Il tema dell'identità culturale e linguistica costituisce uno tra gli elementi che più caratterizzano i romanzi dello scrittore britannico, riflettendone in questo la biografia. Diversi critici[1] hanno messo in rilievo come i personaggi dei romanzi di Rushdie spesso subiscano un cambiamento di nome: è questo il caso del protagonista di Grimus (cfr. la trama di Grimus), così come di Saleem e di sua madre in Midnight's Children, di Chamcha in The Satanic Verses e di numerosi altri. Oltre che al cambiamento di identità determinato dal cambiamento di nome è ricorrente anche il riferimento a genitori multipli, come nel caso di Saleem, di Omar Khayyam e di Moraes.
Il tema dell’identità è collegato inoltre a quello della migrazione, in quanto le persone che volontariamente o forzatamente si spostano tra luoghi geograficamente distanti vedono messa in discussione la propria storia e la propria appartenenza culturale e si trovano spesso come sospesi tra mondi diversi:
“All migrants leave their pasts behind, although some try to pack it into bundles and boxes - but on the journey something seeps out of the treasured mementoes and old photographs, until even their owners fail to recognize them, because it is the fate of migrants to be stripped of history, to stand naked amidst the scorn of strangers upon whom they see the rich clothing, the brocades of continuity and the eyebrows of belonging” (Shame 63-64)
La figura del
migrante è centrale in tre dei maggiori romanzi di Rushdie, Midnight’s Children, Shame e The Satanic Verses, e riaffiora costantemente anche nelle altre sue
opere. Come sostiene D'Cruz ([s.d.] online):
[b]y examining the life of the migrant, Rushdie explores the universal mystery of being born and the puzzle of who one is. One can understand Rushdie's quest for identity by examining his life, his deliberately chosen style of prose, the theme of "double identity", "divided selves" and the "shadow figures" in his novels and in his personality, and the benefits that many characters reap from being migrants.
Rushdie ha d'altra parte vissuto la condizione di migrante in maniera emblematica, " first as a Muslim in predominantly Hindu India, then as an Indian migrant to Pakistan, next as an Indian-Pakistani living in Britain and, since the publication of The Satanic Verses, as a 'blasphemer' against Islam, a man in hiding, marked for murder." (Towers 1991: 5). L’elemento autobiografico è molto forte nelle narrazioni di Rushdie, in cui vicende personali e fatti storici si mescolano in un’oscillazione continua tra realtà e finzione (Goonetilleke 1998: 50). In Shame, il narratore / autore commenta:
As for me: I, too, like all migrants, am a
fantasist. I build imaginary countries and try to impose them on the ones that
exist. I, too, face the problem of history: what to retain, what to dump, how
to hold on to what memory insists on relinquishing, how to deal with change. (Shame
87)
La
storia personale di Rushdie, culminata con l’emissione della fatwa khomeinista nei suoi confronti e
la conseguente perdita della possibilità di radicamento (si spera non
irreversibile) in un qualsiasi luogo, è la storia di una migrazione
individuale. Episodi reali della vita dell’autore (legati alla vita familiare
in India, o agli anni del college a Londra) offrono spesso lo spunto per episodi
che vedono protagonisti i personaggi dei romanzi. In The Satanic Verses, ad esempio, Rushdie introduce nella narrazione
una sua reale esperienza scolastica, raccontando come il primo giorno di scuola
gli fu data da mangiare un’aringa affumicata, senza spiegargli come mangiarla:
He sat there staring at it, not knowing where to begin. Then he cut into it, and got a mouthful of tiny bones. And after extracting them all, another mouthful, more bones. His fellow pupils watched him suffer in silence; not one of them said, here, let me show you, you eat it in this way. It took him ninety minutes to eat the fish and he was not permitted to leave to rise from the table until it was done. By that time he was shaking, and if he had been able to cry he would have done so. Then the thought occurred to him that he had been taught a valuable lesson. England was a peculiar tasting smoked fish full of spikes and bones, and nobody would ever tell him how to eat it. He discovered that he was a bloody-minded person. "I'll show them all," he swore. "You see if I don't." The eaten kipper was his first victory, the first step on his conquest of England. (The Satanic Verses 137)
Questo episodio[2] racchiude in
sé l’ambivalenza della condizione del migrante, un’esperienza fortemente
contrassegnata da esclusione ed emarginazione, ma potenzialmente capace di
mettere il migrante in una posizione di vantaggio. Se il personaggio del
migrante è spesso infatti descritto come “messo in un angolo” perché non
pienamente partecipe dei valori culturali della società in cui si trova a
vivere né di quelli della società che ha lasciato, la sua posizione di
estraneità gli permette di attingere ad entrambe le culture. La migrazione è
indubbiamente un'esperienza dolorosa e lacerante, ma anche un processo di
emancipazione: attraverso di essa il migrante acquisisce una doppia
prospettiva, si può porre sia all’interno che all’esterno del mondo che
descrive e imporre la propria visione, "describe himself back out of the
corner" (Imaginary
Homelands
16). Nel "ri-descrivere" se stesso, il migrante ridisegna anche il
mondo, in un processo di ibridizzazione che non può che risultare stimolante:
“to migrate is to experience deep changes and wrenches in the soul, but the
migrant is not simply transformed by his act, he also transforms the new world.
