net/~rkendall/pw1.htm
Note
[1] Certe linee di tendenza dell’attuale mercato editoriale fanno prevedere inizialmente eventuali investimenti in questo settore verso l’oggetto «best seller» spesso di stampo internazionale (versione ipermediale di libri di successo); o per i grandi classici; verso il romanzo di genere a larga diffusione tra il pubblico più giovane e «informatizzato»; fors’anche però verso certi sottogeneri, quali la prosa breve, il frammento, la poesia ecc., che proprio per la sinteticità degli «oggetti da tradursi» sembrano adattarsi alle nuove tecnologie meglio di altri generi narrativi. Questa ipotesi si può ricavare tenendo in considerazione quanto elaborato da Michel Bernard a proposito della tarsposizione della letteratura su supporti e con strumenti ad essa «impropri» (cfr. Bernard, 1998).
[2] «Narrativa ad albero» teoricamente ramificantesi ad libitum.
[3] Come ad esempio il RengaNet, consistente in un’interfaccia di lettura e scrittura di gruppo sviluppata con una tecnologia Java. “In sostanza il progetto propone un percorso individuale di fruizione dell’opera all’interno di parti della stessa, scritte da altri fruitori. In questo modo ogni lettore-autore ha la possibilità di attaccare (come ormai il gergo impone) parti di scritti originali a testi già esistenti con una formula di crescita a raggiera dell’opera stessa” (D’Orsi, 1998).
[4] “Programs which automatically arrange words and images” (Funkhouser, 1996: online).
[5] Si preferisce impiegare tale termine al posto del fuorviante «autore», vista la grande competenza necessaria, nei più svariati campi (scrittura, grafica, suono, video, programmazione ecc.), per poter produrre «opere» di tal genere abbastanza degne.
[6] I corsivi all’nterno delle citazioni sono di Berman stesso.
[7] Per quanto suggestiva e appassionante, l’impostazione di Berman porge il fianco a rilievi critici soprattutto nella mancanza di precisazione di uno dei suoi concetti fondamentali: quello di «necessità scritturale», che sembra rimanere troppo vago e arbitrario. Inoltre, l’analisi testuale, senza voler essere troppo tecnicistica e pur mantenendo un alto grado di «leggibilità», dovrà probabilmente essere «corretta» nel senso, ad esempio di Koller (1983) o altri, per non venire accusata di mancanza di «oggettività» o di assenza di scientificità».
[8] Per il concetto di “testo di scalo” cfr. Nadiani, 1999b: online.
[9] “Lavagnino individua nell’«hypertext edition» la possibilità di muoversi tra la lettura di una singola versione di un testo e il suo studio in relazione alle altre, aggiungendo che la versatilità dell’ambiente digitale rende preziosa, per gli studi di critica del testo, la struttura ipertestuale delle versioni multiple, che deve aprire allo studioso almeno quattro indispensabili compiti: la selezione delle versioni cui prestare attenzione; il confronto tra loro; la costruzione del testo nuova e possibilmente più rappresentativa, perseguita sulla base delle informazioni disponibili nell’ambiente digitale; l’integrazione dei risultati offerti dall’edizione elettronica con quelli raggiunti con altri studi e linee critiche” (Cadioli, 1998: 46-47).
[10] Nel suo saggio Il progettista multimediale, Luca Toselli, delineando le funzioni e gli obiettivi concreti (soprattutto nei capitoli sulla progettazione e produzione dei multimedia) di alcune nuove figure professionali, implicitamente tocca alcune problematiche che la critica di tali prodotti culturali dovrà affrontare.
©inTRAlinea & Giovanni Nadiani (2000).
"La critica della traduzione letteraria nell’epoca della letteratura digitale Alcuni spunti a partire dal “metodo Berman”", inTRAlinea Vol. 3.
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/archive/article/1629