Con licenza di traduzione
Dialetti, lingue, culture poesia e operare autotraduttivo
By Giovanni Nadiani (University of Bologna, Italy)
Abstract & Keywords
English:
The greatness of Italian literature is due in part to the astonishing variety of cultures and languages growing within its borders (Italian dialects – needless to say- are distinct languages, not variants of the national standard). During the second half of the twentieth century several important poets, such as for instance Pier Paolo Pasolini, wrote poetry in dialect, and they still do. These “neo-dialectal poets”, as they are usually called, often publish their original poems in dialect together with a self-translation into Italian. The author of this article acknowledges the vast production of self-translated poetry, very often to be considered not only as clarifying glosses but as poetry in itself and, drawing on some of Walter Benjamin’s ideas on translation, tries to demonstrate how this self-translation activity is necessary to poetry.
Italian:
Nel panorama poetico italiano del secondo Novecento e in quello attuale un ruolo significativo è assunto dalla cosiddetta linea neodialettale. Questi poeti, a partire dal primo Pasolini, erano e sono soliti accompagnare i loro testi “originali” scritti in uno dei dialetti della Penisola con una traduzione in lingua nazionale. Partendo da questa constatazione, nell’articolo si discute l’imponente opera di autotraduzione, un campo finora poco indagato, effettuata dai poeti neodialettali sullo sfondo del rapporto dialettico tra le varie lingue e culture, grandi o piccole che siano, tentando di dimostrare, con l’aiuto di alcune idee di Walter Benjamin attorno alla traduzione, la necessità di tale operare autotraduttivo.
Keywords: traduzione letteraria, literary translation, poetry translation, traduzione poetica, benjamin, walter, dialects, dialetti
©inTRAlinea & Giovanni Nadiani (2002).
"Con licenza di traduzione Dialetti, lingue, culture poesia e operare autotraduttivo", inTRAlinea Vol. 5.
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1. Introduzione
Fabio Zinelli, nel suo puntiglioso e stimolante scritto “‘Effetti’ di autotraduzione nella poesia neodialettale” (Zinelli 1999), ha tentato di delineare una prima tipologia della prassi autotraduttiva. Tale campo risulta essere ancora abbastanza nuovo e di recente era stato indagato in precedenza soltanto da Gian Mario Villalta (1992). Riferendosi alla pratica invalsa presso numerosi autori cosiddetti “neodialettali” (cfr. Brevini 1990) o “neovolgari” (cfr. D’Elia 1989) di vertere nei loro codici regionali, locali e rispettive varianti, o addirittura idiolettali autori classici e contemporanei, Zinelli afferma: “Ma usare oggi il dialetto per tradurre, oltre a procurargli beninteso la patente di lingua (atta ‘perfino’ ad operazioni colte come la traduzione), gli fa respirare un’aria di sperimentazione (come uno dei linguaggi possibili del contemporaneo, oggi che possiamo vedere film in originale sottotitolati e cantare in inglese le canzoni della nostra vita), aria di libertà” (1999: 107).
2. Poesia neodialettale e autotraduzione
L’occasione di sentirsi sfiorare da qualche alito di quest’aria di libertà e sperimentazione è data dalla lettura del volume Scribendi licentia di Cesare Ruffato, uscito nel 1998 ma ancora fonte di animati dibattiti, che raccoglie le sue poesie in “volgare padovano” e che testimonia altresì della sua “monumentale” opera di autotraduzione (distribuita coi testi originali su oltre 400 pagine!) effettuata nel corso degli anni, e – mentore, non a caso, lo stesso Ruffato curatore della nuova collana marsiliana “Elleffe” – del “quaderno di traduzioni” in friulano, condotte direttamente sui componimenti originali (con versioni di “servizio” in italiano) del filologo romanzo e neerlandista Giorgio Faggin, Mimese (1999a), raggruppante voci importanti della poesia europea contemporanea e non pochi autori neodialettali italiani. Impresa, questa del tradurre da dialetto a dialetto, che per altro era già stata preannunciata dal corposo Il savôr dal pan. Poesìis nord-italianis dal ’900 (1995), che presentava 24 poeti di sette regioni trasposti in friulano – e si chiede venia a Faggin dell’apparente svalutazione del “volgare illustre” friulano, quello ufficiale della koiné, da egli impiegato (probabilmente distante dagli effettivi usi degli ancora parlanti) definendolo “dialetto”, ma si è propensi a credere che da un punto di vista sociolinguistico la sua sorte, come quella del volgare padovano di Ruffato, non sia/non sarà molto diversa, pur con le dovute distinzioni, da quella degli altri dialetti della penisola (cfr. Berruto 1994), senza dimenticare che gli autori di valore friulani vengono comunque generalmente classificati tra i “dialettali”.
