Tutti i romanzi di Rushdie tradotti in Italia sono stati recensiti nella stampa specializzata, ma solamente alcune recensioni contengono dei commenti sul traduttore o sulla traduzione in quanto tale. Quando sono presenti, i commenti si limitano in genere a una frase che solitamente esprime apprezzamento per il traduttore, anche nel caso di un giudizio non completamente positivo sull'autore e la sua opera. I casi di recensione negativa sono estremamente rari, e sia in caso positivo che negativo il giudizio sulla traduzione non viene mai qualificato se non tramite aggettivi come "buona", "eccellente" o "(in)adeguata".[1]
Masolino D'Amico, ad esempio, in una recensione sul supplemento Tuttolibri del quotidiano La Stampa, sostiene che nonostante la materia de I figli della mezzanotte sia probabilmente poco familiare, se non ostica, al pubblico italiano il romanzo "al suo arrivo in Italia (e in una edizione molto ben curata tanto nella traduzione quanto nelle note) incontra consensi da parte dei lettori di professione" (D'Amico 1984: 4). Lo stesso recensore, a proposito di un altro libro (L’ultimo sospiro del Moro, nella traduzione di Mantovani) definisce Rushdie "autore neobarocco", che "procede riempiendo la pagina di estrose invenzioni linguistiche (valorosamente affrontate e talvolta scovate e spiegate dal traduttore Vincenzo Mantovani) e di aneddoti collaterali fantasiosamente stravaganti" (D'Amico 1995: 2). In una recensione de La terra sotto i suoi piedi Claudio Gorlier, dopo avere definito Rushdie "scrittore torrentizio" descrive la traduzione di Mantovani come "fenomenalmente creativa e impeccabile" (Gorlier 1999: 6). In un breve articolo esplicitamente dedicato alla traduzione Stefano Bartezzaghi (sul medesimo numero di Tuttolibri) inoltre commenta : "La traduzione de La terra sotto i suoi piedi dà evidenza quasi drammatica a uno dei temi centrali del romanzo, quello dei linguaggi. […] Al traduttore non resta che far finta di niente oppure usare lo spazio non letterario delle note in calce: quello spazio che è stato definito da Vladimir Nobokov … "l'archivio fotografico criminale delle parole". Leggere questo romanzo in traduzione significa vivere la condizione che è descritta all'interno, che è la sensazione di camminare su un terreno linguisticamente malfermo" (Bartezzaghi 1999: 6).
Come si nota in questi commenti, l'utilizzo delle note e l'intervento esplicativo del traduttore, che principalmente attraverso le note manifesta la propria presenza, viene giudicato positivamente. A differenza delle traduzioni appena citate, caratterizzate da un apparato esplicativo paratestuale (note e glossari) di notevole ampiezza, gli ultimi due romanzi tradotti da Capriolo (I versi satanici e Harun e il mar delle storie) contengono ciascuno una sola nota a piè di pagina. Se per Haroun e il mar delle storie ciò si può spiegare con una minore difficoltà del testo (è anche un libro per bambini) e con la presenza di un glossario finale ad opera dell'autore che traduce e spiega le parole di origine urdu utilizzate nel romanzo, un'uguale spiegazione non è ipotizzabile per I versi satanici, romanzo estremamente marcato dal punto di vista dell'ibridizzazione linguistica. Questa caratteristica non sempre è apprezzata dai recensori, che però, pur associandola ad un commento sulla traduzione, la disgiungono da un giudizio su di essa.
Il critico Masolino D'Amico descrive I versi satanici come una "serie ininterrotta di invenzioni che qualcuno troverà stucchevole: ma non tutti siamo sempre dell'umore adatto per apprezzare l'accumulo per l'accumulo, malgrado la verve dell'adeguatissimo traduttore Ettore Capriolo." (D'Amico 1989: 2). Un altro recensore, Sergio Noja, commenta in modo simile: "Rushdie ha riempito il libro di parole arabe, persiane, urdu e chi più ne ha più ne metta, rendendo oltre tutto un cattivo servizio al traduttore il quale, certo senza colpa alcuna, ha lasciato le parole come erano trascritte in inglese. Così troviamo Ayesha invece di Aisha, Gibreel invece di Gibril, Dajial invece di Daggal e così via, ma de minimis…" (Noja 1989: 10). Come si vede, Noja entra maggiormente nel merito della traduzione, presentando delle possibili soluzioni alternative per la traduzione di parole "non inglesi", avvertite come punti problematicio del testo. Le soluzioni alternative proposte dal recensore sarebbero presumibilmente da preferire in quanto adeguamenti ortografici alla pronuncia italiana delle parole "straniere" in questione, anche se Noja non offre una motivazione precisa per il suo suggerimento. Il recensore sembra d'altra parte esonerare il traduttore da ogni responsabilità, anche se non è chiaro a chi altri sia da attribuire la "colpa": difficilmente infatti Rushdie può essere ritenuto responsabile dell'edizione italiana, né è probabile che Noja si riferisca a circostanze indipendenti dal traduttore, quali una decisione dell'editore o le particolari circostanze che hanno accompagnato la pubblicazione del romanzo.
