The Turns of Translation Studies: New Paradigms or Shifting Viewpoints?
Mary Snell-Hornby (2006)
John Benjamins: Amsterdam/Philadelphia, XI+214 pp., 33 €
Reviewed by: Fabio Regattin
I Translation Studies sono, lo si sa, un ambito di studi in continua evoluzione: mai come in questi anni la disciplina suscita interesse e dibattiti e, tra i vari campi delle scienze umane, la si può senz’altro considerare come uno dei settori in maggiore salute. In un momento come questo, in cui la produzione scientifica nel settore sembra crescere a un ritmo sempre più rapido, The Turns of Translation Studies, di Mary Snell-Hornby, si pone a un tempo come ottimo panorama sullo stato dell’arte della disciplina e come uno strumento per quanti desiderino restare aggiornati sui grandi movimenti che si verificano al suo interno. Il libro è considerato, dall’autrice, una prosecuzione e un’integrazione del suo Translation Studies. An Integrated Approach (Snell-Hornby 1988/1995), da cui prende le mosse. Scopo dichiarato del testo è offrire un panorama degli sviluppi del pensiero sulla traduzione, concentrandosi sui contributi degli ultimi vent’anni e in particolare su quelli che, a posteriori, si sono rivelati fondamentali per l’avanzamento della disciplina, con una particolare attenzione ai lavori di studiosi provenienti da aree diverse da quella anglofona (cfr. pp. IX-X). Diviso in sei capitoli di lunghezza ineguale, il testo copre in realtà un arco di tempo molto più vasto, trattando – seppur brevemente – la storia della disciplina fin da quello che viene unanimemente considerato il suo punto di partenza in epoca moderna, il Romanticismo tedesco [url=#1](1)[/url]. Dopo un primo capitolo dedicato allo sviluppo della disciplina nel lasso di tempo che precede quello che il volume intende approfondire più nel dettaglio (capitolo che descrive rapidamente quanto accaduto nel nostro campo di studi dalla sua nascita fino agli anni ’70), la parte centrale del libro (capitoli 2-5) analizza, mantenendo la promessa iniziale, gli sviluppi del settore nel corso degli ultimi due/tre decenni. Un sesto e ultimo capitolo, più breve dei precedenti, offre suggerimenti e consigli per la ricerca futura e azzarda una previsione sulle prossime svolte nel settore.
Ripartiamo, analizzando il testo più in profondità, dal primo capitolo del volume (“Translation Studies: The emergence of a discipline”, pp. 5-46), che pone le basi per l’analisi ben più approfondita delle parti seguenti, passando rapidamente in rassegna gli sviluppi del pensiero moderno sulla traduzione dalle origini fino alla fine degli anni ’70 e ai primi ’80: dopo un breve excursus sui “grandi precursori” (da Schleiermacher a Benjamin) [url=#2](2)[/url], il testo passa in breve alla presentazione del pensiero “scientifico” sulla traduzione (da Jakobson a Paepcke); il capitolo, che presenta vaste panoramiche su autori relativamente trascurati nel dibattito odierno (è il caso, per esempio, di Jiří Levý, Otto Kade, Katharina Reiss o Fritz Paepcke) [url=#3](3)[/url], prende in considerazione i contributi forniti al settore da vari linguisti (per esempio Émile Benveniste) e si conclude su un’analisi piuttosto approfondita del lavoro di James Holmes, da molti considerato la chiave di volta della traduttologia contemporanea. Del piano di sviluppo della disciplina proposto da Holmes nel suo “The Name and Nature of Translation Studies” (Holmes 1987) l’autrice analizza brevemente anche gli sviluppi nel panorama odierno.
Nella loro (voluta) superficialità, queste prime pagine contengono già, in nuce, diversi elementi degni di interesse, rivelando un approccio decisamente originale al tema trattato. Diversamente da altri volumi con scopi simili (per esempio, Nergaard 1995 o Larose 1989), che sembrano procedere per dissimilazione, isolando le diverse teorie trattate e analizzandole separatamente, molto spesso Snell-Hornby si muove infatti come una sociologa della traduttologia, considerando il complesso contesto socio-culturale nel quale agiscono i diversi specialisti della disciplina, segnalando le interrelazioni tra le diverse teorie e il contributo che alcune tra queste hanno fornito al dibattito globale e offrendo una prospettiva del campo (inteso in senso bourdieuiano) vasta e non limitata al semplice studio dei testi [url=#4](4)[/url]. Da segnalare, accanto ai numerosi elementi positivi, una lacuna nel panorama tracciato dall’autrice: risulta decisamente ridotto – e l’osservazione verrà confermata in seguito – lo spazio dedicato al pensiero francese (e più in generale francofono, se pensiamo anche alla produzione quebecchese), tanto che le uniche studiose citate (pp. 29-30) sono Danika Seleskovitch e Marianne Lederer e non viene fatta menzione di personalità pur importanti quali Georges Mounin o, ancora, Henri Meschonnic.