Entrambe le operazioni, legate tra di loro dalla fedeltà nel tempo alla scrittura dialettale, per Faggin in friulano appunto, per Ruffato nel “dialetto di Padova nella viva parlata quotidiana ma frequentemente sollecitato e reinventato dal sogno sulla traccia di lacerti mnestici infantili e con volontari sbandamenti nell’italiano e in vari linguaggi settoriali” (Ruffato 1998: X), trovano una sintomatica appendice comune sul primo Quaderno di Hebenon (Faggin 1999b: 12-14), dove Faggin offre al grande sperimentatore padovano della “parola etica” (Pamio 1999) tre sue volture poetiche friulane accompagnate dalle autotraduzioni in italiano di Ruffato e che, dunque, ben si prestano a qualche riflessione sulla traduzione da, e verso linguaggi “minoritari”.
3. Lingue e culture in gioco nell’autotraduzione
Generalmente nel campo della traduzione (non solo poetica) si è soliti parlare di un testo di partenza [da ora in poi TP] scritto in lingua originale o di partenza [da ora in poi LP] e di un testo d’arrivo [TA] in una lingua d’arrivo [LA]. Con l’autotraduzione in italiano del poeta neodialettale ovvero con la traduzione da dialetto a dialetto supportata nel viaggio da una traduzione “al seguito” in lingua nazionale le cose si complicano, dal momento che, in ultima istanza, tali operazioni, coi relativi interrogativi che suscitano, sono il frutto di una riflessione che si svolge “all’interno della cultura in lingua, o, meglio, della cultura tout court, nella quale si viene a proporre il tema del rapporto ermeneutico tra linguaggio ed esistenza, e che inaugura un’operazione affatto diversa da quella tradizionale, volta a contrapporre il mondo del dialetto a quello della lingua, percorrendo invece i confini della difficile integrazione delle differenze linguistiche e culturali” (Villalta 1992: 57). Insomma, le operazioni del fare poesia e del tradurla avvengono all’interno dello stesso spettro culturale, che presenta, sì, conformazioni e colori sempre diversi a seconda della disposizione dei cocci di vetro (le differenze linguistiche e culturali tra dialetto e dialetto, tra lingua nazionale e i vari dialetti, ecc.), ma pur sempre all’interno dello stesso “tubo”, a sua volta continuamente scosso da fortissimi uragani culturali e in procinto di sfasciarsi una volta per tutte (ma questa è un’altra storia, che pure bisognerà tenere d’occhio). E non è un caso “che la poesia in dialetto venga letta come poesia italiana” (Benedetti 1999: 105) e che i maggiori poeti in dialetto siano ben fieri di essere antologizzati tra i loro colleghi in lingua: quindi, nella realtà dei fatti, non possiamo più, senza volerci nascondere dietro un dito e far finta che ciò non avvenga, continuare a parlare di un TA in una LA presupponenti una specifica cultura d’arrivo [CA] – che si opporrebbe una cultura di partenza [CP] –, dal momento che questa viene a mancare, o, meglio, a essere inglobata (se non proprio a coincidere con) in una cultura unica o unitaria [CU], e, di conseguenza, a essere inscritta nel codice linguistico corrispettivo, in una lingua unitaria [LU], non solo strumentalmente veicolare, “lingua al seguito” o di “servizio” [LS], ma di “vita”.
