Fra traduzione e scrittura, senza confini semiotici o letterari

Giovanni Testori e Amleto

By Anna Fochi (Cardiff University, UK)

Abstract & Keywords

English:

In line with cultural approaches that view translation as a continuous process of dislocation and border crossing, the article focuses on the never-ending translating relationship between Giovanni Testori (1923-1993) and Shakespeare’s Hamlet. Testori’s artistic universe ranges from literature and cinema to painting. Symptomatically, the artist always stresses and violates literary, semiotic and social ‘fences’, which makes his encounter/collision with Hamlet exceptionally complex. The analysis devotes special attention to Testori’s works produced in the years between the late ‘Sixties and the early ‘Seventies, following Hamlet’s meandering ‘voyage’ through drama and film transpositions, as well as semiotic contaminations and border violations, into poetry and painting. Yet, the vital contact with the Shakespearean play is never actually surrendered, in spite of recurring radical metamorphoses. As the analysis points out, the complex evolutions of Testori’s Hamlet reveal a ‘star like contact’ with the inspiring focus rather than on-going linear estrangement. It is this clue which reveals the inner translating nature of a unique artist/hero/text liaison. As a matter of fact, the case study shows that Testori’s tormented chasing of Hamlet can be fully understood only if we approach it from the challenging angle of translation as a disruptive key to creativity and complexity. Hamlet’s multiple dislocations become a paradigmatic experience of hybridization, living on blurred and shifting borders, between creative writing and translation.

Italian:

Collocandosi nell’ottica di un approccio alla traduzione come processo continuo di dislocamento e superamento di confini, l’articolo riflette sulla necessità, di fronte a esperienze traduttive che esaltano l’ontologica ambiguità della traduzione, che la critica della traduzione letteraria abbandoni la prospettiva analitica del binarismo oppositivo. Lo studio di caso focalizza l’attenzione sul proteiforme e tormentato rapporto traduttivo che lega Giovanni Testori (1923-1993) all’Amleto shakespeariano, come testo teatrale e personaggio.  La natura artistica di Testori, per il suo estendersi dalla letteratura al cinema e alla pittura, continuamente forzando e violando barriere di ogni tipo (fra generi letterari, ma anche fra codici semiotici), rende eccezionalmente complesso il suo scontro/confronto con Amleto. La metodologia di lettura critica necessariamente si adegua, adottando una ‘focalizzazione mobile’, per potersi muovere liberamente oltre i confini del testo singolo, sia esso scritto o visivo, e sempre cercando di cogliere il carattere fluido di questa singolare esperienza traduttiva. L’articolo prende in particolare considerazione le opere prodotte dall’artista lombardo tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta, seguendone il personalissimo ‘pedinamento’ di Amleto attraverso trasposizioni teatrali e filmiche, contaminazioni semiotiche, ‘sconfinamenti’ nella poesia e nella pittura. Le metamorfosi sono sorprendenti e radicali, ma il contatto diretto con il testo shakespeariano non è mai veramente tagliato. La conclusione dello studio di caso è che la chiave interpretativa dell’Amleto testoriano va cercata nella condizione stessa dell’ibrido e dell’ambiguità, condizione che per essere apprezzata e compresa ha bisogno però di essere letta all’interno di un rapporto traduttivo profondamente aperto alla creatività e complessità. Una simile chiave di lettura ne lascia anche cogliere la valenza come modello paradigmatico della fluidità e inafferrabilità degli stessi confini fra traduzione e scrittura.

Keywords: Amleto, Hamlet, Testori, shakespeare, william, cultural translation, scrittura creativa, pittura, sceneggiatura, teschio

©inTRAlinea & Anna Fochi (2016).
"Fra traduzione e scrittura, senza confini semiotici o letterari Giovanni Testori e Amleto", inTRAlinea Vol. 18.

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1. L’ontologica ambiguità della traduzione

One of the enduring qualities of translation is its refusal to be contained. We are captivated by its resistance to easy classification, for when it comes to theorization, translation’s cryptic status is not a stumbling block but an invitation. (Maitland 2016: 17).

Il rifiuto della traduzione a lasciarsi racchiudere entro confini netti, e quindi il suo necessario sfuggire a ogni facile classificazione, possono giustamente essere individuati come un vero nodo cruciale per Translation Studies. E’ soprattutto a partire dal testo miliare di Walter Benjamin, ‘The Task of the Translator’ (Benjamin 1923/2000), che viene messo in discussione il binarismo testo originale vs. traduzione, a lungo principio fondante di tanti studi del settore. Questo, però, non cancella il fatto che il testo fonte rimanga pur sempre una condicio sine qua non per la traduzione, visto che la stessa raison d’être della traduzione come testo in una data lingua dipende dall’assenza di un altro testo scritto in un’altra lingua. Proprio tale praesentia in absentia richiede che il testo in traduzione si allontani dal testo fonte, aprendo strade nuove e interessanti. ‘Small wonder that the practice of the translator is so difficult to place, for the ontology of a translation is ambivalent to say the least’ (Maitland 2016: 17).

