Gli interpreti presso il tribunale penale di Roma
Un’indagine empirica
By Annalisa Sandrelli (Università degli Studi Internazionali di Roma- UNINT, Italy)
Abstract & Keywords
English:
This paper presents a research project on court interpreting currently under way at LUSPIO university in Rome, involving a number of final-year interpreting students. Questionnaires were administered to interpreters and magistrates at the Rome Criminal Court to find out about their perception of interpreters’ role, skills, competences and ethical principles. The main results obtained from the interpreters’ questionnaires are commented here: they provide an insight into current training needs.
Italian:
Il presente lavoro illustra un progetto di ricerca sull’interpretazione di tribunale in corso presso l’università LUSPIO di Roma, con la collaborazione di alcuni laureandi in interpretazione di conferenza. Sono stati somministrati dei questionari a interpreti e magistrati del Tribunale Penale di Roma per studiare la loro percezione di ruolo, abilità, competenze e principi deontologici dell’interprete. L’articolo commenta i principali risultati ottenuti dai questionari degli interpreti e gli spunti emersi relativamente alle attuali esigenze di formazione.
Keywords: interpreting skills and techniques, court and legal interpreting, fair trial, interpreti di tribunale, indagine, competenze e tecniche di interpretazione, giusto processo
©inTRAlinea & Annalisa Sandrelli (2011).
"Gli interpreti presso il tribunale penale di Roma Un’indagine empirica", inTRAlinea Vol. 13.
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/archive/article/1670
1. Premessa
L’Europa sconta un forte ritardo nell’organizzazione dei servizi di traduzione e interpretazione in ambito giudiziario rispetto a paesi come Stati Uniti, Canada e Australia, in cui le varie ondate migratorie hanno obbligato nel corso degli anni le autorità competenti a dare delle risposte. Non è un caso che gli stati europei più avanzati in questo ambito siano quelli che da più tempo accolgono stranieri ed immigrati, come ad esempio Gran Bretagna, Svezia e Belgio. I paesi del Mediterraneo sono abbastanza indietro, poiché solo in anni recenti si sono trasformati da paesi a forte emigrazione in paesi a forte immigrazione, con conseguenze facilmente immaginabili per servizi come la sanità, la giustizia, la scuola e l’amministrazione locale.
Negli ultimi anni questi aspetti hanno cominciato a ricevere l’attenzione che meritano, in particolare grazie a dei progetti finanziati dalla Commissione Europea allo scopo di conoscere meglio la realtà dei paesi membri della UE: Grotius 1 (Hertog 2001), Grotius 2 (Hertog 2003) e Agis (Keijzer-Lambooy e Gasille 2005). Queste indagini, svolte con il contributo di magistrati e avvocati di vari paesi UE, oltre che di interpreti e traduttori operanti in ambito giudiziario, hanno portato alla luce la grande variabilità dei servizi di traduzione e interpretazione, sia dal punto di vista quantitativo (effettiva disponibilità di professionisti qualificati) che qualitativo (del servizio offerto).
Nel tentativo di ottenere una panoramica più completa, è stata svolta un’indagine sistematica in tutti gli stati membri dell’Unione Europea, i cui risultati sono stati pubblicati in Hertog e Van Gucht (2008). È stato inviato lo stesso questionario a più di mille interlocutori del sistema giudiziario dei 27 paesi UE (ministeri della giustizia, docenti universitari di traduzione e interpretazione, associazioni professionali di interpreti e traduttori, e così via), ottenendo un tasso di risposta del 20% circa (194 questionari restituiti). Le informazioni sono state utilizzate per compilare un profilo di ciascun paese, con indicatori che riguardano le garanzie procedurali, la regolamentazione della professione, la qualità e la quantità dei servizi di traduzione e interpretazione[1].
