I traduttori nel Ventennio fascista
fra autocensura e questioni deontologiche
By Maria Elena Cembali (Italy)
Abstract & Keywords
English:
This article is the result of research carried out at the archives of the Arnoldo and Alberto Mondadori Foundation. My aim is to describe and analyse how the Fascist dictatorship affected the Italian cultural environment in the Fascist Ventennio and in particular the literature published in that period in Italy. The documents I found in the Mondadori archive – both official instructions and private letters – revealed a surprising scenario, where Fascist censorship was not so strict as expected and publishers did not surrender themselves to it, but on the contrary developed their own strategies to face it. In this context, translators – a new figure in the Italian literary panorama – played an extremely important and original role, as they were forced into their professional duties, publishers’ needs and the government’s censorship.
Italian:
Questo lavoro è il frutto di una mia ricerca presso l’archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, volta a documentare e analizzare le dinamiche di potere messe in atto dalla dittatura mussoliniana nei suoi vent’anni di governo nei confronti del mondo culturale italiano dell’epoca, con particolare riferimento agli effetti della censura sulle pubblicazioni letterarie di quegli anni. Documenti inediti (direttive statali, lettere private, ecc.) mi hanno permesso di ricostruire una realtà sorprendente, in cui la censura del regime non era così repressiva come si potrebbe immaginare e le case editrici non subivano passivamente i provvedimenti inibitori dello stato, ma attuavano proprie strategie per farvi fronte. In questo contesto i traduttori, figure nuove nel panorama letterario italiano, svolsero un ruolo fondamentale ed estremamente originale, combattuti com’erano fra imperativi di correttezza professionale, esigenze editoriali ed imposizioni governative.
Keywords: fascism, translation, mondadori, ventennio, fascismo, translators, traduttori, censorship, censura, editorial policy, politica editoriale, history, storia
©inTRAlinea & Maria Elena Cembali (2006).
"I traduttori nel Ventennio fascista fra autocensura e questioni deontologiche", inTRAlinea Vol. 8.
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/archive/article/1636
Questo articolo si propone di dar voce ad una categoria professionale finora raramente presa in considerazione, i traduttori che operarono in Italia nel Ventennio fascista, e di aprire una finestra sulla loro vicenda, che costituisce un esempio unico di rapporto fra politica e cultura in una realtà storica caratterizzata dalla supremazia di un governo di stampo dittatoriale. La mia analisi si concentra sulla prima parte del Ventennio, dal 1922 al 1938, quando l’inusuale strategia del governo Mussolini in materia di censura letteraria diede vita ad un’insolita e originale interazione fra i provvedimenti statali e l’attività di molti esponenti del mondo cultural-letterario italiano di quel periodo, nella fattispecie i traduttori. In quegli anni infatti, a misure coercitive quali la compilazione di liste nere e la messa al bando di opere e autori, il regime fascista preferì azioni più concilianti, che evitassero alle autorità governative lo scomodo ruolo di “poliziotti” della letteratura e lo scatenarsi di proteste derivanti da un loro eventuale atteggiamento costrittivo. I provvedimenti volti a monitorare la letteratura circolante al tempo in Italia si caratterizzarono dunque per limitata aggressività, assenza di un controllo sistematico e sostanziale indulgenza verso le categorie fatte oggetto della censura stessa.
La strategia “soft” del governo fu il frutto dell’esigenza tutta politica di non compromettere la lealtà di una categoria, quella editoriale, che si dichiarava amica del regime e di non danneggiare, con azioni fortemente repressive, la crescita di un settore florido e proprio in quegli anni in forte espansione, capace di offrire un contributo importante all’economia del paese. Va sottolineato che interventi così tolleranti vennero adottati per le sole pubblicazioni non periodiche (i libri), mentre nei confronti della stampa periodica il governo impiegò misure molto più severe e restrittive. La linea censoria fascista mutò radicalmente anche per le pubblicazioni non periodiche nel 1938 quando, con l’avvicinamento politico-ideologico dell’Italia al nazismo hitleriano, si giunse ad un generale inasprimento dei provvedimenti governativi non solo in ambito sociale ed economico, ma anche culturale e letterario. Con l’introduzione in Italia delle leggi razziali nel 1938, il controllo sulla natura e i contenuti delle opere letterarie, soprattutto di penna ebrea e straniera, si fece più serrato e le ispezioni sempre più meticolose, cosicché le strategie censorie utilizzate fino ad allora vennero rivoluzionate e persero di fatto quell’originale carattere di malleabilità che le aveva contraddistinte.