L’ambivalenza ontologica della traduzione, segnalata da Maitland, scaturisce, in piena logica benjaminiana, dal non essere né il testo fonte né il testo in traduzione delle entità fisse e permanenti. In altre parole, non devono essere concepiti come due opposti binari, ma trame diverse di possibilità testuali, strettamente intrecciate fra loro dal lavoro soggettivo della traduzione. E’ poi proprio sempre nel solco del decostruzionismo che, più recentemente, è emerso il concetto di Cultural Translation, termine coniato da uno dei nomi più prominenti del Postocolonialismo, Homi Bhabha (The Location of Culture 1994). E’ vero che Bhabha non articola il suo discorso all’interno di  Translation Studies, rimanendo gli Studi Postocoloniali il suo ambito di ricerca. Tuttavia molti dei corollari importanti della sua teoria sono stati accettati con entusiasmo anche in altri campi di studio. In particolare, un concetto come ibridità (lo spazio della sovversione, trasgressione, blasfemia, eresia, o meglio, della negoziazione che nullifica ogni divisione binaria, Nowotny 2009: 200), e ancora di più la metafora ad esso legata, resistant translation (il negare l’integrazione totale da parte del soggetto che migra e che sviluppa forme ibride e personali di resistenza rispetto a una traduzione fagocitante), sono principi entrati a tutti gli effetti anche nel discorso traduttivo.

La traduzione culturale è del resto un termine ormai correntemente usato in ambiti disciplinari anche molto diversi. Anzi, l’accusa all’interno di Translation Studies è proprio di essere troppo usato, o per lo meno non usato col rigore dovuto. La critica più rilevante è che, essendo cultural translation  un termine ombrello piuttosto che un chiaro modello teorico,  le suggestive metafore da esso introdotte correrebbero il rischio di rimanere vaghe e soprattutto poco rilevanti per la pratica della traduzione.  L’ambito di indagine di questo articolo deliberatamente prescinde dal prendere parte diretta al dibattito teorico sull’argomento, dibattito che negli ultimi anni è diventato particolarmente animato e autorevole.[1] Tuttavia, attraverso uno studio di caso emblematico ed illuminante, questo scritto vuole spostare il discorso su un ambito meno teorico. Il proposito è di richiamare l’attenzione sulla critica della traduzione letteraria come pratica, riflettendo sulla problematicità di lettura e definizione presentata da una esperienza traduttiva che esalta al massimo l’ambiguità intrinseca, ontologico appunto, del processo traduttivo, ambiguità la cui ricchezza potrebbe essere solo parzialmente compresa se affrontata nella prospettiva analitica del binarismo oppositivo.  Come vedremo, è uno studio di caso che esige una metodologia di lettura critica a ‘focalizzazione mobile’, per potersi muovere liberamente oltre i confini del testo singolo, sia esso scritto o visivo, cercando di cogliere il carattere fluido di quel processo traduttivo che, appunto, in questo studio di caso si può evincere solo in una pluralità di testi e di sistemi semiotici.

2. Uno studio di caso paradigmatico: Giovanni Testori

La personalità artistica di Testori (1923-93) può a pieno titolo essere definita proteiforme, per quel suo estendersi dalla letteratura al cinema e alla pittura, come critico raffinato e come pittore. Del resto, anche all'interno della letteratura, Testori si è avventurato praticamente in tutti gli ambiti, includendo la saggistica (letteraria, di costume e di arte), la narrativa, il teatro e la poesia. Proprio questa sua vulcanica versatilità lo ha portato di continuo a sforzare, violare, o comunque svuotare i confini tra generi letterari, così come fra scrittura e traduzione, e persino fra scrittura e pittura.

Da un tale vortice non rimane esente, del resto, neanche il suo rapporto ossessivo con un testo emblematico quale l’Amleto di Shakespeare. Studiare l’inesauribile scontro/confronto fra Testori e Amleto (come personaggio e come testo), sforzandosi di seguirlo nei meandri di un percorso personalissimo e insofferente verso ogni tipo di prigioni, sia semiotiche sia letterarie, porta necessariamente a riflettere sulla natura stessa di un tale rapporto fra artista, personaggio e testo. Testori, d’altra parte, è scettico rispetto alla possibilità di tradurre grandi opere in altre lingue, e in particolare proprio l’Amleto. ‘Amleto recitato in italiano è uno sfocatissimo ricordo dell’Amleto di Shakespeare.’ (1996: 101). Si avvicina, infatti, una sola volta all’esperienza della traduzione come vero e proprio processo di trasferimento interlinguistico da testo a testo, quando nel 1991 si cimenta, sempre comunque a suo modo, con la traduzione poetica della prima Lettera ai Corinti di San Paolo.

Il target di questo studio di caso sul viaggio di Amleto nell’universo testoriano diventa, pertanto, capire se, e fino a che punto, un simile legame artista/personaggio/testo possa essere considerato ancora di natura traduttiva. L’ipotesi è che le proteiformi metamorfosi di Amleto/Testori possano essere colte come un modello paradigmatico della fluidità e inafferrabilità dei confini fra traduzione e scrittura.