Per quanto riguarda l’Italia, gli indicatori ci attribuiscono un profilo superiore alla media, alla pari con la Svezia per i servizi di Interpretazione, con Regno Unito e Austria per quelli di Traduzione, e con Danimarca, Olanda e Francia per entrambe le specialità. L’Italia si trova, secondo i dati, in una situazione migliore di Belgio, Germania e Spagna. Tuttavia, in questi paesi la professione di interprete e traduttore è maggiormente regolamentata che in Italia: esistono degli albi degli interpreti e traduttori, delle associazioni di interpreti giudiziari e traduttori giuridici[2], degli esami di stato per conseguire l’abilitazione alla professione, dei corsi universitari specifici e così via. Bisogna ricordare che invece nel nostro paese non solo non esiste un albo professionale degli interpreti e traduttori giudiziari, ma nemmeno uno di quelli generici. Inoltre, la normativa italiana vigente, pur tutelando l’imputato alloglotta, contiene diverse ambiguità e imprecisioni: per esempio, non fa distinzione tra traduttore e interprete e non stabilisce criteri chiari per il conferimento dell’incarico (Alimenti 1999; Ballardini 2002, 2005; Longhi 2004-2005). Chiunque sia ritenuto idoneo dall’autorità procedente può essere nominato: a tale scopo esistono appositi elenchi istituiti presso i tribunali, ma i requisiti di iscrizione variano (si veda §2) e in ogni caso tale iscrizione non è strettamente necessaria. Inoltre, la normativa non è del tutto chiara neanche in riferimento a chi abbia diritto a questo tipo di assistenza a carico dello stato (Longhi 2004-2005):
Il solo fatto che un imputato straniero non possegga la cittadinanza italiana non è di per sé presupposto unico e sufficiente per l’assegnazione di un interprete. Il cittadino straniero, infatti, ha diritto a tale assistenza previa dimostrazione della sua insufficiente conoscenza dell’italiano (Ballardini 2002: 208). Al contempo, però, la normativa non suggerisce procedure specifiche volte a verificare la sua competenza linguistica, né tanto meno fissa parametri di riferimento per la valutazione delle stesse.
Di conseguenza, i risultati relativi all’Italia ottenuti da Hertog e Van Gucht (2008) lasciano quanto meno perplessi. Gli autori sono ben consapevoli dei limiti del loro lavoro che non ha pretese di esaustività, anche perché il riscontro da parte delle fonti ministeriali è stato scarsissimo in tutti i paesi UE; inoltre, rilevano la scarsa coerenza delle risposte ottenute (spesso rivelatesi contraddittorie) e sottolineano che in generale i servizi di traduzione e interpretazione in ambito giudiziario non possono essere considerati soddisfacenti nell’Unione Europea nel suo complesso.
In particolare, bisogna tener presente che il profilo dell’Italia si basa soltanto su 16 questionari restituiti (su 48 interlocutori italiani contattati), di cui nessuno proveniente da una fonte ministeriale. Di qui lo spunto per le ricerche intraprese presso la LUSPIO di Roma, dove da due anni è stato attivato un modulo di Interpretariato in ambito sociale all’interno della laurea specialistica in interpretazione di conferenza[3] e vengono seguite alcune tesi di laurea su queste tematiche.
2. L’indagine presso il Tribunale Penale di Roma
Per l’esame di Interpretariato in ambito sociale gli studenti non romani devono elaborare una tesina con i risultati di un lavoro di ricerca sui servizi di interpretariato destinati agli stranieri nelle loro città di origine, mentre quelli romani svolgono l’indagine presso i vari Municipi. Utilizzando un modello d’intervista fornito dalla docente, gli studenti intervistano responsabili sanitari, cancellieri dei tribunali, cooperative di servizi agli immigrati, interpreti, e così via. Per quanto riguarda l’ambito giudiziario, finora è stato possibile reperire informazioni sui Tribunali di Arezzo, Bari, Caltagirone, Frosinone, Matera, Orvieto, Palermo, Perugia, Potenza, Reggio Calabria, Rimini, Roma, Santa Maria Capua Vetere, Taranto, Terni e Velletri[4].
Presso tutti i tribunali presi in esame è stata riscontrata l’iscrizione di interpreti e traduttori negli appositi albo dei periti (penale) e albo dei consulenti tecnici (civile). I requisiti d’iscrizione a tali elenchi, tuttavia, non risultano essere omogenei (come del resto già sottolineato in Alimenti 1999, 2004a e 2004b). In alcuni casi è richiesta una preliminare iscrizione al ruolo dei periti e degli esperti presso la Camera di Commercio. Generalmente è richiesta la laurea, ma non necessariamente in interpretariato, traduzione o lingue; nel caso di lingue rare è accettabile anche un diploma di scuola superiore, soprattutto da parte dei non italiani. I candidati presentano i loro titoli e solo in qualche caso è previsto un colloquio con una commissione di valutazione: di conseguenza, le competenze linguistiche dei candidati non sono sempre verificate, neanche per quanto riguarda la conoscenza dell’italiano da parte di aspiranti interpreti e traduttori stranieri.
Questa scoraggiante situazione ci ha indotto ad intraprendere una ricerca di più ampio respiro presso il Tribunale Penale di Roma, dove opera da più di quaranta anni la collega Anna Caterina Alimenti, autrice di numerose pubblicazioni dedicate a queste tematiche (Alimenti 1999, 2004a, 2004b e 2005).
