Tradurre nel pubblico e nel privato: la voce dei traduttori non professionisti tra Alto Adige e Marche
By Flavia De Camillis[1], Cristina Farroni[2], Elena Chiocchetti[1] ([1]Istituto di linguistica applicata, Eurac Research, [2]Università di Macerata)
Abstract & Keywords
English:
This article focuses on three case studies of multilingual organisations in Italy, i.e. a public administration in an officially multilingual area, private companies in the same area and private companies in a monolingual area. Non-professional translators are present in all three contexts. We show their role in coping with multilingualism, discuss the similarities and differences between each case study, and give voice to these still understudied professional figures.
Italian:
Il contributo presenta tre casi di studio italiani in cui è stata individuata la presenza di traduttori non professionisti: una amministrazione pubblica in una zona multilingue, delle imprese private nello stesso territorio e delle imprese private in una zona monolingue. Illustriamo il ruolo centrale di queste figure nella gestione del multilinguismo delle organizzazioni mostrando analogie e differenze tra i vari contesti e dando voce a delle figure professionali ancora poco studiate in Italia.
Keywords: non-professional translation, multilingual organisations, SMEs, translation process, case studies, traduzione non-professionale, organizzazioni multilingui, PMI, processo traduttivo, casi di studio
©inTRAlinea & Flavia De Camillis[1], Cristina Farroni[2], Elena Chiocchetti[1] (2024).
"Tradurre nel pubblico e nel privato: la voce dei traduttori non professionisti tra Alto Adige e Marche", inTRAlinea Vol. 26.
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Stable URL: https://www.intralinea.org/archive/article/2653
1. Introduzione
La traduzione non professionale è un fenomeno noto al mondo accademico, al punto da aver acquisito diverse denominazioni nel corso degli ultimi decenni che hanno posto l’accento su vari aspetti: le caratteristiche intrinseche di chi traduce, il contesto di traduzione, le carenze rispetto ai traduttori professionisti, spesso eletti a termine di paragone. La letteratura di riferimento raccoglie ormai molti contributi che descrivono forme di traduzione non professionale, dall’interpretazione informale a opera di minori, a quella svolta in contesti migratori o istituzionali come nei tribunali e negli ospedali, alle forme di traduzione volontaria nel web. Un’attenzione forse minore è stata dedicata all’interazione tra la traduzione non professionale e il mondo lavorativo multilingue, ovvero a quei contesti in cui la traduzione è parte integrante dell’attività lavorativa ma viene sistematicamente trattata come attività accessoria di personale con altri profili professionali. Come riconosce anche Angelelli (2020: 117, 127), in questo contesto ci sono ancora molti quesiti aperti, tra cui quali competenze (minime) siano richieste al non professionista e quali circostanze portino alla sua scelta al posto di professionisti.
Il contributo intende colmare in parte questa lacuna concentrandosi su tre realtà italiane. Dopo una disamina sugli studi dedicati alla traduzione non professionale nelle istituzioni e nelle imprese, presenteremo tre contesti professionali – uno nel settore pubblico e due nel settore privato – in cui la traduzione svolge un ruolo importante. Facendo riferimento ai risultati di tre dottorati di ricerca, descriveremo come alcune figure professionali affrontano la traduzione all’interno del loro contesto lavorativo, verificheremo se possiedono le caratteristiche del traduttore non professionista descritte da Antonini et al. (2017) e se, pertanto, si possono considerare tali. La descrizione si costruirà attorno a citazioni provenienti da interviste e risposte aperte di questionari per dare voce ai protagonisti di questi contesti traduttivi. Concluderemo riflettendo sui punti di contatto e sulle divergenze tra i tre studi, nonché sulle ragioni che spingono le realtà lavorative studiate alla scelta sistematica di personale non specializzato in traduzione.
2. Letteratura
La traduzione è da sempre associata alla competenza linguistica dai non addetti ai lavori. Si potrebbe considerare una delle professioni socialmente meno riconosciute (Dam e Korning Zethsen 2008), dato che la conoscenza di una seconda lingua è ormai comune e a traduttori e interpreti sembrano mancare delle caratteristiche esclusive (Pérez-González e Susam-Saraeva 2012: 150). Ciò non sorprende se si considera che la professionalizzazione del traduttore risale solo allo scorso secolo, mentre la traduzione di per sé è un’attività con radici antiche. Ancora più recente è l’attenzione scientifica che la traduzione a opera di “non professionisti” ha guadagnato, aprendo la strada al nuovo ambito di studi della Non Professional Interpreting and Translation (NPIT). Per riferirsi a chi traduce senza farlo di mestiere si sono succedute numerose denominazioni[1], cominciando da natural translator di Harris e Sherwood (1978: 155) ripresa successivamente da Antonini (2011: 102) e, per citarne solo alcune, ad hoc translator, informal translator, unprofessional translator, unrecognized translator[2] e paraprofessional translator (Koskela et al. 2017: 464). Una delle denominazioni oggi più condivise è quella di non-professional translator, focalizzata sulla mancata professionalizzazione. Tra le caratteristiche essenziali di un traduttore non professionista rientrano infatti (a) l’assenza di formazione in traduzione e dunque di una qualifica, nonché (b) la competenza linguistica in un’altra lingua acquisita tendenzialmente per motivi circostanziali; (c) il fatto che può non essere assunto o pagato per svolgere il lavoro di traduzione, (d) che può svolgerlo in assenza di norme di riferimento e (e) può non acquisire prestigio sociale grazie alla traduzione. Infine, (f) può essere chiamato a operare sia in contesti informali sia in contesti formali e istituzionali, di solito per le sue competenze linguistiche (Antonini et al. 2017: 7).
