La metafora della traduzione come
elemento di identità è utilizzata anche nel saggio Imaginary
Homelands, che dà il titolo al volume omonimo, a suggello
di un brano in cui Rushdie prende in considerazione la posizione degli
scrittori cosiddetti post-coloniali, ovvero di coloro che benché originari di
un paese del sud del mondo (siano essi residenti in tali paesi o siano migrati
in quello che era “il cuore” dell’impero) utilizzano la lingua della nazione da
cui il loro paese è stato colonizzato come veicolo di espressione letteraria. Con
riferimento particolare agli scrittori "post-coloniali" che scrivono
in inglese, Rushdie scrive:
the British Indian writer simply does not
have the option of rejecting English, anyway. His children, her children, will
grow up speaking it, probably as a first language; and in the forging of a
British Indian identity the English language is of central importance. It must,
in spite of everything, be embraced. (The word translation comes,
etymologically, from the Latin for ‘bearing across’. Having been borne across
the world, we are translated men. It is normally supposed that something always
gets lost in translation; I cling, obstinately, to the notion that something
can also be gained.) (Imaginary
Homelands 17)[1]
In questo
brano Rushdie riformula i concetti precedentemente espressi in Shame e nella conversazione televisiva
citata, collegandoli però espressamente alla condizione, di cui si sente
partecipe, di scrittore migrante. Secondo Rushdie l’esistenza stessa di
scrittori anglo-indiani è destinata a produrre un cambiamento
nell’atteggiamento verso l’uso della lingua inglese. Nell’affrontare tematiche e ambientazioni indiane “we can’t simply use
the language the way the British did; … it needs remaking for our own purposes”
(Imaginary
Homelands 17).
In Midnight's Children, ad esempio,
Rusdhie crea un testo scritto in cui confluiscono elementi presi dalla
tradizione della narrativa orale indiana, rifacendosi in parte al modello
offerto dal romanzo All About H. Hatterr,
dello scrittore indiano della prima metà del secolo G. V. Desani:
it showed me that it was possible to break
up the language and punctuate it in a very peculiar way … I found I had to
punctuate it in a very particular way, to destroy the natural rythms of the
English language; I had to use dashes too much, keep exclaiming, putting in
three dots, sometimes three dots followed by semi-colons followed by three
dashes …. That sort of thing just seemed to help to dislocate the English and
let the other things into it. (Kunapipi Interview, citata in
Goonetilleke 1998: 43).
La
lingua dei romanzi di Rusdhie non è però soltanto il risultato di un uso
"non convenzionale" della punteggiatura, ma anche il frutto di una
costante commistione di codici linguistici e convenzioni culturali. Rushdie
compie sulla lingua un'operazione simile a quella di cui ha esperienza come
migrante: se è vero che “[n]ot all migrants are powerless" e che
"[t]hey impose their needs on their new earth, bringing their own
coherence to the new-found land, imagining it afresh” (The Satanic Verses 457), così anche la lingua dello "scrittore
tradotto" trae forza dal processo di ibridizzazione, in cui più di
"ciò che viene perduto" conta "ciò che può essere
guadagnato". La compresenza di diversi codici linguistici e culturali nel
testo "inglese" è costitutiva della lingua stessa: “’the foreigness
of languages’ becomes the inescapable cultural condition for the enunciation of
the mother-tongue” (Bhabha 1994: 166).
Secondo
Prasad (1999: 41-42) tutti i testi creati da scrittori anglo-indiani (ma anche
indiani che adottano l'inglese come lingua letteraria) sono delle traduzioni,
in quanto per essi l’atto stesso della scrittura diventa un atto di traduzione.