2.1 La raccolta dei dati
Il lavoro di ricerca sul campo è svolto grazie alla collaborazione di alcuni laureandi in interpretazione che hanno scelto di approfondire tematiche legate all’ambito giudiziario nella loro tesi di laurea. Sono già state completate due tesi dedicate alla situazione degli interpreti presso il Tribunale penale di Roma (Carnevali 2008-2009; Atanasio 2009-2010), una tesi sull’interpretazione per le forze dell’ordine nella provincia di Frosinone (Datti 2008-2009), e una sui servizi di mediazione e interpretazione disponibili presso Regina Coeli e Rebibbia a Roma e il carcere Don Bosco di Pisa (Bennati 2008-2009). Tutte queste ricerche hanno prodotto una grande quantità di dati interessanti, che saranno oggetto di una pubblicazione più ampia in un prossimo futuro. Qui per motivi di spazio ci limitiamo a fare alcune considerazioni sugli interpreti operanti presso il tribunale penale di Roma, commentando i tratti salienti dell’indagine condotta da Carnevali (2008-2009) e Atanasio (2009-2010) in rapporto alle osservazioni contenute nel “Position Paper. L’interprete giudiziario e il traduttore giuridico”, della commissione Traduttori e Interpreti di Tribunale dell’AITI (Caciagli, Balletto e Rivezzi 2009). Carnevali e Atanasio hanno intervistato mediante appositi questionari interpreti, PM e magistrati[5]. In totale sono stati intervistati 41 interpreti e 77 magistrati tra giudici e PM[6]. Si tratta dell’indagine più ampia mai realizzata in Italia a nostra conoscenza.
Il campione di interpreti intervistati è pari a circa il 20% del totale. Presso la sezione penale del Tribunale Penale di Roma risultano infatti iscritti all’albo circa 180 interpreti di varie nazionalità: italiani, rumeni, albanesi, polacchi, latino-americani, bulgari, siriani, egiziani, cittadini del Maghreb, bengalesi, indiani, afgani, senegalesi, nigeriani, cinesi e così via. Come si vede, tali nazionalità rispecchiano le ondate migratorie verso l’Italia degli ultimi venti anni.
Circa il 70% degli interpreti intervistati era di sesso femminile, con un’età media tra i 45 e i 50 anni e con esperienza variabile da 3 a 10 anni. Nel caso del campione intervistato da Carnevali, il 72% aveva almeno 10 anni di esperienza; gli interpreti intervistati da Atanasio invece avevano 10 anni di esperienza nel 44% dei casi, mentre il 39% aveva tra 3 e 6 anni di esperienza. In nessun caso si trattava di principianti che non conoscessero l’ambito di lavoro. Nel primo studio la stragrande maggioranza degli interpreti che hanno acconsentito all’intervista era iscritta all’albo del tribunale, nel secondo c’era un 31% che non era iscritto all’albo e nonostante questo lavorava abbastanza regolarmente per il Tribunale. La legge lo consente in virtù del comma 1, art. 221 c.p.p. che stabilisce che l’autorità giudiziaria può nominare un perito non iscritto all’albo, motivandone la scelta. Nel caso degli interpreti, poiché non esiste un vero e proprio albo professionale, l’iscrizione agli elenchi dei tribunali costituisce una (seppur minima) garanzia di selezione: di conseguenza, la nomina di interpreti non iscritti dovrebbe essere limitata alle situazioni in cui le esigenze del caso non possano essere soddisfatte, ad esempio una lingua straniera o un dialetto particolarmente raro. Il Protocollo di lavoro degli interpreti e traduttori del Tribunale di Roma stabilisce altresì che “fermo restando i casi in cui va privilegiato il rapporto fiduciario tra magistrato e interprete, i magistrati e i loro collaboratori si impegnano a utilizzare interpreti e traduttori secondo criteri di rotazione, che garantiscano omogenee modalità di impiego”. È evidente che il conferimento dell’incarico a soggetti non presenti sugli elenchi del Tribunale è contrario a questa logica.
Ancora più preoccupanti sono i dati sulla formazione: sebbene un’alta percentuale degli intervistati dichiari di essere laureato, solo in pochi casi ha un titolo di studio in lingue o traduzione (9 su 41); inoltre, solo il 36% circa del totale dichiara di aver seguito un corso in traduzione o interpretazione e quasi tutti gli intervistati dichiarano di aver imparato “sul campo”. Viene da chiedersi se di questa fase di “apprendimento” possa aver fatto le spese qualcuno nel corso degli anni.