Se cogliessimo esemplarmente con uno schema la disposizione tipografica delle lingue in gioco, il loro “viaggio poetico”, nelle tre menzionate poesie venete di Ruffato (“La xe come l’ojo parsora”, “L’amor to anca nel luto me liga”, “Ma gnente vodo e angossa”, tratte dalla silloge Giergo mortis che conclude il citato volume antologico) tradotte in friulano da Faggin con l’autotraduzione dell’autore a piè di pagina (rinunciando a un’analisi comparativa dei testi, che esula dai presenti appunti, limitandoci a constatare l’assunzione all’interno dei testi ruffattiani in padovano di un significativo numero di termini e sintagmi nominali e verbali in italiano o italianizzati e, in un caso, in francese, rigorosamente non recepiti dal traduttore in friulano), si avrebbe:
Secondo le sommarie e semplificanti considerazioni appena svolte tale schema dovrebbe essere attualizzato nel modo seguente:
Se ciò fosse vero – e un’immersione totale per qualsivoglia parlante della Penisola in una “sovracultura” nazionale, variegata e indefinita quanto si vuole, è ormai indubitabile –, verrebbe a sfumarsi l’assunto che vede il dialetto dei poeti neodialettali “come il punto d’approdo a cui giungere attraverso la lingua, ‘ritorno’ e luogo per una ‘nuova’ o soltanto ‘diversa’ partenza, che assume per intero l’esperienza della diglossia” (Villalta 1992: 57). L’approdo in realtà consisterebbe in un naufragio tra i marosi della CU ovvero della LU. Si potrebbe pertanto quasi affermare, come propone Zinelli prendendo a prestito una definizione di Jakobson (1994: 56-64) a proposito dell’operazione autotraduttiva di Pasolini (estensibile anche alle traduzioni interdialettali che si avvalgano di una versione di servizio in lingua), di assistere “ad uno scambio continuo tra i due piani dialetto-lingua al punto che si è tentati di descrivere questa poesia come la sede in cui la normale situazione di traduzione interlinguistica (tra una lingua e l’altra) assume caratteri propri della traduzione endolinguistica […]. La figura che descrive l’autotraduzione è allora quella di una sorta di circolo del tradurre per cui da un archetipo in lingua la realizzazione poetica si svolge nel dialetto e ritorna sulla sponda della lingua” (Zinelli 1999: 105). A una simile conclusione sembra giungere anche Villalta quando sostiene che il poeta neodialettale sa già fin dall’inizio che il proprio lavoro sarà finito soltanto al momento di licenziare la versione in lingua: “la traduzione sarà in questo caso una fase inscritta nello spazio della sua poetica” (Villalta 1992: 61), presumendo quindi l’assoluta intenzionalità di tutta l’operazione e confermando ulteriormente il suo reale orizzonte: LU=CU.