Le analisi sulla NPIT si sono a lungo concentrate sull’interpretazione; la traduzione a opera di non professionisti è stata descritta più spesso in riferimento alla traduzione volontaria, ad esempio nel web (es. fan-subbing), mentre i contesti formali e lavorativi, sia pubblici che privati, hanno ricevuto minore attenzione; essendo questo l’ambito di nostro interesse, riepilogheremo alcuni studi che se ne sono occupati. Cominciando dal settore pubblico, vediamo che le politiche di traduzione spesso variano in base all’ufficialità della lingua considerata e che si evidenzia una tendenza ad “arrangiarsi in casa” con le risorse disponibili, laddove emerga un’esigenza di comunicazione con utenti esterni. Neather (2012) ha realizzato uno studio etnografico su 14 musei bi- e trilingui cinesi, da cui è emerso che il personale museale copre alle volte anche il lavoro dei traduttori, sebbene l’esternalizzazione sia abbastanza diffusa. Gli intervistati considerano il personale museale più esperto della materia e della forma comunicativa e testuale rispetto a professionisti esterni. Angelelli (2015) ha indagato il modo in cui alcuni paesi dell’Unione europea gestiscono il fabbisogno comunicativo degli stranieri nel contesto sanitario. In nessuno Stato tra quelli analizzati vige una normativa che regolamenta questo ambito: generalmente il paziente ricorre a parenti e amici o a mediatori culturali, laddove disponibili, oppure se la cava da sé. González Núñez (2017) riporta i risultati di un’indagine compiuta in alcune istituzioni pubbliche nella città di confine di Brownsville (Texas), dove il personale amministrativo opera spesso come traduttore e interprete per la comunità linguistica ispanofona, in assenza di politiche traduttive definite, complete e condivise. Infine, anche le organizzazioni senza scopo di lucro sembrano applicare strategie simili. Tesseur (2014, 2017) individua in Amnesty International pratiche di traduzione divergenti proprio a seconda della lingua: per le lingue minori il personale delle sedi minori traduce senza formazione e spesso senza materiale adeguato, mentre nelle sedi centrali e per le lingue principali dell’organizzazione vengono impiegati dei professionisti. Ozolins (2010) ha identificato per l’interpretazione quattro fattori che determinano la sua presenza o assenza dalle istituzioni pubbliche. In buona misura, tali fattori possono considerarsi validi anche per la traduzione e includono: budget disponibile; quantità di lingue a cui dover far fronte; servizi linguistici riconosciuti come una questione istituzionale più che una professione a sé dotata di standard propri; trasversalità della traduzione, che la rende necessaria nell’intera istituzione e non solo in alcuni dipartimenti.
Spostando l’attenzione sulle imprese, queste sono chiamate a superare barriere linguistiche sia nella comunicazione interna tra diverse sedi o dipartimenti che nella comunicazione esterna con partner, fornitori e clienti esteri. In entrambi i casi le sfide da superare consistono nell’utilizzo attivo o passivo di una o più lingue straniere o nella resa della documentazione aziendale in una o più lingue. Laddove le competenze linguistiche richieste per coprire i fabbisogni comunicativi non siano diffuse tra il personale, spesso si ricorre a singoli collaboratori con competenze in una o più lingue straniere che fungono da mediatori tra le diverse sedi aziendali o con l’esterno. Queste figure vengono definite language nodes (Feely e Harzing 2003: 46) o bridge individuals (Harzing et al. 2011: 284). Si tratta solitamente di personale bilingue o di dipendenti delle sedi estere non assunti come traduttori. L’assenza di un vero e proprio background di studi linguistici nonché la natura informale del loro ruolo li rendono de facto dei traduttori non professionisti.
Sul piano traduttivo, Koskinen (2020: 60) utilizza il termine translatoriality per descrivere l’utilizzo dinamico della traduzione e il continuo passaggio da una lingua all’altra, aspetti questi che contraddistinguono le organizzazioni multilingui. Al loro interno spesso il processo traduttivo non coinvolge i soli traduttori professionisti e si configura come una serie di attività, talvolta non lineari, in cui entrano in gioco diversi attori e pratiche quotidiane. Per soddisfare le proprie esigenze traduttive, le imprese possono adottare politiche formali, ad esempio creare un reparto di traduzioni centralizzato, esternalizzare gli incarichi o inserire nel workflow strumenti a supporto della traduzione (cfr. Piekkari et al. 2017: 36–44). Queste politiche però richiedono risorse che spesso superano quelle disponibili, in particolar modo nelle PMI (cfr. Hagen 2006: 46). Pertanto, sono molto diffuse anche le pratiche traduttive informali, tra cui l’autotraduzione da parte dei dipendenti o il ricorso a colleghi con le competenze linguistiche necessarie, che traducono parallelamente a o al posto dei traduttori professionisti esterni. Si tratta spesso di impiegati come manager di filiale (Ciuk e James 2015; Logemann e Piekkari 2015), il cui lavoro non consiste ufficialmente nel tradurre ma che hanno competenze linguistiche in più di una lingua (Koskinen 2020: 65-66; Tietze 2021: 38). Queste figure rivestono un ruolo cruciale nelle imprese ma vengono analizzate di rado nella letteratura di stampo traduttivo, tradizionalmente più focalizzata sul piano professionale della traduzione (Dam e Korning Zethsen 2008; Sela-Sheffy e Shlesinger 2011) e su traduttori freelance e agenzie di traduzione (Olohan e Davitti 2017; Risku 2016). Le poche indagini empiriche evidenziano la natura ibrida e dinamica delle loro mansioni, nonché le loro diverse forme di expertise (Kuznik 2016; Lebtahi e Ibert 2004).
3. Casi di studio
In questa sezione presenteremo tre casi di studio, il primo incentrato sull’amministrazione della Provincia autonoma di Bolzano, il secondo su alcune aziende private in Alto Adige e il terzo su alcune aziende private nelle Marche, al fine di illustrare tre diversi modi di declinare la traduzione non professionale all’interno di realtà lavorative italiane. La scelta dei casi di studio si è incentrata su ricerche che permettono di descrivere il contesto e le percezioni di traduttori non professionisti impiegati in organizzazioni di vario tipo sul territorio italiano. La diversità dei tre contesti ci permette di mostrare che la figura del traduttore non professionista in Italia è presente sia in aziende private sia in enti pubblici, in zone ufficialmente multilingui ma anche in zone monolingui e che l’attività di traduzione non professionale viene affidata a persone con background molto vari, non necessariamente solo a chi abbia svolto degli studi linguistici. Ciascuno dei tre casi di studio ha raccolto sia dati quantitativi sia dati qualitativi. Nelle sezioni seguenti daremo particolare risalto al punto di vista degli impiegati ricorrendo il più possibile alle loro parole, ascoltate durante un’intervista (INT) o fornite come risposte libere (RL) a un questionario.
3.1 Traduttori non professionisti nel settore pubblico in Alto Adige
Il progetto quadriennale “TradAm” (2017-21), composto da una fase esplorativa e da un dottorato di ricerca[3], ha descritto e analizzato i processi traduttivi dell’amministrazione della Provincia autonoma di Bolzano (De Camillis 2021). In virtù del bilinguismo ufficiale del territorio le istituzioni pubbliche locali sono tenute a comunicare in italiano, tedesco e in parte anche in ladino; la traduzione è quindi uno dei punti nevralgici della comunicazione istituzionale. Combinando tecniche qualitative e quantitative, lo studio ha analizzato la funzione, il processo e il prodotto della traduzione nell’istituzione. Gli strumenti di analisi sono stati: 24 interviste esplorative semi-strutturate a dipendenti provinciali; un questionario rivolto all’intero corpo amministrativo, ovvero all’intera popolazione di riferimento, ragion per cui non è stato realizzato alcun campionamento (su 2.963 dipendenti, 1.276 hanno completato il questionario, pari al 43 percento); l’analisi della complessità linguistica di un corpus di testi bilingui (45 testi tra decreti, circolari e foglietti informativi); la comparazione delle politiche di traduzione con due regioni estere (Catalogna e Paesi Baschi) attraverso il modello Translation Policy Metrics (Sandrini 2019). In questo contributo si ricorrerà in particolare alle risposte libere (RL) lasciate dai rispondenti nella compilazione del questionario.