Il secondo capitolo (“The cultural turn of the 1980s”, pp. 47-67) descrive la situazione del campo negli anni ’80, periodo in cui la disciplina si rafforza e ha luogo l’ormai storico cultural turn. Agendo a posteriori, Snell-Hornby può passare in rassegna le teorie che hanno avuto le maggiori conseguenze sulla ricerca odierna, ma anche quei contributi che, a suo parere, avrebbero meritato una maggiore diffusione: accanto a teorie che ancora oggi sono tra le più influenti e citate – la vasta galassia dei Descriptive Translation Studies (Bassnett, Hermans, Lambert, Lefevere, Toury) o la Skopos Theory di Vermeer e Reiss – e coerentemente con il proprio progetto di divulgazione, che prevede di dare ampio spazio a teorie trascurate per la minore diffusione delle lingue in cui sono state elaborate, l’autrice si occupa diffusamente anche di modelli quali il Translatorisches Handeln di Justa Holz-Mänttäri o l’approccio “decostruzionista-cannibalistico” della studiosa brasiliana Rosemary Arrojo. La rapida descrizione delle teorie è seguita da un loro confronto, che mette in luce differenze (l’approccio puramente descrittivo dei DTS opposto a quelli funzionali, e valutativi, della Skopos theory o del Translatorisches Handeln, per esempio) e convergenze (l’orientamento target-oriented di tutte le teorie coinvolte, il concetto di “riscrittura” che accomuna Arroyo a Lefevere, l’integrazione di teoria e pratica) – convergenze che, come fa notare l’autrice tornando al ruolo di sociologa della traduttologia, furono dovute più a una sorta di sentire comune che a effettivi contatti tra i loro sostenitori. La riflessione sull’isolamento nel quale molte delle teorie analizzate prendono piede, e sulla conseguente ignoranza, da parte degli studiosi, del lavoro svolto dai colleghi, costituirà uno dei temi ricorrenti del volume.
Il terzo capitolo (“The ‘interdiscipline’ of the 1990s”, pp. 68-114) è dedicato all’analisi di alcune tendenze che hanno caratterizzato gli anni ’90, con un’attenzione particolare ai rapporti intrattenuti dai Translation Studies con gli ambiti a essi confinanti. Per descrivere questo gioco di relazioni, Snell-Hornby introduce due idee: la prima è la definizione degli studi sulla traduzione come “interdisciplina”, termine di cui l’autrice difende l’uso da obiezioni come quella sollevata da Klaus Kaindl [url=#5](5)[/url]. Da questo stesso studioso viene poi ripresa l’idea di “gerarchia dei ruoli”: Kaindl divide i rapporti interdisciplinari in tre fasi, nominate rispettivamente “imperialistica”, “importatrice” e “reciproca” [url=#6](6)[/url]. La prima prevede che una disciplina dominante imponga i propri strumenti e metodi sull’altra (nel nostro settore il caso si è verificato con la linguistica negli anni ’60); la seconda che una disciplina, in mancanza di strumenti propri, ne prenda a prestito da uno o più settori confinanti (il rapporto sarebbe quindi monodirezionale e la disciplina “debole” prenderebbe senza dare niente in cambio); nella terza e ultima fase, il rapporto diventa reciproco, con un fruttuoso scambio di metodologie in entrambe le direzioni. La suddivisione operata da Kaindl ritornerà più volte nel prosieguo del testo e sarà usata come strumento di valutazione dello stato di salute della disciplina. Dopo aver introdotto questa coppia di concetti, il testo passa alla descrizione di alcune nozioni ormai fondamentali come quella di norma, analizzandone la definizione in diverse teorie (Toury, Nord) e mettendo in luce il problema della scarsa uniformità terminologica che le caratterizza (a termini simili corrispondono concetti solo parzialmente sovrapponibili). Il tema della definizione di una terminologia adeguata, e non ambigua, costituisce una preoccupazione costante dell’autrice, che riapparirà in seguito. Dopo la storia del successo del concetto di norma e un breve accenno allo sviluppo di un’etica della traduzione, Snell-Hornby passa alla delineazione di altre tendenze del