2.2 Il ruolo dell’interprete
Come abbiamo visto, la maggioranza degli interpreti intervistati è sostanzialmente autodidatta e ha sviluppato negli anni alcune convinzioni sul proprio ruolo e sulle competenze necessarie per operare con successo in aula. Per esempio l’83% di essi (34 su 41) dichiara che la competenza più importante per svolgere questo lavoro è il bilinguismo, concetto che non viene ulteriormente precisato ma che sembra essere parzialmente disgiunto dal biculturalismo, citato solo dal 61% degli intervistati. Colpisce che per ben 8 interpreti (quasi il 20% del campione) il concetto di bilinguismo si identifichi con l’essere di una madrelingua diversa dall’italiano (e magari avere alle spalle un vissuto migratorio come buona parte degli assistiti). L’essere bilingue non può essere considerata una condizione sufficiente per svolgere il lavoro di traduttore-interprete, a meno che ad essa non si aggiunga una preparazione specifica. Tuttavia, il “mito del madrelingua” è assai diffuso tra i clienti dei servizi di traduzione e interpretazione, ivi compresa l’autorità giudiziaria: è quindi particolarmente grave che sia ancora così radicato anche tra coloro che svolgono questo lavoro. Come ricorda giustamente Valero Garcés (2008: 5-7) ci sono molte differenze tra un bilingue privo di una preparazione specifica e un traduttore/interprete professionista. Ne ricordiamo solo alcune:
- un bilingue può avere una scorrevolezza limitata in una delle due lingue; al traduttore/interprete professionista è invece richiesta pari scorrevolezza nelle due lingue di lavoro. Da più parti si sottolinea che il livello di conoscenza delle due lingue necessario per operare in modo adeguato in tribunale debba essere il C2 o il C1 del QCER (“Quadro Comune di Riferimento Europeo per le lingue”), cioè una conoscenza assai approfondita sia dello scritto che del parlato (Caciagli, Balletto e Rivezzi 2009, European Commission 2009). In particolare, non può essere data per scontata la conoscenza della varietà scritta della lingua del paese di accoglienza da parte di uno straniero che vi risiede anche da molti anni;
- un bilingue non ha un codice etico di riferimento, né una preparazione che gli consenta di trasmettere un messaggio in modo completo, senza omettere dettagli importanti; il traduttore-interprete professionista dovrebbe aver avuto una formazione che comprende anche il codice deontologico della professione[7], oltre alle tecniche di traduzione e interpretazione e le modalità di documentazione e preparazione per un incarico;
- un bilingue non professionista può essere maggiormente influenzato da fattori esterni (compassione, familiarità...) ed essere meno obiettivo del traduttore-interprete.
Da parte dei clienti si fa spesso confusione tra interprete e mediatore, e quest’ultimo viene definito variamente come mediatore linguistico, culturale, linguistico-culturale, interlinguistico, interculturale e così via. Neanche le denominazioni sono stabilizzate in questo ambito, come ricorda Blini (2008) che prende in esame l’incoerenza e la vaghezza terminologica esistente in merito sia in ambito universitario che normativo. Di conseguenza, nella nostra indagine abbiamo cercato di verificare se la differenza tra queste due professioni, interprete e mediatore, fosse chiara almeno agli interpreti del Tribunale. Purtroppo gli interpreti intervistati dimostrano di avere una consapevolezza ridotta del proprio ruolo e dei limiti entro i quali sono chiamati ad operare: si vedono per lo più come professionisti che lavorano esclusivamente sulla lingua, realizzando una traduzione più “scientifica” in modo asettico, senza empatia; il mediatore invece sarebbe colui che ha una maggiore padronanza della cultura straniera e che realizza una traduzione più elementare, permettendo di stabilire un vero dialogo con lo straniero grazie all’empatia che prova nei suoi confronti. Tale visione è non solo semplicistica e riduttiva per entrambi i ruoli, ma è anche pericolosamente simile a quella di un profano; è inoltre evidente il tentativo di conferire maggiore dignità professionale al proprio lavoro di interprete a scapito dei mediatori.
L’indagine si proponeva di chiarire a quali principi questi interpreti ispirassero il loro lavoro, dato che pochissimi prendono spunto da un codice deontologico di associazioni italiane o straniere (l’83% ha dichiarato di non conoscere nessun codice). A tale proposito Caciagli, Balletto e Rivezzi (2009) raccomandano l’adesione ad un’associazione professionale con un proprio statuto e codice deontologico, in quanto l’aver interiorizzato dei solidi principi consente di affrontare le situazioni più spinose con cognizione di causa. Proprio per questo, il nostro questionario conteneva diverse domande sul dovere di neutralità, sull’accuratezza della traduzione e sulle tecniche utilizzate in aula.
Non tutti gli intervistati sembrano essere consapevoli che dal loro lavoro può dipendere l’andamento del processo: il 17%, infatti, si sente poco o per niente responsabile della riuscita di un interrogatorio, a fronte di un 56% che si ritiene totalmente responsabile e di un 15% che si sente ugualmente responsabile insieme alle parti[8].