Il questionario ha confermato quanto emerso dalle interviste esplorative, analizzate secondo i parametri della Qualitative Content Analysis (Mayring 2014): le traduzioni sono pane quotidiano di buona parte del corpo amministrativo provinciale. Il 67,6 percento dei rispondenti ha dichiarato infatti di aver svolto traduzioni nel corso dell’anno antecedente alla rilevazione, generalmente come attività accessoria alle proprie mansioni principali, per non più di un quarto del proprio tempo lavorativo. Soltanto il 2,9 percento di chi traduce possiede una formazione universitaria in ambito linguistico, mentre più rappresentate sono la giurisprudenza (10,2 percento), le scienze naturali come biologia e agraria (7,5 percento) e l’economia (5,5 percento). Buona parte dei rispondenti possiede invece un titolo di scuola secondaria di secondo grado, in particolare di tipo tecnico e professionale (40,3 percento), elementi questi che causano una certa confusione sui ruoli: “Non abbiamo una preparazione specifica in campo traduzioni, abbiamo una preparazione tecnica.”[4] (RL 43); “ÜbersetzerInnen sollten Übersetzungen übernehmen!”[5] (RL 199). Alla traduzione si sono approcciati attraverso il learning by doing, poiché oltre il 96 percento di loro non ha mai frequentato corsi di formazione sulla traduzione o sulla terminologia, lamentandone la mancanza: “Dei corsi di aggiornamento nell’ambito delle traduzioni sarebbero auspicabili” (RL 2); “C’è troppa approssimazione e poca preparazione. Bisognerebbe dare una buona formazione base al personale e poi individuare delle persone di riferimento per la traduzione” (RL 168).
Il 69 percento dei rispondenti possiede competenze bilingui di livello C1 e il 25 percento di livello B2[6], dunque la quasi totalità di chi traduce ha competenze bilingui medio-alte, almeno sulla carta. La certificazione di bilinguismo non sembra tuttavia uno strumento del tutto attendibile, poiché le competenze certificate all’inizio della carriera lavorativa possono nel tempo ritrarsi o espandersi, come giustamente segnalano alcuni rispondenti: “Leider besteht die Zweisprachigkeit bei vielen Landesangestellten nur auf dem Papier”[7] (RL 97); “Es ist Schade, dass vielfach ältere Mitarbeiter immer noch nicht die zweite Sprache erlernt haben”[8] (RL 106); “Credo che debba crescere la competenza linguistica di noi dipendenti” (RL 124). Ciononostante, il presunto bilinguismo del personale sembra essere l’unico parametro in base a cui l’istituzione affida le traduzioni internamente.
Trattandosi di un’attività accessoria, va da sé che il personale che traduce non venga assunto allo scopo specifico di tradurre. Alcuni accettano questa attività come un compito connaturato al lavoro amministrativo in due lingue, come espresso in questa risposta:
Durch den Nachweis der Zweisprachigkeitsprüfung sollte jede Mitarbeiterin und jeder Mitarbeiter in der Lage sein, im eigenen Arbeitsbereich kleinere Texte selbst zu übersetzen; wozu sonst braucht es einen Zweisprachigkeitsnachweis?[9] (RL 63)
Molti altri invece la vivono e la descrivono come un aggravio, specialmente di carattere temporale, perché intralcia lo svolgimento delle mansioni principali: “Il carico di lavoro per le traduzioni si aggiunge all’ordinario carico di lavoro di settore e spesso non viene considerato o sottovalutato” (RL 251); “La traduzione di tutti i testi richiede molto tempo che viene sottratto al normale svolgimento delle attività istituzionali” (RL 214); “Übersetzungen sollen nebenbei laufen, sodass meist nicht die Zeit bleibt, sich genauer damit zu befassen, da die ‘eigentliche’ Arbeit ja wartet”[10] (RL 42).
Il personale addetto alle traduzioni sbriga questa attività tendenzialmente in modo autonomo; l’istituzione infatti non dispone di norme condivise o strategie comuni: “eine einheitliche Handhabung der Übersetzungen ist weder innerhalb der Abteilungen und Ämter, noch in der Landesverwaltung als Gesamtheit zu erkennen”[11] (RL 161). Le uniche linee guida emesse dall’Ufficio Questioni linguistiche, incentrate sul linguaggio di genere, sulla semplificazione del linguaggio amministrativo e sulla redazione dei criteri legislativi, toccano questioni traduttive ma non sono riconosciute come direttive per le traduzioni dall’84,7 percento dei rispondenti. La sensazione descritta è quella di abbandono a sé stessi: “ogni singolo dipendente provinciale affronta il problema della traduzione in modo isolato, non vi è una linea comune” (RL 173); “man ist zu viel auf sich alleine gestellt”[12] (RL 192). A ciò contribuisce anche l’assenza di strumenti specifici per la traduzione. Mancano strumenti CAT, memorie di traduzione, glossari e sistemi di traduzione automatica; il sistema informativo bistro[13], che raccoglie parte della terminologia giuridico-amministrativa altoatesina, è noto soltanto a circa il 20 percento del personale. Anche di questo aspetto i rispondenti si lamentano: “dovrebbero comunque essere forniti strumenti agli impiegati (applicazioni software) per la traduzione professionale (specie quella tecnica)” (RL 21); “ein auf die Landesverwaltung angepasstes Übersetzungsprogramm”[14] (RL 111). Emerge con chiarezza la mancanza di una visione globale nei confronti dell’attività di traduzione da parte dell’istituzione, che definisca strategie, responsabilità, fasi di lavoro e strumenti a disposizione.