‘La pittura matura dentro l'uomo Testori assieme con la scrittura. E' un filtrarsi reciproco’, come osserva Luigi Cavadini nel catalogo della mostra Parole e colori (Milano 2003: 7). Lo conferma Alain Toubas, nel catalogo di un'altra mostra sempre del 2003, I segreti di Milano: ‘Testori è un raro esempio di scrittore non catalogabile in un genere preciso […]  Non ragionava in termini di generi letterari [...] Per raccontare Testori, il suo mondo, la sua “eversione” non bastano solo le parole: è necessario ricostruire quel magma di immagini e di figurazioni che hanno sempre affollato il suo mondo’ (17-8).

I ‘Padri’ [i pittori amati] gli offriranno visioni, immagini, temi, suggestioni, riflessioni che dall’arte pittorica o scultorea passeranno, lungo gli anni, quasi senza soluzione di continuità, come legati in un tutt’uno, ad alimentare la sua visione e la sua idea del teatro, nonché la sua stessa scrittura drammatica, la sua poetica, i suoi temi più affascinanti e ricorrenti, le sue scelte linguistiche. Come, d’altra parte è uno sguardo anche teatrale quello con il quale Testori si pone ad osservare [...] le immagini dell’arte. (Taffon 1997: 20-1).

3. Amleto e il magma artistico di Testori

All'interno di questo grande magma che è il mondo testoriano, colpisce come l'artista sembri essere continuamente all'inseguimento di un confronto viscerale con uno dei più universali personaggi shakespeariani: Amleto, appunto. E' vero che Testori è uso a 'visitare' nel profondo altri grandi personaggi e testi classici del passato. Si pensi alle rivisitazioni del Macbeth (Macbetto, 1974), dell'Oedipus (Edipus, 1977), o classici più moderni come i Promessi Sposi del Manzoni (La Monaca di Monza, 1967, I promessi sposi alla prova, 1984). Ancora più notevole, poi, è l'inseguimento di personaggi eversivi come Erodiade e Giovanni Battista. Testori comincia con Erodiade e i disegni e acquerelli delle Teste del Battista nel 1968 (oggetto questi ultimi di una mostra al Centre Pompidou di Parigi nel 1987), seguite dalla riscrittura dell'Erodiade per l'interpretazione di Adriana Innocenti nel 1984, per culminare infine nell'evoluzione di Erodiade in Erodiàs nel secondo dei Tre Lai nel 1994.

Tuttavia, è proprio Amleto, lo splenetico principe shakespeariano, come Testori ama chiamarlo, che permea nel profondo il suo universo artistico, tanto da farcene avvertire la presenza in quasi tutto quello che lui ha prodotto (Doninelli 1993: 50). ‘Amleto è uno dei testi che in assoluto Testori amò di più’, come sottolinea Fulvio Panzeri in una delle schede preparate per il Catalogo della mostra I segreti di Milano del 2003 (144).

L'inizio di questo infinito pedinamento ha radici lontane, negli anni della guerra, quando Testori, appena ventenne e rifugiato in una remota valle delle Alpi, decide di cimentarsi con l'esperienza del palcoscenico, coinvolgendo altri giovani amici nell'impresa quanto mai ambiziosa di mettere in scena il ben noto testo shakespeariano.[2] E’ solo la prima battuta di  un dialogo appassionato e mai concluso. Tuttavia, pur permeando tutto l’universo artistico di Testori, il confronto con Amleto trova comunque un momento privilegiato nelle opere a cavallo tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta, anni che quindi rappresentano un tassello cruciale nel nostro percorso sulle tracce dell'Amleto testoriano.

Sono anni, questi, di grande operosità per Testori: da raccolte di poesie (L'amore, 1968, Per sempre, 1970, A te, 1972-3, Alain, 1973, Nel Tuo sangue, 1973) e saggi letterari fondanti per la sua poetica (quale Il ventre del teatro, 1968), alla sceneggiatura di un film su Amleto, 1970, fino ai non meno sorprendenti testi per il palcoscenico (il monologo teatrale Erodiade, 1967-8, e L'Ambleto nel 1972). Eppure, questi non sono anni fecondi solo per la scrittura. Testori, infatti, dopo una lunga pausa di vari anni, ritrova anche la forza e l’impeto per riprendere a disegnare e a dipingere con grande entusiasmo. Notevole, per esempio, è la vasta serie di disegni, e anche acquerelli, dedicati alla Testa del Battista, concepiti in parallelo e in dialogo con la scrittura di Erodiade. Inoltre, sempre di questi anni, è anche la prima importante serie di Tramonti, 1967-9. E’, dunque, un momento artistico di particolare felicità, che culmina, appunto, nella prima mostra personale organizzata da Testori a Torino nel 1971.