Fino a quel momento però le autorità preposte al governo della cultura mantennero una censura discreta e circoscritta, in cui l’analisi individuale di singole opere si sostituiva alle misure totalizzanti e le disposizioni governative venivano diramate tramite i canali riservati delle prefetture e delle lettere private inviate ai diretti interessati. Lo dimostrano i documenti risalenti a questo periodo conservati presso l’archivio della Fondazione Mondadori di Milano, che provano l’esistenza di un fitto scambio epistolare fra l’editore e le cariche dello Stato competenti in materia di cultura, fra i quali i ministri Galeazzo Ciano e Dino Alfieri, succedutisi alla presidenza del Ministero per la Stampa e la Propaganda, ribattezzato nel 1936 Ministero della Cultura Popolare. Queste carte documentano l’assenza di un controllo sistematico sull’intera produzione letteraria del tempo ed evidenziano al contrario come ogni opera venisse presa in considerazione singolarmente: ogni lettera è personale e riguarda l’approvazione o il rifiuto di un singolo lavoro, mentre non vi sono elementi che rimandano ad una legislazione relativa alla produzione letteraria nella sua totalità (cfr. Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori: Fondo Arnoldo Mondadori).
Questi scritti mostrano inoltre come l’azione del regime in quegli anni si orientò anche alla promozione presso gli addetti ai lavori della pratica dell’autocensura, presentata ed auspicata come dovere morale e patriottico nei confronti della nazione italiana e contributo necessario alla difesa dell’integrità morale del popolo: “Il lavoro di dissodamento intellettuale è opera di più vasta mole e di più lungo respiro della bonifica terriera” - affermava il Segretario generale della Federazione degli editori Carlo Marrubini su indicazione del governo - “è d’uopo dunque che a quest’opera patriottica e santa collaborino tutti coloro che si assumono o che sono investiti del delicatissimo compito di parlare alla mente, alla coscienza ed alla fantasia del popolo” (Marrubini 1934: 161).
Puntando sull’induzione all’autocensura il regime ottenne un doppio risultato: da un lato, come si è detto, poté mantenersi estraneo alle accuse di frenare, con un atteggiamento prepotentemente inibitorio, il dinamismo culturale del paese; dall’altro riuscì a porre gli operatori del panorama culturale in prima linea nell’opera di “bonifica” della letteratura circolante al tempo in Italia, delegando in buona parte a loro il compito di vaglio e selezione dei testi e risparmiando così al governo gli sforzi economici ed organizzativi necessari alla creazione e al mantenimento di un sistema di controllo capillare sulla stampa non periodica.
In ambito letterario la censura di quegli anni si attuò dunque principalmente non attraverso un’azione sistematica manovrata dall’alto, ma tramite un’opera di revisione che prese il via dal basso e che venne realizzata in primis presso le case editrici. Per non essere tacciati di antipatriottismo o antifascismo e non incorrere in sanzioni governative che avrebbero comportato anche danni economici, gli addetti ai lavori (autori, editori, curatori, traduttori) svilupparono quasi spontaneamente una minuziosa attività di vaglio dei libri da immettere sul mercato, allo scopo di privarli delle parti che il censore avrebbe potuto giudicare sconvenienti, e diventando così di fatto i principali censori delle opere da loro stessi create e pubblicate. Interessanti testimonianze al riguardo si trovano oggi in numerosi pareri di lettura raccolti nel Fondo Arnoldo Mondadori, uno dei più ricchi attualmente della Fondazione Mondadori. Questi documenti, cui ho attinto per molti dei casi esemplificativi citati in questo articolo, restituiscono un’immagine della casa editrice di quegli anni come di un grande laboratorio, in cui ci si adoperava alacremente per anticipare il responso della censura governativa ed escogitare i rimedi più efficaci per evitare la bocciatura di un volume.