Scrivere in inglese significa “a quest for a space
which is created by translation and assimilation and hence transformation of
all three – the Indian text, context and the English language. Thus the English
that each Indian writer uses is partly the message as well as the medium, and
is important in itself” (Prasad 1999: 42). Così come nei romanzi di altri
scrittori anglo-indiani, o “indo-angliani” (intendendo con questo termine gli
scrittori indiani che scrivono in lingua inglese pur vivendo in India), molti
dei personaggi di Rushdie (compreso spesso il narratore) non dovrebbero parlare
in realtà nessun tipo di inglese, ma lo scrittore si trova a raccontare
attraverso la lingua inglese il loro modo di esprimere i pensieri e di vedere
il mondo. La lingua di Rushdie non è inglese indiano né inglese britannico, è
una lingua che crea se stessa mentre l’autore la usa per creare.
Sarebbe
d'altra parte un errore scambiare la lingua in cui si esprimono i personaggi di
Rushdie con un ipotetico "inglese-indiano medio". L’India possiede
sedici lingue ufficiali oltre all’inglese, una situazione in cui interferenze e
fenomeni di transfer di vario tipo sono non solo inevitabili (come in ogni
situazione di contatto linguistico) ma connaturate alla quotidianità di molte
persone. L'inglese indiano comprende varietà come l’educated Indian-English, la kichdi
language della stampa popolare, il Bubu
English e il Butler English, in
corrispondenza di un sempre maggiore grado di interferenza della lingua madre
( Prasad 1999: 46-48). L’influenza esercitata sull'inglese dalle diverse lingue
è infatti diversa a seconda della relativa competenza che di esse hanno i
parlanti e del relativo prestigio sociale esercitato da ciascuna di tali
lingue. La situazione generata dal multilinguismo può inoltre essere vista,
oltre che in termini di code-mixing
anche nel suo aspetto di code-switching,
cioè nell’utilizzo consapevole di lingue o varietà di lingue diverse a seconda
dei contesti e degli interlocutori. Il passare da una varietà all’altra, anche
all’interno di una stessa frase, può avere diverse funzioni, ad esempio quella
di stabilire una vicinanza tra i parlanti, rivelare un’appartenenza geografica
o sociale, o demarcare un preciso contesto. Ad esempio, “[c]ode mixing in English while speaking an Indian language
… may mark a professional or academic context” (Prasad 1999: 47).
A
questo proposito, Prasad analizza un brano tratto da Midnight’s Children, in cui il narratore riporta le parole di
Padma, la sua interlocutrice.
Padma's story (given in her own words, and
read back to her for eye-rolling, high-wailing, mammary-thumping confirmation):
'It was my own foolish pride and vanity, Saleem baba, from which cause I did
run from you, although the job here is good, and you so much needing a
looker-after! But in a short time only I was dying to return. 'So then I
thought, how to go back to this man who will not love me and only does some
foolish writery? (Forgive, Saleem baba, but I must tell it truly. And love, to
us women, is the greatest thing of all.)
'So I have been to a holy man, who taught me what I must do. Then with my few
pice I have taken a bus into the country to dig for herbs, with which your
manhood could be awakened from its sleep ... imagine, mister, I have spoken
magic with these words: "Herb thou hast been uprooted by Bulls!" Then
I have ground herbs in water and milk and said, "Thou potent and lusty
herb! Plant which Varuna had dug up for him by Gandharva! Give my Mr Saleem thy
power. Give heat like that of Fire of Indra. Like the male antelope, O herb,
thou hast all the force that Is, thou hast powers of Indra, and the lusty force
of beasts." (Midnight's Children 192-93)
La frase
introduttiva chiarisce che si tratta della trascrizione del parlato di una
donna illetterata, e Rusdhie caratterizza il suo linguaggio attraverso
deviazioni marcate della grammatica e del lessico. Innanzitutto il termine con
cui Padma si rivolge al narratore, "Saleem baba", è a tutti gli
effetti un prestito, una strategia traduttiva tipicamente adottata nella
traduzione di nomi propri e termini culturalmente molto connotati (cfr.