Infine, per quanto riguarda l’oggetto della traduzione, tra le tipologie testuali più tradotte rientrano la corrispondenza, le comunicazioni, le delibere, i decreti, i moduli e i report. Al 52 percento accade di frequente di svolgere la traduzione di un testo scritto da loro stessi, ovvero di autotradursi. È possibile che questo fattore, sommato alle competenze traduttive abbozzate e alla complessità della materia, contribuisca al senso di straniamento provato dai dipendenti leggendo i testi istituzionali. Loro stessi infatti individuano un nesso tra la qualità della redazione e la qualità della traduzione, riconoscendo che non possano nascere buone traduzioni da testi oscuri, specialmente perché di solito si traduce in modo letterale: “es passiert noch zu oft, dass die übersetzten Texte (vom Deutschen ins Italienische und umgekehert) zu wenig präzise sind”[15] (RL 18); “alcune volte […] rileggendo i testi mi accorgo che viene tradotto più in modo letterale che logico” (RL 32); “sempre più spesso si riscontrano errori di traduzione e testi redatti in modo non corretto (ortografia e sintassi), con incongruenze tra le due versioni italiane e tedesche” (RL 68).
Nel complesso la traduzione nell’amministrazione provinciale di Bolzano si delinea come un’attività trasversale e generalizzata, assegnata al personale amministrativo sulla base delle sue competenze linguistiche e tematiche, ma gestita in modo approssimativo senza una linea comune, formazione né supporto specifico da parte dell’istituzione.
3.2 Traduttori non professionisti nel settore privato in Alto Adige
La traduzione nel settore privato altoatesino è stata indagata nel 2012-13 nel quadro di un dottorato sulla gestione del multilinguismo nelle PMI in provincia di Bolzano[16] (Chiocchetti 2015). L’obiettivo era esplorare le strategie di gestione multilingue della conoscenza presso le aziende altoatesine, che da sempre affrontano il multilinguismo del proprio territorio oltre che le recenti sfide linguistiche date dall’internazionalizzazione. In questo contesto si sono analizzati, tra le altre cose, il ruolo della traduzione nonché le prassi traduttive e terminologiche con l’obiettivo di individuare buone pratiche. Data la prevalenza di imprese medio-piccole, si è posto l’accento sulle PMI, categoria ancora poco studiata per quanto concerne il multilinguismo. A differenza del settore pubblico, in quello privato non vige un obbligo di bilinguismo in Alto Adige. La scelta delle lingue di comunicazione dipende essenzialmente dalle dimensioni, dalla localizzazione e dai mercati dell’azienda. Le imprese piccole, spesso a conduzione familiare, site in zone sostanzialmente monolingui, tendono a un multilinguismo abbastanza ridotto, mentre quelle più grandi, con mercati internazionali, mostrano una diversificazione linguistica maggiore.
I risultati riportati di seguito si basano su dati quantitativi e qualitativi. I primi derivano da un questionario online, statisticamente non rappresentativo, a cui hanno partecipato 443 aziende del territorio. I secondi sono stati raccolti tramite 26 interviste presso imprese locali o con testimoni privilegiati nonché tramite le risposte libere al questionario. In questa sezione la voce dei traduttori non professionisti sarà dunque presentata indirettamente attraverso le informazioni fornite dai dirigenti.
In quasi tre quarti delle aziende partecipanti all’indagine il personale amministrativo svolge delle traduzioni. La seconda opzione più frequente è l’esternalizzazione. Seguono i tecnici interni con competenze settoriali: “dipende dal testo da tradurre, no? Se è un testo tecnico, sono i tecnici stessi che lo fanno, se sono, diciamo, documenti di gestione… [li traducono in amministrazione]” (INT 15). Se presenti, il reparto marketing, comunicazione e commerciale sono i reparti più multilingui, che si fanno carico delle traduzioni in circa un terzo delle aziende rispondenti. Meno di un decimo delle aziende indagate impiega traduttori interni.
Le traduzioni sono affidate volentieri a persone in possesso di un diploma di maturità linguistica oppure a personale straniero proveniente dai Paesi dove si parla la lingua richiesta: “abbiamo anche […] un ingegnere russo” (INT 19) e “a livello strategico […] [per] ogni Paese dove noi siamo presenti vogliamo avere delle persone qui che parlano la lingua di quel Paese” (INT 14). Non si tratta però di persone assunte per tradurre bensì per svolgere altre mansioni. Si applica così la credenza che basti conoscere una lingua per tradurre, come suggeriscono alcune risposte: “[l]a maggior parte dei collaboratori ha una padronanza sufficiente delle due lingue [locali] nel suo ambito” (RL 43); “wir sprechen nativ drei [S]prachen, [E]nglisch sehr gut als vierte [S]prache”[17] (RL 34). Il personale aziendale assume un ruolo cardine nella comunicazione multilingue, benché non riconosciuto, sia per le funzioni interne sia per quelle esterne, cioè tanto per la gestione e organizzazione dell’impresa stessa quanto per logistica, acquisti e vendite.
In merito ai supporti tecnici per la traduzione, si rilevano approcci poco sistematici: “Do mocht man sich holt in Internet awien schlau”[18] (INT 22). Gli strumenti di traduzione automatica non erano ancora molto sfruttati prima dell’avvento dei sistemi neurali nel 2016, ma più di un rispondente su venti già li usava spesso o sempre. Oltre un’azienda su dieci afferma di avere dei glossari, piccoli dizionari o liste di traduzioni interni: “[s]olitamente utilizziamo glossari già presenti. Oppure vengono stilate liste di termini tecnici. Negli altri casi, per proprio uso ciascuno prende appunti come meglio crede” (RL 13). La terminologia non sembra porre difficoltà. I glossari interni non si producono perché il personale possiede già sufficienti competenze o per mancanza di tempo e “sono comunque presenti dei dizionari” (RL 90). Si dà per scontato che chi traduce conosca già la terminologia specialistica in più lingue. Spesso non si rileva nemmeno l’esigenza di creare delle raccolte terminologiche plurilingui: “Jeder[,] der Texte seines Bereiches übersetzt, kennt die wichtigsten Begriffe bereits”[19] (RL 17). “Die Kenntnis der fachspezif[is]chen Begriffe wird in den einzelnen Fachgruppen vorausgesetzt”[20] (RL 19). Tuttavia, le difficoltà terminologiche si presentano comunque, quantomeno per chi affronta ambiti o combinazioni linguistiche nuove o meno frequenti per l’azienda: “A Preislischte in Englisch hota giwellt, puh. I, i hon in do Schuil Englisch gilearnt, okay, […] obo di gewissn Fochbegriffe, semm mueß man schaugn, ob man de außifind”[21] (INT 23).
