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Così come Grimus di Salman Rushdie è un ipertesto “anagrammatico” di Mantiq ut-Tair, l’”originale-non-originale” (qual è l’origine di un mito?) già mediato dalla traduzione in lingua inglese di Edward Fitzgerald,[1] e arricchito da un intertesto che va dalle “insalate traduttive” di T. S. Eliot alla sperimentazione linguistica di Ted Hughes, passando per l’autorefenzialità citazionistica di I. Q. Gribb, la traduzione da me elaborata è un ipertesto dell’opera di Rushdie, mediato anche attraverso i miei riferimenti linguistici e culturali. La mia traduzione entra cioè in un rapporto di differenza con il testo che in primo luogo vi ha dato origine, cercando di stabilire una propria coerenza narrativa e simbolica che riflette in modo particolare il proprio ipotesto primario (il romanzo inglese), ma in cui entrano in gioco altri fattori legati al contesto di ricezione del testo italiano. Vi è, ad esempio, la consapevolezza del fatto che più di vent’anni sono passati da quando Rushdie ha scritto Grimus, vent’anni durante i quali Rushdie ha scritto altre opere da cui difficilmente è possibile prescindere. Il corpus dei romanzi tradotti di Rushdie (cfr. corpora e traduzione) rientra quindi nell’intertesto a cui la traduzione italiana rimanda, unitamente a un insieme di riferimenti linguistici e culturali condivisi (almeno in parte) dai lettori italiani a cui è destinato il libro.
Ha scritto Fitzgerald a proposito delle proprie traduzioni di ritenere che gli autori persiani avessero bisogno di “a little art to shape them”,[2] autorizzandolo così a una traduzione che, secondo le norme prevalenti nella cultura contemporanea, viene intesa come un “libero adattamento”. Il fatto che Rushdie sembri quasi disconoscere la propria opera prima potrebbe forse autorizzare a vedere in una simile luce la traduzione italiana. Non è tuttavia questo il mio intento, e confido che le circostanze della mia traduzione non giustifichino accuse di "colonialismo culturale" e vi si possa cogliere un atteggiamento meno presuntuoso. Semplicemente mi sembra che la natura del testo di Rushdie permetta, o addirittura incoraggi, l’assunzione di una maggiore responsabilità “autoriale” da parte del traduttore, una minore soggezione alla “sacralità” dell'ipotesto.
[1] Per questo motivo si è scelto di fare riferimento al testo di Fitzgeld traducendone il titolo in Il parlamento degli uccelli, piuttosto che utilizzare il titolo della traduzione italiana (dal persiano) del poema di Attar, Il verbo degli uccelli (Saccone (tr.) 1999c). Scrive Saccone (1999a: 15) che ""mantiq" è termine dall'ampio spettro semantico (linguaggio, discorso, verbo, logica, dialettica) per cui ci pare possibile, e forse più suggestivo, interpretare come "Il verbo" o "La logica degli uccelli" che, con elegante ironia, individuerebbe proprio nei filosofi, e nei razionalisti in genere, i principali destinatari del messaggio di 'Attar." Chiaramente le stesse osservazioni non si applicano ai destinatari della "traduzione" di Fitzgerald, che del poema traduce solamente i brani narrativi (una selezione minima dell'opera del poeta mistico sufi).
[2] Citato in Lefevere 1992: 80.