Per quanto riguarda il dovere di neutralità, questi interpreti non sembrano aver analizzato approfonditamente la questione: un’alta percentuale, il 59%, dichiara di non trovare per niente difficile rimanere neutrale nella sua professione; solo il 29% ammette di trovarlo abbastanza difficile, il 7% molto difficile e il 5% difficile. Considerati i tipi di processi penali che più comunemente richiedono la presenza di un interprete a Roma (droga, prostituzione, criminalità organizzata, allontanamento dal territorio dello Stato), ci sembra che questi risultati dimostrino che alcuni interpreti non si sono interrogati a sufficienza su questo aspetto.
2.3 Il lavoro in aula
L’AITI sottolinea che il poco preavviso e l’assenza di informazioni sul caso nel quale si è chiamati a tradurre possono pregiudicare il buon esito della comunicazione. Prima di tutto dovrebbe essere fornita all’interprete “informazione sufficiente sull’incarico per poter comprendere se è in grado di espletarlo” (Caciagli, Balletto e Rivezzi 2009: 9). Dopodiché, se l’incarico viene accettato, all’interprete dovrebbero essere fornite tutte le informazioni necessarie (fascicolo del processo, documenti da tradurre a vista, ecc.) e concesso un tempo ragionevole per prepararsi. Tuttavia, poiché vige il segreto istruttorio, è raro conoscere in anticipo perfino il reato di cui è accusato l’imputato (Alimenti 1999); senza contare che esistono delle tipologie di processo, come le direttissime, per le quali si è convocati il giorno stesso della nomina. La nostra indagine conferma che uno degli aspetti più problematici del lavoro è proprio questo: l’80% degli intervistati dichiara di non avere a disposizione neanche un giorno per prepararsi e il 65% dichiara di non ricevere nessuna informazione sul caso se non la lingua parlata dall’imputato (il 35% restante riesce ad ottenere qualche informazione dalla polizia giudiziaria subito prima di entrare in aula, quindi comunque senza preavviso). Infine, assai di rado viene concesso all’interprete di avere un breve colloquio con la persona straniera per presentarsi e spiegare brevemente il suo ruolo: il magistrato lo permette solo se l’assistito non è l’imputato (se è la vittima o un testimone) o nel caso in cui sia l’avvocato difensore a chiedere aiuto.
Anche per quanto riguarda il lavoro effettivamente svolto in tribunale, la realtà che emerge dall’inchiesta si discosta notevolmente dalle raccomandazioni dell’AITI. Caciagli, Balletto e Rivezzi (2009: 6) sottolineano che è necessario saper usare tutte le principali tecniche di interpretazione, tra cui la simultanea, la consecutiva e la trattativa “sempre con presa d’appunti”. Ciò consente di riprodurre il messaggio della LP (lingua di partenza) nella LA (lingua di arrivo) con precisione, senza omissioni, spiegazioni o parafrasi, con lo stesso stile e registro linguistico. Invece, nel nostro caso il 54% degli intervistati ha rivelato di lavorare in piedi accanto all’imputato (che è seduto), facendo lo chuchotage dall’italiano nella lingua straniera e utilizzando la consecutiva senza appunti dalla lingua straniera in italiano, il tutto solitamente con un solo microfono che imputato e interprete devono passarsi continuamente o che è utilizzato solo dall’interprete quando traduce in italiano. In queste condizioni, anche se l’interprete ha le necessarie competenze di interpretazione consecutiva, risulta praticamente impossibile prendere appunti. Anche quando l’interprete può sedere accanto all’imputato, il ritmo del dialogo nel processo rende pressoché impossibile prendere appunti nella maniera consueta.
A queste difficoltà logistiche si aggiungono quelle della comunicazione in tribunale che non sempre è lineare. Poco meno della metà degli intervistati (41%) rileva che a volte il giudice e il PM tendono a sovrapporsi all’interprete, non permettendo di concludere la traduzione. Inoltre, il 32% sostiene che a volte gli/le è stato chiesto di riassumere o di non tradurre ciò che era stato detto dall’imputato: un intervistato spiega che questo avviene “nel caso in cui l’imputato inizi a dare delle spiegazioni troppo lunghe e non attinenti alle domande”. Come si può facilmente comprendere, una richiesta di questo genere da parte dell’autorità giudiziaria introduce un elemento di arbitrarietà e soggettività nella comunicazione: si chiede infatti all’interprete di selezionare le informazioni più rilevanti. Inoltre il 42% degli interpreti ammette che gli capita di aggiungere qualcosa al testo di partenza durante la traduzione, per facilitarne la comprensione. Più sospetto appare il 75% degli intervistati che sostiene di non omettere mai nulla, una convinzione francamente poco credibile, stanti le condizioni di lavoro appena descritte. Bisogna sottolineare che sia le aggiunte che le omissioni vanno evitate con cura nel lavoro in aula, poiché l’interprete
deve [...] sempre ricordare che una frase che lui giudica insignificante può successivamente rivelarsi molto importante all’interno del processo. Persino su una parola, a volte, si decide la libertà altrui. Egli non può quindi aggiungere né togliere nulla, anche se ciò è molto difficile visto il modo pressante in cui normalmente si lavora (Alimenti 1999: 10).