Migrants might well become mutants, but it is out of such hybridization
that newness can emerge."[3]
La migrazione è assunta a metafora dello spostamento da un paese all'altro, da una lingua o cultura a un'altra o anche da una società tradizionale e rurale a una metropoli moderna.
Migration … offers us one of the richest
metaphors of our age. The very work metaphor, with its roots in the Greek words
for bearing across, describes a sort of migration, the migration of ideas into
images. Migrants - borne-across humans - are metaphorical beings in their very
essence; and migration, seen as a metaphor, is everywhere around us. We all
cross frontiers; in that sense, we are all migrant peoples. (Imaginary
Homelands 278-279)
In Shame,
l'esperienza della migrazione viene descritta esplicitamente in termini di
traduzione. Rushdie si paragona al poeta persiano Omar Khayyam, omonimo del
protagonista del romanzo, per dire: “I, too, am a translated man. I have been
borne across…” (Shame 29). L’idea della traduzione come metafora della migrazione
viene successivamente elaborata in una conversazione con lo scrittore tedesco
Günter Grass, trasmessa dalla televisione inglese Channel Four nel 1987. In essa Rushdie
dice che “I discovered that if you look etymologically at the meaning of the
word metaphor and the word translation … it turned out that they meant the same
thing. See, translation from the Latin means to carry across. Metaphor from the
Greek means to carry across … this comes back to my preoccupation with the idea
of migration. People are also carried across.”[4]
La “traduzione” delle persone da un
luogo all’altro può ingenerare un senso di perdita delle proprie radici e della
propria lingua e produrre una chiusura nei confronti della nuova cultura. Così
in The Satanic Verses, ad esempio,
Hind, immigrata con il marito in Inghilterra dal Pakistan Orientale (ora
Bangladesh) e con le figlie cresciute a Londra, vive la migrazione come estremo
processo di perdita:
Everything she valued had been upset by the change; had in this process of translation, been lost. Her language: obliged, now, to emit these alien sounds that made her tongue feel tired, was she not entitled to moan? Her familiar place: what matter that they had lived, in Dhaka, in a teacher's humble flat, and now, owing to entrepreneurial good sense, savings and skill with spices, occupied this four-storey terraced house? (The Satanic Verses 248)
La chiusura al mondo esterno e il senso di esilio si
manifestano in Hind come incapacità di comunicare anche con i propri familiari,
mentre assumono proporzioni grottesche nella figura dell’Ayatollah, che vive
isolato nella memoria del paese natio, ricreato dall’immagine di un paesaggio
desertico appesa alle pareti spoglie in una stanza surriscaldata di un palazzo
nel centro dell’odiata città inglese.[5]
Così come le persone sono tradotte,
anche le parole possono migrare. La parola "Pakistan", ad esempio, ha
avuto origine all’interno della comunità intellettuale musulmana emigrata in
Inghilterra, come acronimo composto dalle iniziali dei diversi territori o
gruppi etnici di religione musulmana del continente indiano.[6]
“So it was a word born in exile which then went East, was borne-across
or trans-lated, and imposed itself on history; a returning migrant, settling
down on partitioned land, forming a palimpsest on the past" (Shame 87). Questa traduzione rappresenta secondo Rushdie una vera e
propria riscrittura della storia del subcontinente indiano operata da dei
migranti: “Who commandeered the job of rewriting history? – The immigrants, the
mohjirs. In what languages? Urdu and English, both imported tongues, although one
travelled less distance than the other” (Shame
87).