periodo, come la riflessione traduttologica sulla comunicazione non verbale (mutuata dall’antropologia e dalla psicologia) e multimediale e quella sui problemi coloniali e di genere, che denuncia il rapporto squilibrato che si instaura tra dominante e dominato (nelle varianti uomo-donna o colonizzatore-colonizzato). Viene quindi discussa l’importanza crescente assunta dal lettore, nel doppio risvolto teorico del traduttore-come-lettore e dell’attenzione assegnata al pubblico della traduzione. Se il secondo aspetto era già stato evidenziato da più parti (per esempio nella Skopos theory), il primo si esplica nell’importanza assunta dalla critica della traduzione, come esempio di cui l’autrice analizza a fondo il modello funzionale di Margret Ammann (Ammann 1990) [url=#7](7)[/url]. Meno organico del secondo, che forniva un panorama coerente e ben definito del decennio precedente, questo capitolo pare accontentarsi di indicare alcune tendenze di massima, con una divisione per temi piuttosto che per teorie o scuole, e pare in parziale contraddizione con il proprio titolo: accanto ai prestiti effettivi – dalla psicologia ai Gender Studies, fino ai Postcolonial Studies – alcuni paragrafi, come quello sul concetto di norma, sembrano infatti decisamente rivolti al cuore stesso della disciplina.
Il quarto capitolo (“The turns of the 1990s”, pp. 115-148) si occupa ancora del decennio scorso. Se la sezione precedente era tesa a descrivere i rapporti dell’“interdisciplina” con i campi a lei vicini (come abbiamo visto, un obiettivo riuscito solo in parte), questa si occupa di raccontare i movimenti che hanno avuto origine “dall’interno”. I due movimenti principali del decennio (i “turns” del titolo) sono, a detta dell’autrice, la svolta data dallo sviluppo della tecnologia e quella dovuta a un interesse crescente nei confronti degli studi empirici (think aloud protocols, studi sui corpora). A questo si aggiunge la fondamentale separazione in due campi distinti di discipline, quella dei Translation Studies e quella degli Interpreting Studies, in precedenza riunite sotto un’unica etichetta. I precedenti elementi sono trattati in due paragrafi separati – “The empirical turn” e “The globalization turn”; un terzo sottocapitolo è dedicato interamente al lavoro di Lawrence Venuti e alla sua proposta “militante” di traduzione straniante. Questo quarto compartimento del libro appare, in assoluto, il più eterogeneo e le suddivisioni al suo interno si prestano ad alcune critiche [url=#8](8)[/url]. In primo luogo, sembra strana la scelta di dividere questa sezione dalla precedente. Alcune tematiche ricompaiono infatti, con esiti diversi, nei due capitoli: il discorso sull’ambito postcoloniale (par. 3.2) è, per esempio, strettamente legato al problema della globalizzazione e del “McWorld” (par. 4.2); in questo stesso paragrafo (4.2), viene dedicata molta attenzione (un intero sottoparagrafo e 6 pagine – pp. 134-139) a un ambito, la traduzione della pubblicità, decisamente specifico rispetto a quelli che l’autrice tratta altrimenti [url=#9](9)[/url]; la stessa scelta, infine, di occuparsi di Lawrence Venuti e del suo influsso sul dibattito contemporaneo in un paragrafo a parte appare poco coerente di fronte all’ampiezza degli altri temi trattati. Due note aggiuntive proprio su quest’ultimo paragrafo: viene citato finalmente Antoine Berman, ma il suo pur importante contributo è trattato in sole cinque righe a p. 146; la stessa proposta di Venuti è liquidata un po’ frettolosamente (“the solution to all these problems does not lie merely in ‘foreignizing’ translations. For the cross-cultural communication of today, Schleiermacher’s maxim […] is simply inadequate”, p. 147) e in modo sterile, in quanto non vengono proposte soluzioni alternative – anche se sappiamo che non è questo libro la sede per farlo – al problema sollevato dallo studioso americano, quello di conferire una maggiore visibilità alla figura del traduttore.