Un altro aspetto che può complicare la comunicazione in tribunale è l’uso della prima e della terza persona nel tradurre. Caciagli, Balletto e Rivezzi (2009: 8) sottolineano che l’uso della prima persona “evita possibili confusioni, aiuta gli stenotipisti nella corretta trascrizione, rendendo chiara la persona che in quel momento interloquisce, e facilita la comunicazione diretta tra le parti, che possono dialogare come se non vi fossero barriere linguistiche”. Tale opinione è largamente condivisa (Mikkelson 2000 e Corsellis e Fernández 2001, per citare solo due contributi recenti): tuttavia, nel nostro campione il 36% degli interpreti ha dichiarato di usare sempre la terza persona, il 29% la prima o la terza persona a seconda dei casi e solo il 22% usa sistematicamente la prima persona; il dato restante indica coloro che usano la prima persona per l’imputato e la terza per il giudice o PM. Quello che preoccupa è l’evidente disomogeneità nell’approccio, che però è riscontrabile anche nei magistrati. Secondo i nostri interpreti, infatti, nel 17% dei casi il giudice parla all’imputato straniero indirettamente, utilizzando locuzioni come “chieda all’imputato se…”, nel 35% dei casi si rivolge a lui/lei direttamente, e nel restante 48% “dipende”, cioè dipende dal giudice che presiede l’udienza. Si fa notare che queste percentuali non sono dati basati su reali rilevazioni compiute da parte di personale del Tribunale, ma rappresentano la percezione degli interpreti sull’operato dei giudici, e in quanto tale è interessante metterla a confronto con quanto dichiarato dai giudici, dato che il questionario per magistrati comprendeva la stessa domanda. In effetti, le risposte dei magistrati hanno confermato una disomogeneità nell’approccio, ma con differenze sostanziali nelle percentuali ottenute nei questionari somministrati agli interpreti: il 67% dei magistrati sostiene di usare il discorso diretto, il 28% il discorso indiretto e il 5% dichiara che dipende dal contesto processuale e dal tipo di esame. Nella proposta di codice deontologico elaborato nell’ambito del progetto Grotius I si fa esplicito riferimento ai chiarimenti che l’interprete dovrebbe fornire alle parti sull’uso del discorso diretto (Corsellis & Fernández 2001), una raccomandazione la cui utilità ci sembra dimostrata dai dati appena illustrati.
Infine, un breve accenno al rapporto tra remunerazione e soddisfazione professionale. Per consentire agli interpreti e traduttori di svolgere al meglio il loro lavoro, è necessario garantire delle condizioni di lavoro adeguate e dignitose. Il bassissimo livello di remunerazione stabilito per decreto dal Ministero di Grazia e Giustizia ha causato
un esodo dei professionisti qualificati dalle aule giudiziarie, specie per i mancati criteri di selezione, che di fatto consentono anche a chi non possiede i requisiti necessari di essere automaticamente qualificato come interprete e/o traduttore e, dati i risultati, ledendo e squalificando un’intera categoria di professionisti (Caciagli, Balletto e Rivezzi 2009: 8).
Tale tendenza è lamentata da più parti (Ballardini 2002; Alimenti 2004b; Dalla Chiesa 2009; AITI 2010) ed è confermata anche da un dato contenuto nella nostra inchiesta. Il 32% degli interpreti intervistati ritiene la propria situazione professionale insoddisfacente (da non molto soddisfacente a per nulla soddisfacente), contro un 68% di risposte positive: all’interno di queste ultime, però, solo il 13% rappresenta un convinto “totalmente soddisfatto”, mentre la stragrande maggioranza (il 55%) ha espresso una valutazione che è solo “abbastanza” positiva. I motivi di questa diffusa insoddisfazione sono da ricercarsi nell’assenza di un adeguato riconoscimento del proprio ruolo e nell’estrema precarietà del lavoro, definito dal 67% degli interpreti come “temporaneo”: infatti, come era prevedibile, una percentuale altissima (l’85%) svolge anche un altro lavoro, a volte affine (mediatore culturale, insegnante, traduttore) e a volte in ambiti che nulla hanno a che vedere con l’interpretazione e la traduzione (musicista, psicologa, addetta alle vendite, massaggiatrice…).