Lappihalme 1997). Attraverso di esso viene chiarito lo status sociale dei due
interlocutori: "nome proprio" seguito da "baba" è il modo
in cui i servitori, ad esempio le nutrici, si rivolgono ai giovani di famiglia
agiata. Alcuni segmenti della prima frase,
“from which cause I did run from you” e “and you so much needing a
looker-after! “
sono invece fortemente marcati dal punto di vista della sintassi inglese, e
Prasad dimostra come si tratti di traduzioni letterali dall’Urdu (lingua
conosciuta da Rushdie). È inoltre irrealistico che la conversazione si svolga
interamente in inglese, sia pure un inglese appartenente a una varietà sociale
molto bassa, in quanto la maggior parte degli indiani, a prescindere dalla
competenza linguistica, ricorrerebbero a un’alternanza di codici linguistici. Non sarebbe cioè possibile per un personaggio come
Padma pronunciare un discorso di tale lunghezza interamente in inglese: “What
Rushdie has attempted here is to locate the character in terms of region, class
and gender through the construction of a specific English using the strategies
and resources of a translator” (Prasad 1999: 53). Quella che
potrebbe sembrare la trascrizione di un testo orale di un parlante di una
varietà di inglese è in realtà una traduzione accuratamente costruita. La
strategia di Rusdhie è di tradurre quanto più possibile letteralmente,
lasciando inalterati solo i termini più culturalmente connotati e segnalando le
variazioni di registro. La formula di preghiera citata da Padma contiene alcuni
elementi lessicali appartenenti ad un registro "biblico", certamente
non attribuibili a Padma ma probabilmente usati per indicare che tale formula
viene pronunciata in una varietà temporalmente remota, probabilmente sanscrito
(Prasad 1999: 53).
La creazione di una lingua attraverso strategie
tipicamente traduttive non è un fenomeno che riguarda esclusivamente i
dialoghi: “apart from dialogue, even in description, narration and reflection,
the Indo-Anglian novelist is dealing with modes of thinking, manners of
observation, and instinctive responses of people whose awareness has been
conditioned by a language other than English” (Mukherjee 1971: 174)
Le
scelte che lo scrittore anglo-indiano si trova ad affrontare per far esprimere
i suoi personaggi in inglese, una lingua che non è quella in cui essi
realisticamente si esprimerebbero, sono simili a quelle compiute da un
traduttore. Lo scopo dello scrittore non è quello di riprodurre le
caratteristiche della varietà di inglese parlato in una determinata regione del
subcontinente indiano ma piuttosto quello di creare un inglese che soddisfi le
loro esigenze creativo / traduttive.
Gli
scrittori indiani che scrivono in lingua inglese operano in un contesto non
solo multilinguistico ma anche multiculturale, ed è pertanto possibile che un
lettore in una cultura diversa abbia delle difficoltà a comprendere e
interpretare i loro testi, anche se non contengono nulla di inintelligibile o
apparentemente tradotto. Non sarà inoltre solo il lettore non indiano a doversi
riorientare all’interno di tali testi, ma anche lettori indiani con un background linguistico e culturale
diverso da quello dell’autore. Questa considerazione si applica anche alla
categoria degli scrittori “migranti” come Rushdie, sia che l’ambientazione dei
loro romanzi sia quella dei loro paesi di origine sia che si tratti dello
spazio in cui i loro personaggi sono “tradotti”. Per interpretare il testo il
lettore dovrà essere in grado di comprendere il contesto storico e culturale
nel quale il testo è situato, così come avviene per una traduzione. Il
linguaggio “in traduzione” è lo strumento attraverso il quale il testo viene
situato in tale contesto: “[t]he linguistic skills of the writer are used to
locate the novel: location is carried out in the language itself” (Prasad 1999:
48).
[1] “(La parola traduzione deriva, etimologicamente, dal latino “portare di là”. Poiché noi siamo persone portate di là nel mondo, siamo individui tradotti. Si ritiene solitamente che qualcosa dell’originale si perda in una traduzione; insisto sul fatto che si possa anche guadagnare qualcosa.)” (Di Carlo (tr.) 1994: 23)