L'uso
del termine traduzione come metafora della migrazione, ma anche in riferimento
all'innovazione della lingua letteraria e all'atto stesso della scrittura pone
la questione del rapporto tra "testi transculturali", come quelli di
Rushdie, e traduzioni nel senso più ristretto del termine. Il linguista Kachru
(1995) sottolinea come tutte le pratiche di scrittura transculturale, compresa
la traduzione, abbiano in comune elementi di creatività e innovazione. Per
caratterizzare le complessità che si manifestano nei testi letterari
transculturali Kachru propone di utilizzare tre criteri (Kachru 1995: 274-275):[1]
intelligibilità, comprensibilità e interpretabilità. Con il termine
"intelligibilità" si intende la possibilità di decodificare
determinati elementi lessicali in una data lingua a livello del significato
denotativo, a prescindere da ulteriori considerazioni contestuali. Non sempre
però è sufficiente che un termine sia intelligibile per essere compreso, dato
che un elemento linguistico intelligibile acquista una sua funzione nello
specifico contesto socioculturale in cui è inserito. Perché una parola
appartenente a una data varietà di inglese (ad esempio l'inglese
"indiano" dei romanzi di Rushdie) sia comprensibile nel contesto
situazionale di un’altra varietà (ad esempio l'inglese standard britannico) è
necessario andare oltre il livello denotativo e decodificarla in funzione delle
connotazioni che assume nel contesto culturale a cui fa riferimento (la cultura
indiana). Un sintagma come cowdung cake
nel contesto culturale indiano ha un significato che va oltre quello letterale
e può essere compreso appieno solamente se si è consapevoli del significato
funzionale e rituale delle torte di sterco di vacca nella religione indù
(Kachru 1995: 275). Con il termine "interpretabilità" si intende
invece l'esplicitazione del significato di (parti di) un testo in riferimento
al contesto linguistico e culturale del quale esso è parte attraverso commenti
e spiegazioni. Si pensi ad esempio al termine sharam, per cui Rushdie sente inadeguata una traduzione che rende
il termine esclusivamente intelligibile:
Sharam, that's the word. For which this paltry 'shame' is a wholly
inadequate translation. Three letters, shìn
rè mìm (written, naturally, from right to left); plus zabar accents indicating the short vowel
sounds. A short word, but one containing encyclopaedias of nuance. It was not
only shame that his mothers forbade Omar Khayyam to feel, but also
embarrassment, discomfiture, decency, modesty, shyness, the sense of having an
ordained place in the world, and other dialects of emotion for which English
has no counterparts. (Shame 38-39)[2]
Nei
testi letterari transculturali la creatività si basa sulla fusione, in questo
caso consapevolmente espressa nel testo del romanzo, delle diverse lingue
conosciute dagli autori, che creano dei testi che si muovono tra i diversi
livelli di intelligibilità, comprensibilità, e interpretabilità. Tali testi
riflettono in gradi diversi le strutture formali delle lingue “altre” e la
creatività è influenzata dal tipo di legame che l’autore intende stabilire con
la tradizione letteraria scritta / orale in quelle lingue. Questa visione della
creatività letteraria, che tiene conto di situazioni di forte contatto
linguistico in comunità multilingue (come in epoca post-coloniale sono non solo
paesi come l’India ma anche la maggior parte dei paesi occidentali), è in
contrasto con la visione tradizionalmente prevalente in società che si vedono
come “monolingui” e nelle quali la creatività letteraria è tradizionalmente
espressione di un’elite composta da una minoranza di "parlanti
nativi".[3]
L’innovazione stilistica apportata ad una lingua dalla creatività
transculturale contribuisce a definire un nuovo mezzo di comunicazione e
“simultaneously forges a new organic series of mores, social goals,
relationships, universal awareness – all of which go into the creating of a new
culture” (Soyinka 1993: 88, citato in Kachru 1995: 283).
Processi
consci e inconsci di traduzione giocano un ruolo vitale nel determinare le caratteristiche
di "distintività" culturale e linguistica dei testi letterari
transculturali, i quali determinano a loro volta un rinnovamento della lingua e
del canone letterario. Un testo letterario transculturale ha caratteristiche di
originalità “spiccate”, nel senso che si distacca dalla norma del canone
letterario “monolingue”, l’insieme delle convenzioni e delle regole
caratterizzante la varietà linguistica espressione dell’elite dominante, e
proprio per la sua connaturata “estraneità linguistica” innova la lingua
stessa.
I
testi transculturali di scrittori "migranti" o
"multilingui" come Rushdie creano uno spazio linguistico e culturale
intermedio, che risulta dal contatto e dalla fusione tra lingue e culture
diverse. Questo spazio intermedio è anche quello occupato dal traduttore (cfr.
Pym 1992, 1998): come lo scrittore migrante, il traduttore opera tra due (o
più) sistemi formali e le loro connotazioni contestuali. Entrambi operano delle
scelte per creare gli effetti desiderati e nella fusione dei due sistemi il
testo prende corpo.
La
traduzione, come la scrittura di testi transculturali, manifesta in modo
particolarmente visibile come tutta la scrittura sia riscrittura di materiale
preesistente, ricreato per adempiere a nuove funzioni comunicative. Nella
traduzione di un testo di Rushdie, proprio perché in esso si manifestano in
modo evidente le caratteristiche di transculturalità, il traduttore si trova a
dover operare le stesse scelte, a districarsi nella complessità degli stessi
problemi di intelligibilità, comprensibilità e interpretabilità che ha
affrontato l’autore del testo "originale".
Secondo Tymoczko (1998) vi è tuttavia una
differenza sostanziale tra traduzione e scrittura transculturale
(postcoloniale): mentre infatti un traduttore traspone un testo, uno scrittore
traspone un’intera cultura, cioè una lingua, un sistema cognitivo, una
letteratura (tipi e generi testuali), una cultura materiale, un sistema legale
ecc. Se i testi di uno scrittore postcoloniale si rivolgono a un pubblico che
appartiene a una cultura almeno parzialmente diversa da quella dell’autore, una
traduzione si rivolge a un pubblico ancora diverso, anch’esso almeno
parzialmente estraneo alla cultura dell’autore del testo di partenza.[4]
[1] Si tratta di una distinzione introdotta da Smith (1992).
[2] "La parola è sharam. E questo squallido "vergogna" ne è una traduzione del tutto inadeguata. Tre lettere shìn rè mìm (scritte, naturalmente, da destra a sinistra); più accenti zabar che indicano i suoni vocalici brevi. Una parola corta, ma che contiene enciclopedie di sfumature. Non era solo la vergogna ciò che le sue madri vietavano a Omar Khayyam di provare, ma anche l'imbarazzo, il disagio, il pudore, la modestia, la timidezza, la sensazione di aver un proprio posto prestabilito nel mondo e altre espressioni dell'emozione per le quali l'inglese non ha equivalenti." (Capriolo (tr.) 1991a: 41).
[3] Secondo Kachru si tratta di una visione di ascendenza romantica secondo la quale “il mistero della lingua” è accessibile solamente ai parlanti nativi.
[4] Nel caso della traduzione in italiano di un testo di un autore inglese che parla dell’Italia scrivendo in inglese abbiamo un caso di sovrapposizione parziale.