4. I tre ‘imbastardimenti’ del ‘sublime esemplare’

Come appena ricordato, con la sceneggiatura del 1970 su Amleto, Testori riprende in maniera diretta la tragedia shakespeariana, cosa che farà per ben altre due volte (una a brevissima distanza, nel 1972, con L'Ambleto, e l’altra invece dopo dieci anni con Post-Hamlet, 1983), sempre, però, rendendola oggetto di rivisitazioni radicali. E’ lo stesso Testori a mettere in guardia il suo pubblico, dichiarando la natura volutamente dirompente del suo personalissimo inseguimento dello splenetico principe.

[...] rivisitazioni [...] imbastardimenti [...] strozzamenti [...], certo delle derelitte e parzialissime prove che il qui scrivente ha tentato d’eseguire su e perfino contro (egli lo sa, lo sa benissimo) il sublime esemplare. (Testori 1983c).

Il primo di questi ‘imbastardimenti’ a cui si riferisce Testori è appunto la sceneggiatura per un film sull'Amleto, che lui stesso avrebbe dovuto dirigere, ma che invece non fu mai girato. Il progetto fu infatti abbandonato, e la sceneggiatura rimase praticamente ignorata, fino a che nel 2002 Fulvio Panzeri, la pubblicò postuma assieme ai disegni dei costumi per i personaggi principali del film, eseguiti sempre da Testori  (Amleto, Gertrude, Claudio, Ofelia, Polonio, i contadini).[3] Sono in tutto dieci bozzetti, molto curati dall’artista, e rivelatori di una lettura assai personale del testo,‘disegni di un Amleto barbarico, che hanno fatto da prova per il futuro Ambleto’, come commenta Alain Toubas (Testori 2003b: 24). Notevole, poi, è nei bozzetti l’attenzione per il dettaglio, come rivelano le brevi annotazioni a matita sui colori e sui materiali da usare nella realizzazione scenica: una puntigliosità non certo fine a se stessa, quanto presaga, invece, della rilevanza dell’elemento pittorico-visivo in tutto il testo della sceneggiatura testoriana.

La trasposizione filmica del 1970 è comunque, pur essendo basata sul testo di Shakespeare, un ‘imbastardimento’ e ‘strozzamento’, con dei vistosi  scostamenti rispetto alla tragedia di riferimento, anche al solo livello di trama. Innanzitutto Testori cambia l'ambientazione. La scena, infatti, si sposta dalla Danimarca a una valle oscura e solitaria delle Alpi italiane. Altre variazioni macroscopiche: il protagonista è legato a Orazio da una relazione omosessuale; e infine Amleto uccide la madre Gertrude, per poi suicidarsi.

Questo primo importante incontro artistico col testo di Shakespeare, pur nel rispetto della struttura e delle caratteristiche formali di una sceneggiatura, rivela già la natura poliedrica e magmatica della vena artistica di Testori. E' un testo, infatti, dove componenti pittoriche, narrative, cinematografiche, poetiche e drammatiche si intrecciano e si sovrappongono. Come osserva Fulvio Panzeri nella Nota che accompagna la sceneggiatura, sotto la penna di Testori, e nella prospettiva cinematografica, la tragedia shakespeariana diventa una vera e propria storia dialogata, dalla forte connotazione visiva, e da un non meno forte furore espressivo e tensione apocalittica, riproponendo temi e soggetti che sono tòpoi ricorrenti nell'universo artistico di Testori. Emblematica, per esempio, è la ricorrenza del tema del tramonto: la sceneggiatura di Amleto apre su un tramonto che accompagna il funerale del padre di Amleto, acuendone, nel disfacimento simbolico del giorno, il senso di violenza e deterioramento che la morte, e questa morte in particolare,  inevitabilmente porta con sé. Un ancor più emblematico e lacerato tramonto segna, poi, la scena finale della morte di Amleto, creando, con una epanadiplosi figurale, una cornice perfetta al testo (Testori 2002: 179).

A questo punto, il riferimento intratestuale e intersemiotico alla pittura di Testori è inevitabile. Come già ricordato, proprio negli anni immediatamente precedenti la sceneggiatura dell’Amleto, fra il 1967 e il 1969, Testori aveva infatti prodotto il suo primo ciclo di Tramonti, una serie di acquerelli, tutti realizzati su cartoncini di piccole dimensioni. In particolare, nei primi di questi acquerelli la prospettiva apocalittica si sposa a una pennellata molto densa che ‘accentua il senso di sfaldamento della materia, col colore che colando verso il basso sembra sciogliersi sul foglio’ (Archivio Testori). In tutti gli acquerelli, poi, si sprigiona un senso di estrema malinconia e angoscia che richiama linguaggio e immagini dei componimenti poetici dei Trionfi, ma che, come appena osservato, si sposa anche perfettamente alla forte atmosfera di putrefazione fisica e morale della sceneggiatura di Amleto. Si innesca dunque un fitto gioco di echi intertestuali e intersemiotici che amplificano e problematizzano le singole immagini e scene. Non sorprende, quindi, che il messaggio metaforico del tramonto non venga mai veramente abbandonato da Testori, riaffiorando come tema centrale anche proprio pochi mesi prima del suo personale tramonto, in otto piccoli acquerelli tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993.