L’obbligo di rendere ogni testo “politicamente corretto” si tramutò per gli addetti ai lavori nella necessità di conciliare le regole insite nel proprio mestiere con i doveri più o meno tacitamente imposti dall’autorità, e questa ricerca di un equilibrio fra due esigenze sostanzialmente contrastanti non poté che tradursi in un compromesso morale con il potere. La questione etica toccò in modo del tutto particolare la categoria dei traduttori, i quali, investiti del doppio ruolo di mediatori e censori, più di altri soffrirono il peso dell’ingerenza politica nella propria attività. L’allora traduttore Cesare Pavese nella sua lettera del 2 giugno 1937 indirizzata a Luigi Rusca (collaboratore editoriale alla Mondadori) descrive la propria condizione al termine della traduzione del romanzo Big Money di John R. Dos Passos che, a causa delle direttive impartite dalla censura ufficiale, non ha potuto condurre in maniera completamente onesta:
Ho seguito scrupolosamente i consigli del Ministero cioè inglesizzato i nomi italiani, lasciato cadere gli accenni a Lenin e sovieti, cancellato e sostituito un accenno al fascismo, taciuto o tradotto con dignità wop e dago… come non segnalato dal Ministero nel dattiloscritto che serbo gelosamente a mia eventuale giustificazione. (Pavese 1968: 238-239)
Oltre a fornire un’interessante esemplificazione degli argomenti problematici e di alcuni accorgimenti adottati per eliminarli nella versione italiana, Pavese sente il dovere di giustificarsi per la propria condotta, vale a dire per aver apportato modifiche rispetto al testo originale che hanno prodotto una traduzione sotto certi aspetti scorretta.
A differenza di Pavese, parte della categoria tollerò il dover preferire una traduzione manipolata, ma politicamente accettabile ad una fedele ai contenuti dell’originale, ma potenzialmente invisa al potere; ciò si deve in primo luogo al fatto che l’intromissione della dittatura in qualunque ambito della vita sociale era oramai una prassi, e in secondo luogo all’effetto dell’opera di persuasione ideologica del regime, che non mancò di dare i suoi frutti. Ciò è riscontrabile nuovamente nei pareri di lettura conservati presso l’archivio della Fondazione Mondadori, nei quali i “lettori”, che spesso erano anche traduttori, suggeriscono spontaneamente tagli, modifiche o attenuazioni. Qui le proposte di modifica ai testi originali stranieri sono motivate alla luce dei giudizi della censura ufficiale sulle opere letterarie vagliate in precedenza; il regime infatti forniva direttive vaghe e confuse agli addetti ai lavori in merito alle tematiche da evitare, perciò essi per le proprie revisioni dovevano basarsi quasi esclusivamente sui responsi relativi ai volumi sottoposti precedentemente al controllo dell’autorità.
Fra i temi di queste “note di servizio” troviamo lo scrupolo legato alla questione nazionalista: è noto come il governo Mussolini avesse il preciso intento di promuovere un’immagine positiva dell’Italia e degli italiani, cosicché le opere che potevano diffondere un’immagine negativa della nazione difficilmente avrebbero potuto ottenere il nullaosta della censura ed essere riproposte fedelmente al pubblico italiano. Presso le case editrici si procedeva dunque alla loro “bonifica”; Giorgio Monicelli, a proposito dell’opera The Fourth Plague di Edgar Wallace, annotava:
Bisognerebbe però cambiare la nazionalità dei componenti la Banda, i quali sono tutti Italiani e agiscono e parlano secondo il concetto che hanno generalmente del nostro Paese certi popoli nordici; sono cioè tutti accoltellatori, superstiziosi, miserabili, presuntuosi, intelligenti ma intriganti, passionali, sensuali e sempre troppo bruni e troppo bassi.
Altra sfera tematica molto presente nei pareri di lettura e che, rientrando nei programmi ideologici del fascismo, influenzava spesso le versioni italiane di opere straniere era quella legata al concetto di moralità; fin dai primi anni del suo governo il regime fascista si adoperò in una battaglia per il rinnovamento morale della nazione italiana e la salvaguardia dei valori tradizionali che risultavano minacciati dagli esempi di malcostume provenienti in particolar modo dalle più moderne (e per questo più temute) società anglosassoni. Le opere che giungevano da questi paesi descrivevano a volte le nuove realtà sociali dei sobborghi, la vita mondana di delinquenti e starlettes, e narravano vicende di prostituzione, tragedie familiari e vagabondaggio, che agli occhi del potere ufficiale risultavano quanto mai pericolose per la salute morale della nazione. Ecco allora i “lettori” spendersi in suggerimenti per attenuare o eliminare i passaggi più espliciti e problematici:
Dalla prima all’ultima pagina nulla di scabroso o malsano; soltanto a pagg. 150-152 vi è una scena (del resto più allusa che descritta) che si può omettere nella traduzione, perché non modifica affatto il racconto: trattasi del tentato stupro di una giovinetta per parte di un vagabondo, che poi scompare. (Giacomo Prampolini a proposito dell’opera Noatum di William Heinesen)
o ancora
Nel romanzo non vi sono né suicidi né incidenti… demografici. Occorre però un traduttore intelligente che qua e là attenui qualche passaggio, specie dove si parla del mondo notturno di Parigi; ma si tra
tterà in tutto di un 10-15 parole e altrettante sfumature. (Enrico Piceni sul volume Les enfants de la chance di Joseph Kessel)
È interessante notare come fossero gli stessi lettori a suggerire in maniera del tutto spontanea quali passaggi attenuare e quali tematiche evitare, e in alcuni casi a sottolineare l’assoluta necessità e convenienza di apportare tagli e modifiche, senza che l’editore o i responsabili editoriali dovessero incoraggiare questo tipo di pratica. Tale fenomeno va ricondotto alla consapevolezza di doversi necessariamente piegare alle disposizioni del governo pur di poter continuare a pubblicare; se si voleva proseguire nel proprio lavoro era spesso inevitabile sacrificare al censore lo scrupolo deontologico e, in alcuni casi, anche i pregi dell’opera.