La parola “translation” e i suoi
derivati è utilizzata nei romanzi di Rushdie come mezzo per caratterizzare
alcuni personaggi, se non come, a volte, elemento costitutivo della loro
identità. Nel periodo in cui pronuncia le riflessioni contenute nel colloquio
televisivo con Günter Grass, Rushdie sta lavorando alla scrittura di The Satanic Verses, dove il tema dello
spostamento del mohjir, il migrante,
diventa la metafora centrale del testo. Salahuddin Chamchawala e Gibreel
Farishta sono migranti che incrociano i loro destini su un aereo in volo da
Bombay a Londra, e sono entrambi caratterizzati mediante la metafora della
traduzione: il primo, nato come l’autore-narratore a Bombay e come lui
residente in Inghilterra fin dall’adolescenza, si definisce “An Indian
translated into English-medium. When I attempt Hindustani these days, people look
polite. This is me'” (The Satanic Verses 57),[7] mentre il
secondo è presentato come una persona “wishing to remain, for all his
vicissitudes, at bottom an untranslated man” (The Satanic Verses 426).[8] La
traduzione come operazione linguistica e culturale viene ricondotta al suo
significato di spostamento fisico, ma anche di spazio intermedio tra i luoghi
geografici e culturali tra cui si intrecciano vicenda privata e ambientazioni
narrative dello scrittore, India e Inghilterra, o, più specificamente, Bombay e
Londra.
I migranti, le persone tradotte, hanno
il potere della traduzione, il potere di descrivere qualcosa di nuovo
attraverso la loro visione della realtà arricchita dal loro sguardo dall’alto:
“We have performed the act of which all men anciently dream, the thing for
which they envy the birds: we have flown” (Shame
85). La catena metaforica si espande arricchendosi dall’immagine dell’uccello,
la stessa tematizzata in Grimus (cfr.
struttura e rimandi intertestuali in Grimus e le citazioni)
In un saggio sullo scrittore Günter Grass,[9] Rushdie spiega perché la figura del migrante è, a suo giudizio, così importante:
This is what makes migrants such important figures: because roots, language and social norms have been three of the most important points of definition of what is to be a human being. The migrant, denied all three, is obliged to find new ways of describing himself, new ways of being human. (Imaginary Homelands 278)
This is what the triple disruption of reality [roots, language, social norms] teaches migrants: that reality is an artifact, that it does not exist until it is made, and that, like any other artifact, it can be made well or badly, and that it can also, of course, be unmade (Imaginary Homelands 280)
La traduzione, come ricorda Pym (1992) è indissolubilmente collegata al trasferimento materiale di persone e di oggetti (i libri). Se i testi non venissero spostati nello spazio e nel tempo non vi sarebbe bisogno né possibilità di traduzione (Pym 1992: 17).
[1] Cfr. ad esempio i saggi raccolti nel volume curato da E. M. Fletcher (1994).
[2] In The Satanic Verses l’episodio è narrato da Salladin Chamcha. Lo stesso aneddoto è però narrato come esperienza personale dell’autore in Imaginary Homelands.
[3] Rushdie, Salman / ICA Video. Northbrook, Ill. : Roland Collection of Films on Art, BBC, 1989. Citato in D’Cruz (s.d.).
[4] "Salman Rushdie in
conversation with Günter Grass". In P. Brown / U. Eichter / D. Herman
(eds). 1987. Voices: Writers and politics.
Nottingham: Spokesman: 63. Citato in Cundy 1996: 57.
[5] The Satanic Verses 202-214. La feroce satira di questo episodio probabilmente non ha contribuito a mitigare i sentimenti dell’establishment religioso iraniano nei confronti dell’autore.
[6] Punjabi, Afghan, Kashmiri, Sind, Beluchistan. In Urdu la parola Pakistan significa “Terra dei puri”.
[7] "Un indiano tradotto in inglese. Adesso quando tento di parlare hindi, la gente mi guarda senza capire. Questo sono io." (Capriolo (tr.) 1989: 69. Cfr. anche tabella traduzioni italiane delle opere di Rushdie).
[8] “vuol rimanere, nonostante tutte le sue vicissitudini, un uomo fondamentalmente non modificato” (Capriolo (tr.) 1989: 452). È da notare che nella traduzione di Capriolo il riferimento intratestuale che caratterizza i due personaggi in “opposizione lessicale” l’uno all’altro viene a cadere, in quanto “untranslated” viene tradotto (modificato?) in “non modificato”.
[9] In particolare sul romanzo Il tamburo di latta, libro che ha esercitato una forte influenza formativa su Rushdie e di cui si possono cogliere le tracce soprattutto nei rimandi intertestuali di Midnight's Children. Cfr. Merivale 1994.