Dopo soli due anni dalla sceneggiatura, Testori riprende in mano il testo shakespeariano, per una rivisitazione ancora più radicale ed esplosiva: L'Ambleto, pubblicato nel 1972 e magistralmente portato in scena dalla Compagnia Franco Parenti nel 1973 al Salone Pier Lombardo di Milano. Una lapidaria ed efficacissima definizione di questo suo nuovo lavoro, e, quindi, ‘dichiarazione d'intenti’ al medesimo tempo, è offerta dallo stesso Testori nel titolo stesso di un’intervista al  Corriere della sera del  9 gennaio 1973.  ‘Ambleto? “Una mazzata”’.

In effetti, L'Ambleto di Testori è stato uno dei casi letterari più dibattuti nel panorama culturale dell'Italia dei primi anni Settanta. Ambientato a Lomazzo, in Brianza, L'Ambleto è scritto in una lingua virtuale e pur sempre splendidamente reale, basata sull'italiano parlato, ma anche influenzata e contaminata dal dialetto milanese, il francese, il latino, lo spagnolo e persino la lingua modernissima dei media. Il testo ruota attorno a un protagonista che è figlio di Amleto, e allo stesso tempo creatura altra rispetto all'eroe shakesperiano. Ambleto, a differenza di Amleto, non è l'intellettuale, straziato fra l'azione e la consapevolezza riflessiva, ma il giovane guitto che più che recitare lo splenetico principe, lo incarna con furia e disperazione.

Fosse stato un regista ‘moderno’, Testori ci avrebbe dato un Amleto ‘nuovo’, un ‘Amleto’ di oggi, nella sciocca presunzione di saperla più lunga di Shakespeare. [...] Testori si è servito di Amleto come ci si serve di un mito, offrendoci di un mito moderno una variante geniale e creativa. Non ha ‘riscritto’ Amleto. Ha scritto un Amleto diverso, un Ambleto che è debitore a Shakespeare di tutto e di niente. (Cesare Garboli, in Testori 2003b: 268).[4]

5. L’evoluzione del tòpos padre/figlio e le metamorfosi di Amleto

Il dialogo con l’Amleto di Shakespeare, e col suo protagonista, non si ferma, comunque, a questi due momenti forti di contatto, ma fin dall’inizio penetra e feconda tutto l’immaginario di Testori. Si sposti, per cominciare, la focalizzazione sul tema del rapporto padre-figlio, che appare in maniera forte nelle poesie dei Trionfi nel 1965, e che viene ripreso nella raccolta L'amore del 1968, dove è evocato nel rapporto fra il poeta più maturo e il giovane amante, e dove è spesso anche ribaltato metaforicamente, in uno scambio insistito di ruoli fra i due amanti (Cappello 1983: 73). Il rapporto  padre/figlio è, del resto, un tema centrale anche nella tragedia di Shakespeare. E’ naturale, quindi, che Testori lo legga come un nodo tematico cruciale per la sua interpretazione del testo, facendone poi uno dei tòpoi fondamentali della sua poetica. Proprio questo nucleo tematico è, infatti, oggetto di particolare attenzione, e di radicale evoluzione, sia nella sceneggiatura del 1970, prima, sia nell'Ambleto, subito dopo.

Nella tragedia di Shakespeare il rapporto fra Amleto e il padre morto è indiscutibilmente sempre caratterizzato da ammirazione profonda da parte del figlio. Al contrario, invece, nella sceneggiatura del 1970 il rapporto è dominato da uno straziante sentimento di amore/odio. Il figlio è pieno di rancore, innanzitutto perché il padre è morto senza permettergli di capire la causa della sua improvvisa morte. Ma, soprattutto, il padre è colpevole di non aver mai spiegato al figlio la ragione per cui gli ha dato la vita, condannandolo a entrare in un mondo così pieno di squallore. Così, quando il padre appare ad Amleto, non è uno spettro maestoso e che incute reverenziale timore come nella pagina shakespeariana, ma una massa disgustosa e straziante di carne in decomposizione, una specie di enorme feto. I ruoli quindi si ribaltano scandalosamente: il padre si ritira fino a diventare feto, ma un feto che già porta i segni della morte, e il figlio si inginocchia e lo solleva con le braccia tese, con un gesto tipicamente paterno.

Abbiamo visto come il tema della decomposizione e putrefazione associate alla morte sia sottolineato nella scenneggiatura dalla complessa metafora del tramonto, a sua volta  problematizzata da una fitta rete di rimandi intertestuali e intersemiotici. Ma il senso di disfacimento in Testori va ben oltre la classica associazione con la morte. E’ fortissimo anche nelle  scene di passione carnale fra Gertrude e Claudio, dove la denuncia ossessiva della putrescenza fisica diventa evidente figura di un ben più terribile decadimento morale.