Il quinto capitolo del volume (“At the turn of the millennium: State of the discipline, pp. 149-169) riflette sugli sviluppi più recenti del campo di studi, soffermandosi in particolare sul proliferare di pubblicazioni che sembrano segnare un ritorno alla linguistica e riproporre teorie e approcci che la traduttologia aveva fatto propri già decenni fa. Questa apparente “riscoperta” di teorie che in alcuni casi hanno già mostrato i propri limiti è dovuta anche all’espansione del campo di studi, che impedisce agli studiosi di essere al corrente di tutto ciò che succede nel loro settore: un problema che questo libro cerca di – e riesce a – risolvere, almeno in parte. Il capitolo si conclude su un ultimo “turn”, che ci fa uscire dall’ambito ristretto dei Translation Studies: si tratta del “translation turn” nelle scienze umane, che corrisponderebbe al raggiungimento da parte della disciplina della terza fase, quella “reciproca”, evidenziata dal modello di Kaindl. Nel nuovo millennio, dopo aver preso a prestito strumenti e teorie da discipline più o meno affini per decenni, sembra giunto il momento, per la traduttologia, di offrire il proprio contributo – e i propri strumenti – ad altre discipline. Su due esempi di questa tendenza, che dimostrano l’utilità dei TS nella teoria della letteratura (con l’interesse suscitato dal concetto di polisistema, coniato da Itamar Even-Zohar) e in alcune situazioni comunicative pratiche, si conclude la sezione.
Il sesto capitolo (“Translation studies – future perspectives”, pp. 170-175), molto più breve dei precedenti, conclude riassumendo la panoramica presentata nel volume e avanzando alcune proposte e richieste agli studiosi presenti e futuri. L’intento del libro – suscitare l’attenzione degli studiosi su teorie di minor successo ma valide quanto quelle più conosciute – si rispecchia anche in queste richieste, tra le quali quella di una competenza almeno passiva di più lingue, che permetterebbe di evitare il dominio dell’inglese nel settore. Un altro appello dell’autrice – quello per lo stabilimento di un metalinguaggio più adeguato e univoco, che permetta di evitare le incomprensioni tra gli appartenenti a diverse scuole e tradizioni – sarà senz’altro favorito anche dal volume di cui stiamo parlando, che, mettendo in luce le numerose incomprensioni causate da un uso diverso delle parole, compie un primo, importante passo in direzione di una normalizzazione terminologica [url=#10](10)[/url].
La sfida posta dalla scrittura di un volume come questo, che traccia un panorama completo di una disciplina in crescita continua come i Translation Studies, era decisamente ambiziosa. E, nonostante le – minime – pecche di cui si è detto in queste righe [url=#11](11)[/url], Mary Snell-Hornby è riuscita a venirne a capo in modo decisamente valido. The Turns of Translation Studies unisce alla grande competenza dell’autrice un modo estremamente accattivante di trattare il tema, con uno stile e un linguaggio semplici ed efficaci, e una completezza che ne fa un libro adatto a tutti, studenti e studiosi, traduttori e semplici interessati.
Bibliografia:
Ammann (1990): Margret Ammann, “Anmerkungen zu einer Theorie der Übersetzungskritik und ihrer praktischen Anwendung”, in TextConText 5, pp. 209-250.
Berman (1995): Antoine Berman, Pour une critique des traductions: John Donne, Paris: Gallimard.
Holmes (1987): James Holmes, “The Name and Nature of Translation Studies”, in Indian Journal of Applied Linguistics 13 (2), pp. 9-24.
Ladmiral (1986): Jean-René Ladmiral, “Sourciers et ciblistes”, in Revue d’Esthétique 12, pp. 33-42.
Ladmiral (1979): Jean-René Ladmiral, Traduire: théorèmes pour la traduction, Paris: Payot.
Larose (1989): Robert Larose, Théories contemporaines de la traduction, Québec: Presses de l’Université du Québec.
Lefevere (1977): André Lefevere, Translating Literature. The German Tradition from Luther to Rosenzweig, Assen/Amsterdam: Van Gorcum.
Nergaard (1995): Siri Nergaard (a cura di), Teorie contemporanee della traduzione, Milano: Bompiani.