4. Dubbi sulle scritture dialettali
Date queste premesse, molto più chiare appaiono le sempre più forti e spesso non ingiustificate riserve e obiezioni avanzate negli ultimi tempi (dopo diversi anni di “infatuazione dialettale”) nei confronti della poesia e delle poetiche in dialetto, sentite come superflue o ridondanti. Villalta, in una ben motivata, convincente e riassuntiva diagnosi della problematica, parla di “accentuazione del fenomeno endoletterario (una vera e propria lingua per la poesia, in senso deteriore”; “autocompiacimento dell’emarginazione (ipotesi di un’arcadia neodialettale)”; “autocompiacimento etnico e linguistico; assunzione in poesia di un dialetto non passato per l’esperienza profonda del vissuto, supermarket delle diversità, dove rifornirsi di straniamento a buon mercato e di squisitezze fonico-grafiche estetizzanti” (Villalta 1997: 56-57). E più recentemente Mario Benedetti ha avuto occasione di scrivere:
[…] mi arrischio a pensare la poesia neodialettale, in linea generale, come un escamotage: un recupero di senso, di realtà, di esperienza […] ho la convinzione che la lingua dialettale sia percepita come sostitutiva della lingua poetica italiana, che la poesia dialettale sia intesa come poesia italiana […]. Insomma, mi chiedo, che cos’è questo testo oscuro (fondamentalmente di equivoca bellezza evocativa pre-grammaticale) legato insopprimibilmente all’italiano a piè di pagina, a quell’operazione di sostituzione davvero particolarissima per cui la poesia in italiano sembra quella strana ‘illeggibile’ possibilità poetica che viene legittimata come poesia, poesia senza problemi, svincolata da ogni contesto e storia di testi, storia di problemi e di poesia (così almeno mi pare si faccia e su essa si dica)?” (Benedetti 1999: 106).
Perché dunque si insiste ancora a parlarne e, tanto peggio, molti autori perseverano nel loro gesto, illeggibile e obsoleto, stante anche l’invadenza delegittimante dei nuovi linguaggi?
5. Sul tradurre poesia. Verso la lingua più grande di Walter Benjamin?
Qui non si può approfondire il dato di fatto che non sono pochi coloro che sono (stati) scelti dal dialetto come lingua primaria della comunicazione (soprattutto della generazione dei padri, ma anche di chi oggi è sui quaranta), e nei quali la parola poetica è affiorata primariamente e/o esclusivamente in dialetto. E, sia detto di passata, vedere in questo già inscritta l’intenzionalità di un punto conclusivo in lingua, come fa Villalta, mi sembra fuorviante, essendo spesso l’autotraduzione un momento “secondo”, indotto da eventuali opportunità e contingenze editoriali, comunque non necessariamente presente, e probabilmente non compartecipe dell’atto creativo “primo”, pur rimanendo essa stessa operazione creativa e, in molti casi, con esiti eccellenti. Guardando il fenomeno proprio dalla prospettiva delle varie operazioni traduttive coinvolgenti autori e codici dialettali, forse è possibile intravedere qualche, seppur lacunosa, risposta.
Il poeta, critico e notevole traduttore Gianni D’Elia, per molti anni “colluso” coi neodialettali avendo dato loro spazio e spessore sulla sua rivista scopertamente “complice” (Brevini 1990: 37) Lengua, ma dai quali da diverso tempo ha preso le distanze a causa del “dubbio sull’involuzione dell’alterità linguistica in poesia” e del fatto che “molti poeti dialettali hanno preso la strada della lingua per poeti e della poesia per filologi […], che soltanto pochi poeti dialettali hanno davvero continuato l’opera dialettica tra passato e presente, tra memoria e scontro con la contemporaneità” (D’Elia 2000: 49), a proposito della “molla” sottostante alla traduzione poetica parla di “desiderio del testo, poiché più che poter godere di cosa esistente, si cerca e si insegue qualcosa che ci manca, che ci seduce attraverso la lingua. Non si è neppure convinti che in questo modo si sia lì a tradurre un testo o, soltanto il testo; proprio perché il libro che si cercava era un autore, quell’autore, più che la cosa scritta di un autore, insomma, un’anima, più che un manufatto di essa” (D’Elia 1990: 59-60). Un desiderio inizialmente indistinto indice di una mancanza, di un’assenza, di una privazione, la coscienza della quale ci si palesa nell’attimo dell’incontro con l’altro da noi poetico e linguistico. Da questa coscienza nasce la necessità del tentare di rendere distinto (esprimibile in qualche modo) quel desiderio indistinto, ben consapevoli che il “piacere” consisterà piuttosto nella tensione, nella “fatica” della seduzione dell’altra lingua/poesia verso di noi, che non nell’impossibile soddisfazione di quell’anelito, sempre rinfocolato dall’insufficienza di ogni effimera “carezza” (versione): “Come la tangente tocca la circonferenza di sfuggita e in un solo punto, e come questo contatto sì, ma non il punto, le prescrive la sua legge, per cui essa continua all’infinito la sua via retta, così la traduzione tocca l’originale di sfuggita e solo nel punto infinitamente piccolo del senso, per continuare, secondo la legge della fedeltà, nella libertà del movimento linguistico, la sua propria via” (Benjamin 1962: 51).