Le teste di Gertrude e di Claudio impestate, schiacciate, l’una sull’altra [...] I corpi di Gertrude e di Claudio, osceni ed ansimanti; i loro muscoli: le loro osse, vengono infine scoperti come montagne di carne nella caverna, asfissiante per calore ed afror dei lenzuoli. (Testori 2002: 22 - finale scena III)
Le due facce decomposte, mostruosamente flaccide e incollate l’una sull’altra, di Gertrude e di Claudio [...]. (Testori 2002: 121 - inizio scena LV)

La sceneggiatura di Amleto segue a breve distanza la scrittura del monologo teatrale Erodiade (1967-8). E i due testi appaiono, infatti, sottilmente legati. Anzi, il pieno significato simbolico di questa ossessiva insistenza sul tòpos della morte come immagine estrema della decomposizione morale da cui è afflitta tutta l’esistenza umana, si può cogliere solo se la sceneggiatura di Amleto si legge in continuità con l’Erodiade e, soprattutto, con i 73 disegni a penna (a tratti neri fittissimi) e con gli acquerelli che lo accompagnano, rappresentanti tutti la Testa  del Battista (1968). La rete di riferimenti intratestuali e intersemiotici, dunque, si infittisce e arricchisce vertiginosamente. La serie pittorica delle Teste, infatti, non può, a sua volta, essere scissa dal ciclo degli acquarelli sul Tramonto, che, come già osservato, riprogongono con forza, e sempre in quegli anni, il messaggio di morte e di disfacimento della materia. Tuttavia, è soprattutto nella tragica espressività della serie delle Teste del Battista che si coglie il vero correlativo oggettivo delle didascalie della sceneggiatura: eco, amplificazione e chiave di interpretazione al medesimo tempo.  La serie di disegni e acquerelli sulla testa del Battista, che giustamente viene considerata uno dei momenti espressivi più alti della produzione pittorica di Testori, ripropone, in maniera allucinata e allucinante, con solo piccole variazioni, il soggetto raccapricciante della testa decapitata del Battista, facendone un’icona potente di denuncia morale. ‘La maschera sanguinante del volto è esasperata e deformata a tal punto da trasformarsi in alcuni casi in un cumulo irriconoscibile di carne in decomposizione’ (Associazione Testori, Archivio Testori).

Figure 1
Testa n. 22 Testa n. 25 Testa n. 44

Nell’Ambleto la scena dell’apparizione del padre morto presenta un’ulteriore e più radicale evoluzione, con il protagonista, Ambleto, e non il fantasma del padre, che subisce una metamorfosi straordinaria. Solo regredendo fino a diventare una goccia di sperma, e così rientrare nel corpo del padre nell’attimo prima del concepimento, il figlio può sentire la voce del padre che chiede vendetta, ma anche impone di salvare ‘la soverana piramida dell’ordeno e del potere’. Questa volta, tuttavia, la reazione del figlio è di antagonismo completo non solo verso il padre, ma anche verso tutti i padri che hanno costruito quel sistema orribile di corruzione e potere, a cui Ambleto non può e non vuole più sottostare. La missione di Ambleto assume pertanto dimensione apocalittica: annientare ‘la piramida’, a partire da ‘l’Unico e Unichisssimo che ce sta sù’ (Testori 1997: 1185). L’urlo di Ambleto prepara quindi la strada per la preghiera blasfema e straziante indirizzata all’altro Padre, quello divino, nella straordinaria raccolta di versi Nel Tuo sangue, di pochi anni successiva (1973).

La tormentata evoluzione del tòpos padre/figlio diventa imprescindibile, poi, per la comprensione di tutto il mondo poetico testoriano. Nel seguente brano tratto da Per sempre (1970), l’appello toccante rivolto dal poeta all’amato ruota sempre attorno al rapporto padre/figlio, e l’espressionismo semantico del  testo appare chiaramente fertilizzato dalla figura di Amleto. Il breve testo si apre con un riferimento intratestuale al pianto del re, che evoca la sceneggiatura di Amleto, sempre del 1970, con le disarmanti lacrime del feto-spettro del re ucciso. Allo stesso tempo, però, la poesia offre un interessante esempio anche di richiamo diretto al testo inglese, riferimento intertestuale che si discosta dalla sia pur contemporanea esperienza traduttiva della sceneggiatura. I versi richiamano, infatti, anche i soldati che fanno la guardia nella scena iniziale dell’Amleto shakespeariano, e che sono i primi a incontrare il fantasma del re assassinato. Proprio questa scena, che è significativamente omessa nella sceneneggiatura del 1970, viene invece scelta e condensata nella immagine iniziale della breve poesia, che prosegue poi con i simboli emblematici della sovranità: il trono, il manto, la corona e l’ermellino, che il testo presenta come chiara metonimia per un potere corrotto e ingiusto. La poesia si chiude quindi sull’invito finale al sovrano ad abbandonare la posizione di dominio, che porta solo dolore, lasciandosi invece andare nelle braccia dell’amato, fino a ritornare bambino e figlio, con un rovesciamento di ruoli tipico in Testori.

Al pianto del re
che può offrire
un semplice soldato?