Radnitzky (1970): Gerard Radnitzky, Contemporary Schools of Metascience, Göteborg: Göteborg University Press.
Snell-Hornby (1988/1995): Mary Snell-Hornby, Translation Studies. An Integrated Approach, Amsterdam/Philadelphia: John Benjamins.
Note:
[1] Elemento che rende il testo particolarmente adatto anche a chi desideri un panorama generale sul tema trattato (studenti, traduttori interessati agli aspetti teorici del proprio mestiere) – panorama da approfondire, in seguito, anche secondo le indicazioni fornite dall’autrice.
[2] Forse la parte meno interessante e originale del testo, ma bisogna riconoscere che si limita a una quindicina di pagine e che la sua funzione è puramente introduttiva. Il termine “precursori” è usato dall’autrice in un’accezione ben precisa: quella definita da Gerard Radnitzky (Radnitzky 1970) e ripresa anche da André Lefevere (Lefevere 1977). Radnitzky suddivide i rappresentanti delle grandi tradizioni in quattro gruppi: i precursori, i pionieri, i maestri e i discepoli (cfr. p. 5).
[3] Un fatto che è anche una conseguenza diretta del già citato obiettivo del volume, fornire una panoramica che prenda il più possibile in considerazione il pensiero di autori non-anglofoni.
[4] Prospettiva che prende in considerazione elementi come i rapporti di collaborazione tra i diversi studiosi, le comunicazioni ai convegni e spesso anche i dibattiti che, nel corso dei convegni stessi, tali comunicazioni possono aver generato. Il lavoro svolto non è chiaramente alla portata di tutti, ma solo di chi, come l’autrice, ha effettivamente vissuto il milieu della traduttologia in prima persona.
[5] Secondo questo autore, il termine starebbe a indicare un campo di ricerca aperto, a cui varie discipline hanno accesso, ma non un’area di studi a sé stante.
[6] Traduzione nostra dei termini “imperialistic”, ”importing” e ”reciprocal” (cfr. p. 72).
[7] È strano che a questo proposito non vengano mai citati il lavoro pionieristico di Jean-René Ladmiral, che già nel suo “Sourciers et ciblistes” (Ladmiral 1986) e ancor più in Traduire: théorèmes pour la traduction (Ladmiral 1979) aveva messo l’accento proprio sull’importanza del pubblico della traduzione, o quello di Antoine Berman, che nel suo Pour une critique des traductions: John Donne (Berman 1995) esponeva una proposta di critica metodica delle traduzioni che si è rivelata influente in ambito francofono quanto e più di quella di Ammann nei paesi di lingua tedesca.
[8] Un fatto dovuto anche alla minore distanza temporale dai fatti descritti, che probabilmente impedisce ancora di portare un giudizio definitivo sui contributi più influenti o di sistematizzare le diverse tendenze in gioco in un periodo di tempo che si è concluso solo pochi anni fa.
[9] A titolo di esempio, i due altri sottoparagrafi che vanno a completare “The globalization turn” si intitolano “Technology and the translator” e “The empire of English”, e trattano rispettivamente delle nuove pratiche scrittorie e traduttive nell’era di Internet e della trasformazione dell’inglese in “lingua franca” utilizzata con frequenza crescente e nei contesti più diversi da parlanti non di madrelingua.
[10] Non correremo il rischio di assegnare il primato di quest’idea all’autrice, ma il fatto che il problema sia sollevato da una studiosa di fama, disposta a spendere il proprio capitale culturale per la causa, rende questo appello particolarmente rilevante.
[11] I difetti principali del volume sono due: una certa parzialità e un trattamento poco coerente di alcune sue parti. Entrambi sono, a nostro avviso, pienamente giustificabili: non siamo di fronte a un’enciclopedia, per cui la completezza assoluta non era richiesta (e, per di più, la stessa autrice ammette un’inevitabile parzialità nella propria introduzione); e ottenere un’assoluta omogeneità tra le diverse parti era un’impresa disperata: Snell-Hornby è stata costretta, dall’argomento e dalle motivazioni stesse del suo libro, a parlare del presente, senza il distacco che solo il passare del tempo può dare – non per niente i capitoli più coesi sono i primi.
©inTRAlinea & Fabio Regattin (2006).
[Review] "The Turns of Translation Studies: New Paradigms or Shifting Viewpoints?", inTRAlinea
Vol. 8
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