La tipologia di testi tradotti internamente o esternamente varia di azienda in azienda. Si tende a esternalizzare testi urgenti, lunghi e/o legati ad argomenti specifici (es. bilancio, contratti, testi pubblicitari) oppure in lingue minori, mentre quelli relativi al core business restano in azienda. La documentazione giuridica e amministrativa può venire affidata a servizi di traduzione, in parte per mancanza di competenze in questi ambiti:
le uniche cose che faccio tradurre all’esterno sono […] le delibere del Consiglio di amministrazione, perché lì voglio che la traduzione sia veramente il più fedele possibile e non voglio che ci siano errori, perché poi son documenti ufficiali che vengon riportati nei libri societari. (INT 13)
L’autotraduzione è prassi comune. Non di rado vige la regola che “ognuno deve fare le sue traduzioni, il tecnico le sue, il personale le sue” (INT 15) e che “ognuno se le scrive a modo suo” (INT 13). La revisione dei testi tradotti è una fase del workflow traduttivo presente anche nelle aziende, il feedback sul testo tradotto è però riservato perlopiù al personale interno, mentre è raro che si diano riscontri a traduttori esterni: “se è un traduttore esterno mai, se è un traduttore interno riceve la copia definitiva per conoscenza” (RL 1). Infine, riguardo alla formazione interna, tre quarti delle aziende rispondenti non organizzano corsi per promuovere le competenze linguistiche e/o comunicative, tra cui rientrano i corsi di lingua ma anche di scrittura professionale o traduzione. I corsi offerti concernono perlopiù le lingue straniere e sono spesso rivolti a dirigenti o amministrativi.
I risultati dell’indagine illustrano una situazione in cui predominano gli approcci interni e “fai da te” alla traduzione: nelle aziende altoatesine praticamente chiunque prima o poi si trova a dovere stilare delle traduzioni, con particolare frequenza se è impiegato nei reparti marketing o commerciale.
3.3 Traduttori non professionisti nel settore privato nelle Marche
Per quanto riguarda il territorio marchigiano vengono presentati di seguito i risultati di un’indagine svolta nell’ambito di un progetto di dottorato di durata triennale (2019-22) promosso dalla Regione Marche (Farroni 2023). La ricerca si configurava come mixed-methods, in quanto è stata svolta utilizzando sia metodi quantitativi che qualitativi. La raccolta dei dati è avvenuta tramite questionario e interviste semi-strutturate. Particolarmente interessanti per le finalità del presente contributo sono i risultati dell’analisi qualitativa delle interviste condotte sul territorio.
Sono stati intervistati quindici soggetti di 15 aziende locali, di cui 5 grandi imprese e 10 PMI. Tre degli intervistati svolgono un ruolo di coordinamento delle attività di traduzione mentre gli altri traducono testi in prima persona. Il loro punto di vista è significativo per la presente indagine, poiché ci consente di fare luce su delle pratiche traduttive e dei profili lavorativi ancora poco esplorati nelle Marche e in Italia.
Nel definire il grado di professionalità di questi soggetti è opportuno chiedersi che tipo di formazione abbiano. 5 dei 12 soggetti che si occupano delle traduzioni in azienda non hanno alcun tipo di formazione linguistica, ma hanno appreso almeno una seconda lingua per motivi circostanziali, dettati dall’ambiente multilingue in cui lavorano o da soggiorni più o meno prolungati all’estero. Spesso si tratta di figure addette alla gestione dei rapporti con l’estero, come commerciali esteri ed export manager. L’assenza di una formazione linguistica non è necessariamente sinonimo di incompetenza (Antonini et al. 2017: 7), ma viene vista in alcuni casi in maniera critica dagli intervistati stessi:
A partire dalle schede tecniche, fino ai listini e al sito internet traduco tutto io. Io sono però un commerciale, in realtà senza neanche un titolo di traduzione. Se andiamo nel dettaglio io sono diplomato in ragioneria e laureato in scienze economiche ma non è un titolo di lingua. Quindi io non sarei neanche titolato in realtà. (INT 6)
Nella mia azienda generalmente la traduzione sta alla competenza del commerciale estero, perché è visto come uno spreco di risorse quello di affidarsi a dei traduttori professionisti. Va bene se il commerciale estero ha una formazione linguistica. Va un po’ meno bene se il commerciale estero è un po’ più autodidatta. (INT 11)
I sette intervistati rimanenti hanno invece una formazione di natura linguistica ma nessuno di loro è stato assunto per ricoprire il ruolo di traduttore in-house, né può considerarsi un vero e proprio traduttore di professione. Le attività svolte da molti degli intervistati si configurano dunque come ibride e fortemente influenzate dalla volontà dei piani dirigenziali, come emerge dai seguenti estratti:
se io passo le mie quaranta ore settimanali a revisionare o tradurre il sito e le pagine pubblicitarie in tre lingue, non posso lavorare al resto. Credo che il mio caso sia lo stesso di tante altre aziende del territorio in cui ci si affida alla figura che parla le lingue e basta. (INT 3)
affidarsi ad una ditta esterna... il titolare non era proprio propenso. Dice che noi ce le abbiamo internamente le competenze, quindi sfruttiamole. Anche se poi non capisce che toglie tempo al lavoro ordinario. (INT 15)
Alcuni degli intervistati devono inoltre giostrarsi con le richieste provenienti dagli altri reparti aziendali:
io faccio un po’ il jolly in azienda attualmente. […] Alcuni ti dicono “no, io con i clienti non ci parlo perché non sono capace quindi parlaci tu” e alla fine sono io che devo interpretare, imparare per ogni reparto il linguaggio settoriale. (INT 3)
Molti degli intervistati si trovano dunque a gestire sia incarichi di natura commerciale (assistenza ai clienti, gestione degli ordini esteri) che attività di traduzione e assistenza linguistica. Questa combinazione di mansioni viene percepita talvolta come poco efficiente e come un fardello: “se il testo è interessante mi piace tradurre. Ciò che me lo rende meno divertente è che non potendo fare questa attività come mia mansione, io mi devo ritagliare del tempo per farlo” (INT 6).