Non sempre però si proponevano o si effettuavano espurgazioni a cuor leggero; in alcuni casi tagli e modifiche erano mal digeriti, poiché si era consapevoli di intaccare l’integrità dell’opera letteraria o perché, per ragioni di coscienza politica e ideologica, si rifiutava l’intromissione del mondo politico nella propria attività artistica. Sono numerose le testimonianze di disagio, soprattutto da parte dei traduttori più esperti e dotati di maggiore sensibilità che, essendo spesso anche autori, più di tutti vedevano la propria libertà di espressione e autonomia intellettuale minacciata da imposizioni extra-artistiche. A tal proposito risultano particolarmente interessanti i seguenti pareri di lettura firmati da importanti collaboratori dell’editore Mondadori, quali Elio Vittorini, Luigi Rusca e Giuliana Pozzo:
Al momento della traduzione, essendo sopravvenute le nuove disposizioni della censura, abbiamo sospeso il volume ritenendolo impubblicabile. […] abbiamo ritenuto impossibile far dei tagli senza alterare gravemente il valore artistico dell’opera. (Luigi Rusca sull’opera La nuova terra di Knut Hamsun)
Tagliare l’intero episodio non si può perché ne dipende […] la conclusione del libro. Allora? Si potrebbe tacere della bomba [anarchica] e approfittare di un punto dove Aaron si chiede se non è crollato il soffitto… Ma non sarebbe troppo abuso? (Elio Vittorini sul romanzo The Aaron’s Rod di David H. Lawrence)
Bisognerebbe […] smussare molto tutte le considerazioni dell’A[utrice] sulla guerra, che ella stessa detesta, nonché i vari apprezzamenti sui tedeschi, tutti a loro scapito, e gli accenni scanzonati alla politica attuale di quel Paese e anche del nostro. Vi è poi un capitolo su un gruppo di comunisti pacifisti che non è per nulla ortodosso e che dovrebbe essere largamente amputato. Certo che un po’ della vivacità e dell’armonia del racconto andrebbero sprecate. Ma il punto più importante è questo: sarebbero permesse le amputazioni? (Giuliana Pozzo a proposito dell’opera Marion lebt di Vicki Baum).
Si vede come gli stratagemmi proposti fossero i più disparati, dall’eliminazione di intere parti del libro, all’attenuazione di alcuni passaggi o prese di posizione dell’autore; tuttavia il comune denominatore degli interventi rimane la dubbia legittimità dell’intervento correttivo.
Quando poi gli aspetti problematici riguardavano il lavoro di un autore noto, allo scrupolo prettamente etico e artistico si aggiungeva l’atteggiamento da assumere nei confronti dell’autore stesso, che doveva essere messo al corrente delle intenzioni di revisione del testo ed esprimere il proprio parere al riguardo. Un “lettore” anonimo sull’opera Three Comrades di Eric M. Remarque sottolineava:
Io almeno non posso creder che Remarque possa aderire ad una “espurgazione” della sua opera che la rovinerebbe artisticamente in modo indicibile […] La tecnica del romanzo è troppo buona in R[emarque] perché si possano far “tagli”, tutto è ingranato e addentellato in modo che… dovrebbe l’autore stesso castrare e mutare, facendo le necessarie suture. Nessun traduttore può farlo, dato anche il tono personalissimo del suo stile.