Un'analisi più articolata della traduzione de I versi satanici è invece il breve saggio di Maurizio Viezzi pubblicato sulla Rivista internazionale di Interpretazione e Traduzione. Secondo Viezzi, questa traduzione di Capriolo è un caso particolarmente interessante per verificare il ruolo di mediatore tra culture del traduttore, in quanto l'opera contiene numerosi riferimenti "ad esperienze così diverse rispetto alla realtà culturale della maggior parte del pubblico italiano" (Viezzi 1992: 145). Per Viezzi l'efficacia della traduzione consiste nel mettere "il lettore italiano … nelle condizioni ideali per affrontare il testo e comprenderne, nella misura del possibile, implicazioni e riferimenti" (Viezzi 1992: 145) e "il traduttore non ha certo il compito di colmare le lacune culturali del lettore, ha però il compito di assisterlo e di aiutarlo a capire" (Viezzi 1992: 146 ). Anche Viezzi rileva la difficoltà rappresentata da parole o espressioni della lingua "indiana"[2] e da riferimenti al Corano e alla religione musulmana. Questo pone il problema del pubblico a cui è rivolto il testo originale, dato che si possono immaginare perlomeno due tipi di lettori: una maggioranza di anglofoni a cui parole e frasi indiane sono probabilmente altrettanto sconosciute che alla maggioranza degli italofoni e una minoranza, anche se "non trascurabile" (Viezzi 1992: 145) dei potenziali lettori in grado di capire tali parole ed espressioni, ad esempio gli "esponenti delle comunità originarie del subcontinente indiano residenti in Gran Bretagna" (Viezzi 1992: 145) o i residenti nel subcontinente indiano che parlano la lingua inglese. A differenza di Noja, che sembra suggerire la necessità di un adattamento alle convenzioni di trascrizione in italiano delle parole da lingue terze, secondo Viezzi è "forse giustificato affermare che sarebbe stato opportuno un supplementare sforzo di mediazione per aiutare il lettore italiano a meglio comprendere il testo" (Viezzi 1992: 146) attraverso note a piè di pagina o un glossario finale per quelle parole ed espressioni usate a fini "informativi" piuttosto che "espressivi".[3] La mancanza di note in un testo di queste caratteristiche sembra essere quindi in contraddizione con la pratica prevalente (come rappresentata dalle traduzioni degli altri romanzi) e viene anche più o meno apertamente sanzionata nei commenti critici. È ipotizzabile d'altra parte che Capriolo non abbia messo le note non per una precisa scelta in senso contrario, ma per mancanza di tempo, a causa cioè dell'"impossibilità materiale di compiere ricerche opportune a causa della verosimile volontà dell'editore di pubblicare la traduzione molto sollecitamente per trarre vantaggio dalle particolari circostanze che hanno accompagnato l'uscita dell'originale" (Viezzi 1992: 146). La traduzione italiana del romanzo è stata pubblicata nei giorni immediatamente successivi all'emanazione della fatwa usufruendo così di un'enorme lancio pubblicitario, e ha subito scalzato Il pendolo di Foucault di Eco dalla testa della classifiche dei libri più venduti, rimanendovi per più di due mesi.[4] Se da un lato questo ha assicurato un notevole tornaconto economico e un ampio bacino di lettura al testo tradotto,[5] dall'altro sembra confermare l'ipotesi che la velocità di pubblicazione abbia influito sul tipo di traduzione effettuata.[6] In altre parole, il sospetto che si tratti di una traduzione pubblicata in tempi particolarmente affrettati giustificherebbe la differenza tra I versi satanici e i romanzi di Rushdie precedentemente tradotti in Italia riguardo all'uso delle note (quasi assenti ne I versi satanici ) e la sensazione che si ha ponendo l'originale a confronto con la traduzione, nella quale si evidenzia un notevole numero di segmenti omessi e traduzioni approssimative ed errate (cfr. allineamento)
Oltre alla mancanza di note per espressioni indiane (a esempio bibi, kachori, funtoosh) o per parole legate alla cultura musulmana (ad esempio haj, umra, Ismail, Ibrahim, Gibreel), Viezzi obietta anche alla presenza nel testo italiano di termini inglesi di uso non consolidato in Italia (bush-shirt, pitchpine, nigger).
È interessante vedere come sono state tradotte le parole "straniere" (rispetto all'italiano) quando effettivamente compaiono nel testo originale, dato che non tutte e non sempre sono state tradotte utilizzando la medesima procedura, cioè lo spostamento della medesima parola da un contesto linguistico inglese a uno italiano. È inoltre interessante confrontare il diverso trattamento che espressioni che possono rientrare in queste categorie hanno nelle diverse traduzioni (cfr. dall'ipertesto all'ipotesto).
[1] L'unica recensione che giudica negativamente l'operato del traduttore di cui sono a conoscenza è quella di un'anonima recensora a cui accenna Mantovani (lettera del 1 settembre 1999).
[2] L'aggettivo "indiana" in relazione a "lingua" rimanda in realtà alla pluralità di lingue presenti nel subcontinente asiatico.
[3] Viezzi usa questi due termini nell'accezione di Newmark 1988.
[4] Dalla fine di febbraio fino a tutto aprile 1989, mentre rimane tra i primi dieci libri più venduti fino al mese di giugno (cfr. Tuttolibri, annata 1989).
[5] De I versi satanici sono state stampate in 10 anni 8 edizioni, vendendo presumibilmente una buona fetta delle 150.000 copie vendute delle traduzioni delle opere di Rushdie pubblicate da Mondadori.
[6]
I diritti del romanzo sono stati ceduti prima in traduzione che in originale. Scrive Goonetilleke (1998: 73-74):
"Rushie's new literary agent sold the novel abroad first - to a German and
an Italian publisher - as a measure of its value in the market and, then,
offered it to English-language publishers. Viking Penguin bought both the British
and US rights for 850,000 dollars, a stunning sum for a novel, more so, for a
literary novel."