Lascia il tuo trono,
deponi il manto, la corona,
l’ermellino.
Così, senza più niente,
ritorni in braccio a me:
sei figlio,
principe,
mio erede,
mio bambino.
(Testori 1997: 783)

6. La metafora della volpe

Il nucleo tematico centrato sul rapporto padre/figlio viene poi spesso arricchito dall’incontro con un’altra ricorrente metafora testoriana. E’ questo il caso, per esempio, di una poesia da A te (1972-3), che si apre con la metafora estesa della volpe, colta nel momento in cui prova a lasciare la tana per avventurarsi nel mondo, venendone, però, immediatamente respinta e costretta a rifugiarsi di nuovo terrorizzata nel nascondiglio. L’impossibilità della volpe di entrare a pieno nella vita ed essere veramente accettata dal mondo, diventa figura della condanna di ogni esistenza umana, in piena sintonia con la disperazione di Amleto/Ambleto nel suo ostinato interrogarsi sul senso della vita, e col suo divorante rancore verso la ‘piramida’ di corruzione e potere che schiaccia tutto e tutti.

Il tuo muso di volpe
che usciva per un momento
dalla tana
e poi subito spaurito
rientrava
era quello di un figlio
nato per caso
che non voleva capire
d’essere in questa terra
un disperato, un evaso.
(Testori 1997: 934)

La metafora della volpe, così centrale per la poetica di Testori, e qui sottilmente associata ad Amleto attraverso il filtro del rapporto padre/figlio, è presente solo in maniera incidentale nella tragedia di Shakespeare, benché, a una lettura più attenta, la marginalità sia poi più apparente che sostanziale.  La metafora, infatti, appare solo nel verso conclusivo dell’atto IV, scena 2, dell’Amleto, dove introduce, però, una analogia significativa.

HAMLET: [...] The king is a thing
GUILDENSTERN: A thing, my lord?
HAMLET: Of nothing. Bring me to him. Hide, fox, and all after.

Se in apparenza il riferimento alla volpe sembra completamente fuori contesto, e quindi può suonare solo come una naturale continuazione della presunta pazzia di Amleto per disorientare Rosencrantz e Guildenstern, in realtà l’immagine metaforicamente allude al cosiddetto gioco del nascondino, in cui un giocatore, la volpe, deve nascondersi, e tutti gli altri, senza tregua, le danno la caccia. Ed è proprio in questo senso che il riferimento intertestuale può diventare di grande pregnanza, e spiega il rilievo che la metafora assume nella poetica testoriana.

Se la metafora della volpe non è presente nella sceneggiatura del 1970, appare comunque due volte in Per sempre (1970), prima associata con la neve e un paesaggio invernale e poi con l’idea della caccia e il ricovero disperato nella tana per morire. Tuttavia, è nell’Ambleto che la metafora diventa centrale e acquista in complessità. La volpe è per la prima volta nominata dal Franzese, il personaggio che in questo nuovo testo prende il posto di Orazio e che è chiaramente in un rapporto di tenero amore col protagonista. Il Franzese evoca la volpe mentre sta sforzandosi di sostenere Ambleto nella sua vertiginosa regressione nello sperma del padre, invitando l’amico a ricordare come anche la volpe una volta avesse perso ogni speranza, proprio come nell’immagine centrale della poesia di A te. La frase rimane interrotta, ma chiaramente la volpe viene introdotta adesso come simbolo di perseveranza e resistenza. Del resto, in una scena successiva, proprio la volpe emblematicamente incarna il ricordo del primo dolce incontro con il Franzese. Come Ambleto racconta alla madre, il giovane Franzese, bello come un angelo, gli era apparso in un paesaggio ammantato di silenzio e imbiancantato di neve (altro simbolo ricorrente in Testori), in cui Ambleto disperato andava cercando il rifugio estremo e la pace perenne. E il Franzese teneva una volpe ferita fra le braccia. L’animale era stato colpito da un cacciatore, ma quella volta il Franzese era riuscito a salvarla e, così facendo, a salvare lo stesso Ambleto (Testori 1997: 1183 e 1195).

La volpe è inoltre oggetto di una delle canzoni inedite (non presenti nel testo Rizzoli), interpretate dal Franzese nella prima versione in teatro: Volpe d’amore (Testori 1977: 1537). Infine, la volpe appare ancora nel dialogo conclusivo della tragedia, poco prima della morte del protagonista. Ambleto morente è a terra, caduto dal trono, e si stringe alle gambe dell’amato Franzese, a cui ormai si rivolge come figlio. ‘Filius falsus che imperò sei più vero de un filius che fudesse istato veramente vero.’ E il Franzese, con la stessa solennità e con la stessa formula, risponde ‘Pater meus de me, meus et per sempre’. Così si conclude il tormentato e continuo scambio di ruoli, in cui si è lungamente dibattuto Amleto/Ambleto/Testori. La missione è stata compiuta,‘la piramida si è tutta spetasciata’, e con essa tutte le figure paterne che alla piramide facevano capo, cominciando proprio con ‘Lui’, con Dio Padre, fino al padre-spettro che chiedeva di salvarla. Per compiere la missione era però necessario distruggere anche la propria vita, come rivela la ormai dichiarata identificazione fra Ambleto e la volpe, ‘sta vorta la volpe ha dovuto morire’ (Testori 1997: 1227-28). Amleto/Ambleto è a questo punto ancor più un orfano, ma, paradossalmente, nell’istante in cui riesce a diventare orfano di tutti i padri, e pur dovendo annientare se stesso, può comunque finalmente raggiungere la vera relazione padre-figlio.