Un ulteriore aspetto degno di approfondimento è il ricorso all’esternalizzazione dei testi da tradurre. In questo contesto, le risorse a disposizione in azienda giocano un ruolo chiave. Infatti, l’esternalizzazione è una soluzione adottata principalmente dalle grandi aziende. Al loro interno vengono individuate in alcuni casi delle figure preposte alla gestione dei rapporti con le agenzie di traduzione e vengono implementate delle pratiche di revisione e condivisione di feedback con i professionisti esterni (INT 13 e INT 14). Al contrario, nelle PMI le risorse a disposizione sono minori e ci si rivolge a professionisti esterni solo in casi di particolare necessità. Tra le casistiche menzionate più di frequente vi è la traduzione giuridica, in particolare di marchi da registrare (INT 8), contratti (INT 11) e contestazioni internazionali:
Chiediamo una traduzione ufficiale esternamente [...] quando ci sono di mezzo gli avvocati. Ad esempio, per la risposta ad un post-vendita, contestazioni subite o da fare. […] Questi sono gli unici appigli che si hanno per potersi rivolgere ad una società esterna. (INT 6)
Il processo è nel complesso fortemente influenzato dal tipo di competenze e dalle lingue parlate dal personale presente in azienda: “visto che ce l’abbiamo internamente [un madrelingua francese] per il francese possiamo farlo [revisionare i testi in francese], per l’inglese e per lo spagnolo no perché non abbiamo madrelingua” (INT 15). In assenza di esternalizzazione e in mancanza di competenze linguistiche sufficienti, il processo si fa meno rigoroso e ogni azienda adotta strategie di varia natura per far fronte alle esigenze traduttive. Ad esempio, al seguente intervistato è capitato di avvalersi di un cliente straniero di lunga data per la revisione di testi tradotti verso il francese:
se ho problemi con la terminologia alzo il telefono e chiamo l’agente in Francia o un cliente affezionato e chiedo come chiamano certe cose. A volte giro proprio le schede tecniche al cliente e chiedo una mano per capire se si capisce o non si capisce. (INT 6)
Una caratteristica che contraddistingue gli addetti alle traduzioni è anche l’interazione diretta con i propri colleghi. In questo, la loro attività lavorativa si differenzia fortemente da quella dei traduttori professionisti esterni. Questi ultimi orbitano al di fuori dell’ambiente aziendale e spesso devono rivolgersi a dei project manager che fanno da tramite. Le interazioni continue tra i traduttori in azienda e i loro colleghi si ripercuotono in due modi sul processo traduttivo. Da un lato, il loro lavoro è esposto alle esigenze degli altri reparti e a imposizioni che ne riducono l’autonomia. Dall’altro, le diverse figure coinvolte nell’interazione vengono inevitabilmente influenzate dalle competenze di ciascuno e si viene a creare nel tempo una comunità di pratiche condivise.[22] Nel caso di studio delle Marche, è evidente come il processo traduttivo non sia sempre ottimale, ma al contempo è possibile individuare delle buone pratiche sviluppate in maniera collaborativa. Nell’estratto seguente un commerciale estero spiega come è riuscito con i suoi colleghi a rendere più efficiente il processo traduttivo intervenendo nella fase di redazione:
Noi abbiamo imposto [al redattore tecnico] alcune cose. […] Abbiamo dato dei parametri e delle regole che il tecnico riesce a rispettare. Abbiamo chiesto di mantenere uno stesso layout, di fare le frasi più semplici, magari di accorciare le descrizioni. Sono piccole accortezze che a noi rend[ono] la vita un po’ più semplice. (INT 15)
Da questa panoramica si evince come gli addetti alle traduzioni in ambito aziendale siano figure estremamente versatili, che agiscono in complesse reti sociali. In un territorio monolingue come quello marchigiano, il commerciale estero viene percepito come la figura che, a differenza dei suoi colleghi, conosce le lingue. Dagli estratti presentati appare evidente che questa concezione ha delle ripercussioni sia sulla figura del traduttore – che non gode di autonomia nell’ecosistema aziendale – che sul processo stesso, percepito in molti casi come un’attività collaterale.
4. Discussione
Dall’analisi del personale che all’interno di tre realtà lavorative italiane si dedica alle traduzioni sono emersi diversi punti in comune ma anche alcune differenze. Riprendendo la definizione di traduttore non professionista illustrata nella sezione 2 (Antonini et al. 2017: 7) con le rispettive caratteristiche essenziali, il primo elemento presente nei tre contesti studiati riguarda l’inquadramento di queste figure (caratteristica c: può non essere assunto o pagato per tradurre). Si tratta di personale dedito a mansioni tra le più svariate, dall’amministrazione e direzione aziendale alla gestione di attività tecniche e commerciali, dunque assunto per svolgere principalmente compiti di natura non traduttiva, ma che per motivi circostanziali è tenuto o è chiamato a svolgere anche delle traduzioni. Queste figure ibride possiedono competenze linguistiche per motivi diversi (caratteristica b: competenze linguistiche acquisite tendenzialmente per motivi circostanziali), che spaziano dall’obbligo di legge come nel caso degli impiegati amministrativi della Provincia di Bolzano, all’aver studiato a scuola la L2 o la lingua straniera o aver svolto soggiorni all’estero per i dipendenti delle aziende private. Pur non avendo una vera e propria formazione linguistica, queste figure agiscono spesso da language nodes (cf. sezione 2) e si fanno carico della comunicazione in lingua straniera internamente all’organizzazione o esternamente con partner e clienti esteri. Nemmeno chi ha svolto studi linguistici, come ad esempio gli intervistati di alcune aziende marchigiane, è assunto come traduttore, bensì con altre mansioni predominanti. Escludendo queste ultime figure, emerge in modo chiaro anche una mancanza di formazione in ambito traduttivo (caratteristica a: assenza di formazione in traduzione e di una qualifica). Le istituzioni di appartenenza in nessuno dei tre casi provvedono a una formazione professionale continua o a dei corsi ad hoc sulle strategie traduttive, quantomeno nel periodo in cui si sono svolte le tre indagini. Le traduzioni sono dunque pane quotidiano per le organizzazioni multilingui analizzate e il personale impiegato se ne occupa in virtù delle proprie competenze linguistiche, ma in assenza di competenze tecniche certificate per la professione del traduttore. Mancano inoltre all’interno dell’azienda o dell’istituzione norme di riferimento, regole e strategie condivise (caratteristica d: tradurre senza norme di riferimento), infatti in nessuna delle tre realtà analizzate è emerso un processo standardizzato (spesso lo è soltanto in parte). Infine, almeno per quel che riguarda il contesto pubblico altoatesino e privato marchigiano, svolgere traduzioni è una mansione a cui non sembra essere associato prestigio sociale (caratteristica e: può non acquisire prestigio sociale grazie alla traduzione), al contrario sembra essere un’incombenza inevitabile a cui bisogna far fronte. Le traduzioni sono considerate laboriose, d’ostacolo a mansioni principali più importanti o urgenti e dispendiose dal punto di vista temporale.