3. Conclusioni
Questo breve excursus su alcuni dei risultati più significativi delle nostre ricerche ha evidenziato diverse lacune nella formazione degli interpreti intervistati e una serie di problematiche logistiche e operative, accompagnate da una scarsa consapevolezza del ruolo dell’interprete e delle sue competenze sia da parte degli interpreti stessi che da parte dell’autorità giudiziaria. Sono evidenti le esigenze formative degli interpreti che vanno soddisfatte attraverso dei corsi mirati comprendenti, come minimo, nozioni di diritto e procedura penale, deontologia e prassi e tecniche di interpretazione. Anche la parallela indagine condotta sui magistrati, a cui abbiamo fatto solo qualche cenno, ha portato alla luce diversi aspetti su cui sarebbe auspicabile intervenire, magari attraverso dei corsi di aggiornamento sulle dinamiche della comunicazione mediata dall’interprete.
Episodi di cronaca recente, come il ripetuto rinvio di un processo penale presso il tribunale di Roma a carico di due cittadini dello Sri Lanka a causa della difficoltà di reperire un interprete di cingalese (Di Gianvito 2010), o l’arresto di un cittadino marocchino coinvolto nelle indagini sulla scomparsa della tredicenne Yara Gambirasio a causa di un’errata interpretazione di un’intercettazione telefonica (Carlucci 2010), non fanno che evidenziare i problemi di fondo. Nel tentativo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema, l’AITI ha diramato un comunicato il 10 dicembre scorso (AITI 2010), commentando il caso Gambirasio e sollevando una serie di questioni.
Questo non è un caso isolato, in passato sono stati già tanti gli errori giudiziari dovuti a traduzioni sbagliate. E probabilmente casi come questo si ripeteranno anche in futuro se non si affronteranno una volta per tutte le problematiche che conducono a questa anomalia. Prima di sparare sul traduttore e farne, come spesso capita, un capro espiatorio, occorre invece prendere coscienza del fatto che sovente l’errore viene commesso a monte, cioè al momento della scelta del traduttore/interprete. (AITI 2010)
Occorre ricordare che la tutela linguistica dell’imputato allofono non è un lusso ma un diritto di quest’ultimo. Come infatti ricorda Longhi (2004-2005),
Scopo ultimo di questa tutela linguistica, che è gratuita, è quello di far sì che l’imputato sia presente, vale a dire parte attiva del procedimento [...] al quale partecipa e la cui piena comprensione è presupposto fondamentale per l’esercizio di una difesa consapevole, conditio sine qua non per lo svolgimento di un giusto processo.
A questo proposito, l’Unione Europea ha recentemente ritenuto di dover rafforzare i diritti procedurali di indagati e imputati. Tramite la Direttiva 2010/64/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, sono stati stabiliti alcuni provvedimenti importanti per l’attuazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale da parte degli Stati membri. In particolare, questi ultimi dovranno garantire agli indagati e agli imputati che non comprendono la lingua del procedimento penale l’assistenza di un interprete dinanzi alle autorità inquirenti e giudiziarie (inclusi gli interrogatori di polizia), in tutte le udienze (comprese le necessarie udienze preliminari) e nei contatti con il proprio avvocato. Gli Stati membri dovranno inoltre garantire la traduzione scritta dei documenti fondamentali del procedimento penale. Inoltre, i paesi che attualmente non dispongono di un registro dei traduttori e interpreti indipendenti e debitamente qualificati (come il nostro) si impegnano ad istituirne uno. È evidente che, per affrontare tali sfide, è necessario avere un sistema di formazione adeguata e il tempo a disposizione per correre ai ripari non è molto: infatti le disposizioni legislative di recepimento della direttiva dovranno essere emanate dagli Stati membri entro il 27 ottobre 2013. Già nel 2005, del resto, Ballardini sottolineava che, traendo insegnamento dall’esperienza di altri paesi (europei e non), la soluzione a queste problematiche doveva risiedere “nella creazione di percorsi formativi ad hoc, che portano al conseguimento di un attestato di idoneità” (Ballardini 2005: 170).
Negli ultimi anni sono stati fatti alcuni importanti passi avanti. Innanzitutto è da rilevare la creazione di EULITA, l’Associazione Europea di Traduttori e Interpreti Giuridici, nata ad Anversa nel novembre 2009 con l’obiettivo di rappresentare gli interessi della professione del traduttore e interprete giuridico dinanzi alle organizzazioni europee sia nazionali che internazionali. Inoltre, l’indagine del Reflection Forum, il gruppo di esperti incaricato dalla Commissione di studiare le esigenze formative di interpreti e traduttori in Europa, ha stabilito dei requisiti minimi e ha fornito indicazioni precise per l’organizzazione di appositi corsi che portino a delle qualifiche riconosciute nei vari paesi (European Commission 2009: 13):
The Reflection Forum recommends that Member States provide appropriate training in legal interpreting, both for new and already practising legal interpreters. Such training should lead to a nationally recognized professional certification and be accredited by a recognized authority).