Forse, aldilà e prima delle necessità contingenti, è anche questa privazione e conseguente desiderio “d’anima”, o di una parte di essa, che autoseduce il neodialettale all’autotraduzione, alla ricerca di quella parte linguistica e di essere latente, soggiacente al primario poetico in dialetto. E quanto sia complessa, martoriata da continue sconfitte, sempre insoddisfacente tale ricerca, lo si può verificare con facilità nei suoi prodotti, che lasciano appunto “a desiderare” (continuità del desiderio), infarciti di accorgimenti: uso di trattini o di parentesi (questo è ad esempio il procedimento preferito da Ruffato) nel tentativo di trattenere nel testo materiali che troverebbero posto in più estese note esplicative, rimanendo queste comunque il procedimento più naturale e diffuso per dar conto di parole “sentite” come intraducibili; glossari a latere; la finzione del raddoppio del testo italiano a fronte; glosse di accompagnamento del testo e dell’autotraduzione; rinvii intertestuali eccetera (cfr. anche Zinelli 1999: 106-107). Accorgimenti che sembrano quasi voler testimoniare l’inattingibilità di una porzione della propria anima. Eppure anche questo gesto contribuisce a cercare di capire veramente un testo come originale, cioè capirlo indipendentemente dalle sue condizioni di vita in una data lingua (dominante, morta o moribonda), capirlo nella sua struttura sopra-vvivente. Il compito del (l’auto)traduttore – costituzionalmente indebitato nei confronti dell’originale e in balìa della sua legge – sarà quindi di corrispondere a questa richiesta di “sopra-vvivenza” costituente la struttura stessa dell’originale (cfr. Alunni 1989: 58). A questo scopo, sostiene Benjamin, non deve né riprodurre, né copiare l’originale, neppure, essenzialmente preoccuparsi di comunicare il senso dell’originale; il traduttore deve assicurare la “sopra-vvivenza”, cioè la “santa crescita” dell’originale. La traduzione aumenta l’originale, modifica che, nella misura in cui sopra-vvive, non finisce di trasformarsi, di accrescersi; e modificare l’originale modificando anche la lingua traducente: “Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi riunire e comporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo di intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande” (Benjamin 1962: 49).
Eccoci ricondotti agli schematici grafici iniziali, alla tras-formazione del padovano in friulano e del primo in italiano (che supporta anche il secondo), alla “necessità” di tutta l’operazione: ogni passaggio di codice linguistico, stando a Benjamin, costituirebbe un accrescimento dell’originale e modificherebbe anche la lingua operante il passaggio contribuendo al formarsi di quella “lingua più grande” [LPG] (la poesia?), l’insieme di tutte le operazioni, dotata di un surplus di valore (estetico, linguistico, culturale), ben distinta da quella che si è semplicisticamente definita LU, e che forse aiuta a “spiegare” il desiderio della scrittura in dialetto, rendendo i cocci di questo ancora necessari alla LU (CU), facendole respirare, in presenza di veri poeti e traduttori, un soffio di vecchia, anarchica libertà.
Riferimenti bibliografici
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©inTRAlinea & Giovanni Nadiani (2002).
"Con licenza di traduzione Dialetti, lingue, culture poesia e operare autotraduttivo", inTRAlinea Vol. 5.
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