A fare da comune denominatore tra queste tre realtà emergono in particolare due elementi. Il primo riguarda la convinzione che conoscere una lingua straniera sia sufficiente per produrre traduzioni di qualità, opinione diffusa difficile da eradicare nonostante gli interventi mirati alla definizione di profili professionali con competenze riconosciute. Ci riferiamo in particolare alla stesura di modelli sulla competenza traduttiva, tra cui EMT (EMT expert group 2022) e PACTE (Hurtado Albir 2017), nonché all’istituzione di corsi di studio universitari e alla pubblicazione di norme internazionali di standardizzazione (ISO 17100:2015). In stretta relazione a questo primo fattore sta la tendenza da parte delle istituzioni analizzate a non riconoscere la traduzione come un’attività professionale a titolo pieno (Ozolins 2010); è tale solo in specifici casi, se ad esempio tra il personale non c’è chi parla quella specifica lingua, oppure per un certo tipo di testi, ma non lo è a priori. Nei tre casi presentati abbiamo visto infatti sia nel settore pubblico sia in quello privato, monolingue o bilingue che fosse, che per le traduzioni ci si affida alle risorse interne. Il personale conosce bene gli ambiti di attività, i processi e il linguaggio dell’organizzazione, una conoscenza preziosa che manca a traduttori esterni e che i traduttori in-house acquisirebbero solo nel tempo. Di pari passo, al traduttore professionista tendenzialmente non vengono riconosciute delle competenze esclusive tali da renderlo indispensabile nel contesto lavorativo; la traduzione è vista come una questione istituzionale più che professionale (Ozolins 2010: 196). Nell’area multilingue studiata questo riconoscimento manca anche al processo di traduzione in sé, che di fatto viene sottovalutato e può essere percepito come una perdita di tempo e “un male necessario” (Chiocchetti 2011: 12). Molti traduttori non professionisti lamentano un sovraccarico di lavoro, a riprova del fatto che a monte non si tiene conto o non si conosce quanto tempo e risorse siano necessarie per tradurre.
Al contempo, dalla comparazione tra le tre realtà studiate sono emerse alcune differenze riconducibili da un lato al diverso contesto linguistico di Marche e Alto Adige e, dall’altro, alle diverse caratteristiche della traduzione svolta in ambito pubblico o privato. Per quanto riguarda il primo punto, ricordiamo che in Alto Adige vige una condizione di bilinguismo per cui in ambito pubblico è obbligatoria la conoscenza del tedesco e dell’italiano. Sebbene questa obbligatorietà non valga per le aziende private, l’apprendimento della seconda lingua a scuola porta a una maggiore disponibilità di figure con competenze sia in tedesco che in italiano. Le Marche rappresentano invece un contesto monolingue dove le competenze linguistiche sembrano venire date meno per scontate. Ciò si evince da tre aspetti. In primo luogo, sette intervistati marchigiani addetti alle traduzioni, pur non rivestendo il ruolo di traduttori in-house, hanno una formazione linguistica. Si è già sottolineato invece come solo il 2,9 percento degli impiegati amministrativi altoatesini che hanno partecipato all’indagine abbia una formazione linguistica. In secondo luogo, nelle Marche, molti dipendenti aziendali si rivolgono alla “figura che parla le lingue” per sbrigare questioni linguistiche. In Alto Adige frequente è invece il ricorso all’autotraduzione e il carico di lavoro è maggiormente distribuito tra tutti i dipendenti. In terzo luogo, nelle Marche l’offerta dei corsi linguistici per i dipendenti sembra essere più diffusa che in Alto Adige. Come emerge dalla sezione 3.2, tre quarti delle aziende altoatesine non offrono corsi di lingua. Al contrario, in nove delle 15 aziende intervistate nelle Marche si tengono, sono stati tenuti o sono previsti per il futuro dei corsi di lingua per il personale. Da questa panoramica sembra emergere una consapevolezza delle lacune linguistiche del personale e la disponibilità a colmarle, mentre per le imprese altoatesine spetta all’istruzione obbligatoria fornire le competenze linguistiche richieste nelle aziende (Chiocchetti 2015: 259-260). Inoltre, nelle Marche la selezione degli addetti ai rapporti con l’estero – e solitamente alle traduzioni – sembra tenere conto almeno in parte delle competenze linguistiche, mentre nel contesto altoatesino si tende a darle per scontate.
Per quanto riguarda il secondo punto, il contesto pubblico o privato in cui operano i traduttori non professionisti influenza in particolar modo la tipologia e la quantità di testi tradotti. Il quadro giuridico dell’Alto Adige prevede infatti, per le istituzioni, l’obbligo di pubblicare in italiano e in tedesco molti atti e documenti istituzionali. Al contrario, nelle aziende private non vige quasi alcun obbligo e i testi tradotti spaziano dalla documentazione tecnica ai contratti, dai bilanci al materiale pubblicitario e possono variare e aumentare a seconda delle strategie aziendali e dei mercati target. Il traduttore non professionista aziendale potrà quindi dover affrontare diverse tipologie di testi ma tendenzialmente in minore quantità, perché non tutto verrà tradotto, mentre il traduttore non professionista istituzionale tradurrà un numero perlopiù fisso di tipologie testuali ma la mole sarà maggiore a causa dell’obbligo di bilinguismo.
5. Conclusioni
Nel contributo abbiamo messo a confronto tre realtà diverse del mondo lavorativo italiano: una pubblica amministrazione in un territorio multilingue, alcune imprese private nello stesso territorio multilingue e alcune imprese private in un territorio monolingue. In questi contesti si trovano traduttori non professionisti che rispondono alle caratteristiche individuate da Antonini et al. (2017). Svolgono un ruolo centrale nella comunicazione multilingue interna ed esterna delle proprie organizzazioni in virtù delle loro competenze linguistiche, senza che tale ruolo sia formalmente riconosciuto, retribuito, organizzato o sostenuto in maniera adeguata. I punti salienti che emergono dal confronto sono il carattere trasversale dell’attività di traduzione, con conseguente ricorso alle risorse interne anziché a professionisti per tradurre, nonché la frequenza dell’autotraduzione nel territorio multilingue rispetto a quello monolingue. In quest’ultimo le competenze linguistiche vengono date molto meno per scontate e si concentrano in un numero minore di addetti, aspetto dimostrato anche dalla maggiore propensione delle imprese a offrire formazione in ambito linguistico. Ciononostante, la competenza traduttiva in un caso e nell’altro viene associata alle competenze linguistiche, per cui la figura professionale del traduttore sostanzialmente non è riconosciuta come necessaria. Nel confronto tra il settore pubblico e privato emergono differenze tra la tipologia e la quantità di testi tradotti. Mentre la tipologia di testi tradotti è abbastanza stabile nel pubblico, nel privato è più variabile. La quantità di testi tradotti è cospicua nel pubblico a causa degli obblighi di legge, più contenuta nel privato, dove le pratiche traduttive sono tendenzialmente dettate da concrete esigenze di mercato e dalla disponibilità di risorse interne.