Infine, il progetto Building Mutual Trust. A Framework Project For Implementing EU Common Standards In Legal Interpreting And Translation (2008-2010), finanziato dalla Commissione Europea, ha elaborato dei criteri uniformi, validi per tutti i paesi europei, per pianificare dei corsi di formazione per interpreti e traduttori giuridico-giudiziari (legal interpreters and translators, o LIT) [9]. Si è partiti dall’individuazione delle competenze e abilità necessarie per operare come LIT, per poi proporre un’articolazione didattica strutturata e un repertorio di attività didattiche esemplificative per tali corsi[10]. Anche sul fronte italiano registriamo qualche segnale positivo, come la mobilitazione delle due principali associazioni di categoria, l’ANTIMI (Associazione Nazionale dei Traduttori e Interpreti del Ministero degli Interni) e l’AITI (Associazione Italiana Traduttori e Interpreti) che nel 2010 hanno dedicato due giornate di studio al tema[11].
È auspicabile che tutti questi interessanti sviluppi inducano anche le autorità italiane, in collaborazione con le università, a prendere provvedimenti in merito.
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Note
[1] In base ai punteggi ottenuti, i profili dei paesi potevano essere classificati nel modo seguente (in ordine crescente): basso (fascia inferiore), basso (fascia superiore), sotto la media (fascia inferiore), sotto la media (fascia superiore), medio (fascia inferiore), medio (fascia superiore), sopra la media (fascia inferiore), sopra la media (fascia superiore), alto (fascia inferiore), alto (fascia superiore).
[2] Ad esempio in Spagna la APTiJ, Asociación Profesional de Traductores e Intérpretes Judiciales y Jurados: [url=http://www.aptij.es]http://www.aptij.es[/url]. In ogni caso la situazione spagnola, nonostante i passi avanti fatti negli ultimi anni, resta insoddisfacente, come avvertono Alonso e Baigorri (2008), Valero Garcés (2008), Ortega Herráez (2006) e molti altri studiosi.
[3] Il corso è impartito dalla professoressa Anna Caterina Alimenti presso la Facoltà di Interpretariato e Traduzione (FIT) e fornisce una panoramica dei principali aspetti dell’interpretariato in ambito sanitario e giudiziario.
[4] Si noterà una preponderanza delle strutture del centro-sud, dovuta al fatto che la nostra università è l’unica ad offrire una laurea specialistica in interpretazione di conferenza in questa zona (le altre due sono Trieste e Bologna, sede di Forlì).
[5] È attualmente in corso un’altra ricerca presso il Tribunale di Roma che cercherà di completare il quadro, mettendo a fuoco l’atteggiamento degli avvocati nei confronti degli interpreti.
[6] Rispettivamente, 18 interpreti in Carnevali (2008-2009) e 23 in Atanasio (2009-2010); 12 magistrati in Carnevali (2008-2009) e 65 in Atanasio (2009-2010). Ricordiamo inoltre che il profilo relativo a tutta Italia in Hertog & van Gucht (2008) si basava su 16 questionari soltanto (si veda §1).
[7] Ovviamente Valero Garcés fa riferimento alla realtà spagnola, dove esiste un’associazione nazionale di categoria con relativo codice deontologico.
[8] Il totale non è 100% perché alcuni interpreti non hanno risposto a questa domanda.
[9] Progetto JLS/2007/JPEN/219 (Commissione Europea). Il progetto ha visto la partecipazione della Metropolitan Police e del Chartered Institute of Linguists (Regno Unito) e di alcune università europee: università del Middlesex, capofila del progetto - Regno Unito; università di Alicante e di Alcalá - Spagna; università di Aarhus e di Copenaghen - Danimarca; università di Iasi - Romania; Lessius Hogeschool - Belgio; LUSPIO - Italia.
[10] Tutto il materiale sarà disponibile su un apposito sito, ancora in via di definizione, che conterrà tutti i documenti elaborati dal gruppo di ricerca, le schede didattiche, demo di materiali didattici elettronici, un repertorio di link utili suddivisi per paese, e così via: [url=http://www.lr.mdx.ac.uk/mutual-trust/index.htm]http://www.lr.mdx.ac.uk/mutual-trust/index.htm[/url].
[11] Rispettivamente l’Evento formativo A.N.T.I.M.I. “Traduzione giuridica e riconoscimento degli interpreti che operano in ambito giudiziario e di polizia” (Bologna 22 maggio 2010) e l’evento AITI Il traduttore/interprete di tribunale e istituzionale - professionisti al servizio dell’economia, delle Istituzioni, e del Cittadino (Roma, 30 settembre 2010).
©inTRAlinea & Annalisa Sandrelli (2011).
"Gli interpreti presso il tribunale penale di Roma Un’indagine empirica", inTRAlinea Vol. 13.
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