Le problematiche legate alla pubblicazione di un’opera letteraria erano insomma talmente numerose e complesse e la censura ufficiale così vaga e imprevedibile, che ogni volume doveva essere preso in considerazione singolarmente e costituiva un caso a sé, non replicabile. Qualunque membro dell’editoria partecipasse all’iter che conduceva alla pubblicazione o meno di un’opera (fosse esso un traduttore o un editore, un “lettore” o un autore), questi doveva fare i conti personalmente con le pressioni politiche e ideologiche del governo da un lato e con le esigenze etico-artistiche della propria professione dall’altro, poiché sovente si trovava nelle condizioni di dover decidere di propria iniziativa se e quali modifiche apportare al testo per evitarne la bocciatura. I casi di disagio furono molteplici e quelle citate sono solo alcune delle numerose “note di servizio” consultabili presso l’archivio della Fondazione Mondadori che testimoniano la scrupolosa attività di revisione dei testi stranieri avviata all’interno della casa editrice e le problematiche di ordine pratico, etico e artistico che questa comportava.
Si potrebbe obiettare all’industria editoriale di aver fatto poco per difendere la propria autonomia artistica, dal momento che le voci di dissenso, benché numerose e spesso autorevoli, furono sostanzialmente taciute in via precauzionale per non compromettere gli ottimi rapporti (di reciproca convenienza) con le autorità fasciste. Va però sottolineato che la ricerca del compromesso fra questi due mondi era necessaria e reciprocamente vantaggiosa, poiché essi, al di là delle rispettive istanze ideologiche che erano spesso occasione di conflitto, avevano in comune il forte interesse volto al mantenimento di un florido mercato letterario; un interesse che, come si è visto, era sostenuto da molteplici ragioni di ordine politico, artistico ed economico. Ogni traccia che documenta la storia della pubblicazione di un libro in quegli anni, e di cui ho presentato in questo lavoro un breve campionario, è dunque un’interessante testimonianza di quella continua negoziazione e, vista la singolarità delle pratiche censorie adottate nella prima fase della dittatura fascista, contribuisce in maniera nuova e originale alla ricostruzione del clima in cui autori e traduttori si trovarono ad operare in quel periodo.
Bibliografia
Albonetti, Pietro (a cura di) (1994). Non c’è tutto nei romanzi. Leggere romanzi stranieri in una casa editrice negli anni ‘30. Milano: Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori.
Bompiani, Valentino (1973). Via privata. Milano: Mondadori.
Cannistraro, Philip V. (1975). La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media. Bari: Laterza.
Casini, Gherardo. (1938). “Bonifica della cultura in Italia”. Giornale della libreria, LI-8, 19 febbraio: 57-59 e Giornale della libreria, LI-9, 26 febbraio: 65-68.
Cembali, Maria Elena (2005). Traduzioni e traduttori in Italia nel Ventennio fascista. Tesi non pubblicata. Forlì: Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori SSLiMIT.
Cesari, Maurizio. (1978). La censura nel periodo fascista. Napoli: Liguori.
Fabre, Giorgio. (1998). L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei. Torino: Silvano Zamorani editore.
Marrubini, Carlo (1934). “Traduzioni e tradimenti”, Giornale della libreria XLVII-25, 23 giugno: 161-162.
Marrubini, Carlo (1936). “Diffusione e potenziamento del libro italiano”, Giornale della libreria XLIX-22, 30 maggio: 97.
Ministero della cultura popolare. (a cura di). (1938). Monaco 1938. Discorsi di prima e dopo. Roma: Società editrice novissima.
Pavese, Cesare (1968). Lettere 1926-1950. Torino: Einaudi.
Rundle, Christopher. (1999). “Publishing Translations in Mussolini’s Italy: A Case Study of Arnoldo Mondadori”. Textus. Rivista dell’Associazione italiana di Anglistica, XII, 2. Genova: Tilgher: 427-442.
Rundle, Christopher. (2000). “The Censorship of Translation in Fascist Italy”. The Translator. Studies in Intercultural Communication, VI, 1. Manchester: St. Jerome Publishing: 67-86.
Rundle, Christopher (2001). The Permeable Police State. Publishing Translations in Fascist Italy. Tesi dottorale non pubblicata. Warwick: University of Warwick, Centre for British and Comparative Cultural Studies.
Sfondrini, Francesca. (1997). Autori e libri inglesi tradotti in Italia nel ventennio 1920-1940: Elio Vittorini traduttore di D. H. Lawrence. Tesi non pubblicata. Forlì: Biblioteca SSLiMIT, Università di Bologna.
Toschi, Paolo. (1937). “Il problema delle traduzioni”. Autori e scrittori, II-2-3, Feb-Mar: 3.
Archivi
Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori: Fondo Arnoldo Mondadori. Milano.
©inTRAlinea & Maria Elena Cembali (2006).
"I traduttori nel Ventennio fascista fra autocensura e questioni deontologiche", inTRAlinea Vol. 8.
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/archive/article/1636