Le ragioni che spingono i tre contesti lavorativi analizzati a delegare sistematicamente le traduzioni al personale interno non formato in traduzione sono sostanzialmente di due tipi. Da una parte, troviamo ragioni di carattere economico. Le istituzioni pubbliche sono soggette a croniche riduzioni di finanziamenti da ormai diversi decenni e, in base alle politiche economiche degli ultimi governi, questo processo non sembra destinato ad arrestarsi. Per le imprese private il discorso è diverso ma simile, quantomeno nel panorama italiano dove prevalgono le piccole aziende a conduzione familiare e l’assunzione di personale rappresenta spesso una scommessa sul futuro. Dall’altra parte, troviamo motivi di natura culturale. A un tradizionale screditamento delle materie umanistiche si somma una svalutazione specifica della traduzione, comunemente ancora considerata una costola della competenza linguistica. Grazie ai processi di globalizzazione, le competenze linguistiche sono diventate un requisito trasversale a figure professionali tra le più svariate; di conseguenza la traduzione viene spesso considerata un’attività alla portata di ingegneri e tecnici tanto quanto di linguisti. Perlomeno nei contesti analizzati in questo contributo, alla traduzione non è generalmente riconosciuto un carattere specifico. Va da sé la credenza secondo cui non siano necessari professionisti specifici ma che basti conoscere la lingua per tradurre.
La traduzione non professionale è una dimensione presente nei contesti lavorativi indipendentemente che si tratti di realtà monolingui o plurilingui. Difficilmente questo potrà cambiare nel futuro, sia per le ragioni appena menzionate sia per l’evoluzione delle tecnologie linguistiche. Senz’altro, la collaborazione tra università e imprese e università e istituzioni pubbliche potrebbe aiutare a diffondere la credibilità e la necessità della figura professionale del traduttore, non soltanto attraverso lo strumento del tirocinio – che alle volte corre il rischio di trasformarsi in una svendita di manodopera – bensì, ad esempio, con campagne informative, open day e reportage sul ruolo del traduttore in contesti professionali determinati. La formazione continua nel contesto lavorativo, inoltre, può rappresentare l’altra faccia della medaglia, specialmente dove la traduzione non professionale è già una realtà. Proporre dei corsi di formazione sulla traduzione potrebbe rivelarsi una soluzione pratica a un problema concreto e di difficile soluzione.
A complicare ulteriormente il quadro non va dimenticato, infine, il ruolo della traduzione automatica, strumento di cui spesso i non professionisti abusano proprio per gli enormi vantaggi a costo (quasi) zero che comporta. Oggigiorno la traduzione automatica rappresenta la prima risorsa a cui si ricorre per svolgere una traduzione, spesso proprio il primissimo approccio, ragion per cui dovrebbe rientrare tra i principali temi trattati non soltanto nei corsi universitari frequentati dai futuri professionisti del settore, ma anche nei corsi di formazione nei contesti lavorativi pubblici e privati. L’amministrazione provinciale di Bolzano alla fine del 2023 ha puntato su questa strategia, offrendo al proprio personale formazione sull’uso degli strumenti di traduzione automatica e sulla traduzione più in generale. La validità e l’efficacia di tale iniziativa sono ancora da dimostrare, ma quantomeno si può considerare questo un primo passo verso un’organizzazione più coesa dell’attività.
Con la nostra indagine speriamo di aver contribuito a far luce sul ruolo decisivo che i traduttori non professionisti svolgono per il funzionamento multilingue e l’internazionalizzazione di molte strutture pubbliche e private e ad attirare maggiore attenzione scientifica su queste figure ancora poco riconosciute e studiate in Italia.
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Note
[1] Per una panoramica sulle denominazioni si rimanda ad Angelelli (2020) e Lomeña-Galiano (2020).
[2] Si rimanda al blog di Brian Harris, cfr. https://unprofessionaltranslation.blogspot.com/2010/03/unrecognized-translating.html (ultima consultazione aprile 2024).
[3] Il progetto è stato finanziato da Eurac Research con il contributo della Provincia Autonoma di Bolzano ed è stato realizzato in collaborazione con l’Università di Bologna.
[4] In tutto il contributo le citazioni sono in lingua originale. Le traduzioni fornite per le citazioni in tedesco standard o dialetto sudtirolese sono delle autrici.
[5] “I traduttori e le traduttrici dovrebbero fare le traduzioni!”
[6] Tali competenze vengono misurate prima dell’assunzione attraverso l’esame di bilinguismo, certificazione obbligatoria per chi vuole lavorare nelle istituzioni pubbliche locali.
[7] “Purtroppo il bilinguismo di molti impiegati provinciali sussiste solo sulla carta.”
[8] “È un peccato che molti collaboratori più anziani non abbiano ancora imparato la seconda lingua.”
[9] “Grazie all’attestato di bilinguismo ogni collaboratrice e ogni collaboratore dovrebbe essere in grado di tradurre autonomamente piccoli testi del proprio ambito; altrimenti a cosa serve il certificato di bilinguismo?”
[10] “Le traduzioni devono essere svolte di pari passo [al resto delle attività], così spesso non resta il tempo di occuparsene con attenzione perché il ‘lavoro vero’ aspetta.”
[11] “Non si riscontra una gestione univoca della traduzione né all’interno di ripartizioni e uffici, né nell’amministrazione provinciale in generale.”
[12] “Si è troppo abbandonati a sé stessi.”
[13] http://bistro.eurac.edu/ (ultima consultazione aprile 2024).
[14] “Uno strumento di traduzione adattato all’amministrazione provinciale.”
[15] “Succede ancora troppo spesso che i testi tradotti (dal tedesco all’italiano e viceversa) siano troppo poco precisi.”
[16] I dati sono stati raccolti durante il progetto “Comunicazione d’impresa: verso nuovi orizzonti competitivi” finanziato dal Fondo sociale europeo (2/211/2010).
[17] “Di base parliamo tre lingue, l’inglese molto bene come quarta lingua.”
[18] “Si fa una ricerchina su Internet.”
[19] “Chiunque traduce testi del proprio settore conosce già i termini più importanti.”
[20] “La conoscenza dei termini settoriali si considera un presupposto nei singoli gruppi specialistici.”
[21] “Un prezziario in inglese voleva, uff. Io, io ho studiato inglese a scuola, OK, […] ma certi termini tecnici, bisogna vedere se si trovano.”
[22] In letteratura si parla di community of practice per fare riferimento a comunità di pratiche condivise – ad esempio sul posto di lavoro – al cui interno, i membri condividono obiettivi e problemi e imparano l’uno dall’altro, in maniera intenzionale o incidentale (Cadwell et al. 2022: 4).
©inTRAlinea & Flavia De Camillis[1], Cristina Farroni[2], Elena Chiocchetti[1] (2024).
"Tradurre nel pubblico e nel privato: la voce dei traduttori non professionisti tra Alto Adige e Marche", inTRAlinea Vol. 26.
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