7. Un migrare infinito: Amleto/Ambleto/Testori

Il viaggio di Amleto/Ambleto/Testori sembrerebbe, quindi, arrivato a una sua conclusione. Amleto, però, è un’opera troppo grande, troppo amata da Testori per poter definitivamente chiudere il rapporto passionale che lo lega a questo testo. Soprattutto il suo protagonista, Amleto, è molto di più di un semplice personaggio mitico per Testori. E’ una figura viva a tutti gli effetti, e che quindi necessariamente non può cessare di vivere, né tanto meno fissarsi e fermarsi in un solo testo. Come spiega lo stesso Testori, l’artista lo ha preso ‘come si prende un personaggio vivente’ (Testori 2003b: 23). Ed è quindi naturale che una tale presenza non possa davvero essere costretta entro limiti rigidi o confini di qualsiasi natura. Tuttavia, è importante capire che quello dell’Amleto testoriano non è uno spaziare libero, un andare alla deriva, trascinato sempre più lontano da un evolversi tormentato e instancabile. Il legame con il testo di partenza non viene, infatti, mai veramente a spezzarsi; piuttosto si ripropone continuamente, ma in forme sempre diverse, innescando una dinamica evolutiva che, in piena logica benjaminiana, investe entrambi i poli del processo traduttivo, pur senza chiudere il rapporto. Per Benjamin, infatti, sia la traduzione, sia l’originale sono realtà fluide, in continua evoluzione: ‘For in its afterlife – which could not be called that if it were not a transformation and a renewal of something living – the original undergoes a change.’ (1923/2000: 17).

Come già in parte osservato a proposito del breve componimento poetico Al pianto del re in Per sempre, per Testori, in effetti, l’attrazione per il protagonista è inscindibile dalla frequentazione e dall’amore per Amleto (‘Il testo che io amo di più’, Doninelli 1993: 51), opera che Testori non smette mai di frequentare, e a cui continuamente ritorna, anche dopo radicali rivisitazioni e anzi, si potrebbe dire, a prescindere da esse. Così, il riprendere in mano il testo porta a nuove e inattese esplorazioni e sfaccettature di un Amleto testoriano, che sempre di più appare ‘debitore a Shakespeare di tutto e di niente’, per dirla ancora una volta con Cesare Garboli (Testori 2003b: 268).

Molto interessante appare in tal senso questo lapidario testo poetico ancora da Per sempre (1970).

Stringimi il teschio
nella mano.

Quando non avrò carne
ti dirò ancora:
t’amo.
(Testori 1997:  834)

Forte e immediato è il riferimento intertestuale alla famosa scena di Amleto che stringe in mano il teschio dell’amato giullare Yorick, all’inizio dell’Atto V nel testo di Shakespeare. L’episodio di Yorick è in realtà qui condensato in pochissimi versi, richiamandone i soli elementi essenziali, che tuttavia sono collocati in posizione di particolare rilievo:‘stringimi’, l’imperativo che apre il componimento, ed è poi legato a ‘il teschio’ e a ‘la mano’, entrambi in posizione di fine verso. L’immagine del teschio è poi ripresa dalla metonimia all’inizio del secondo periodo,‘quando non avrò carne’ (perdendo la carne, per effetto della morte, una testa diventa un teschio), mentre ‘mano’ rima con le parole conclusive, ‘t’amo’, che, poi, è una estrema e felicissima sintesi della memoria che, nel testo shakespeariano, Amleto ancora conserva del suo vecchio giullare. Però, a differenza della scena di riferimento in Amleto, qui i ruoli appaiono invertiti, visto che a parlare non è il giovane principe, ma il teschio stesso di Yorick. L’identificazione creata dall’uso della prima persona singolare questa volta è dunque con il teschio, e non con la figura di Amleto che lo sta tenendo in mano.

Questa scena di Amleto in mezzo alle tombe, o meglio l’immagine di lui con in mano il teschio, è di tutta la tragedia di Shakespeare forse quella che più è entrata nell’immaginario collettivo. Nella fantasia popolare la figura di Amleto è in effetti costantemente associata al teschio. Eppure, di questa scena non v’è traccia alcuna nella scenneggiatura del 1970, e neppure due anni dopo nell’Ambleto. Appare quindi ancora più significativo incontrare di nuovo l’eco di questo episodio in una delle ultime poesie di Testori.  Amleto, sia l'Amleto shakespeariano (e proprio con riferimento alla scena col teschio), sia il di lui ‘figlio’, Ambleto, permeano infatti una delle poesie scritte da Testori nel 1992, poco prima della morte, come commento a una raccolta di incisioni di Samuele Gabai.[5] Ancora una volta è il teschio a introdurre il testo, a guisa di memento mori per l'uomo, ma anche come immagine ultima della vita stessa.

La muta crepa
della crapa,
la crapa,
la sua crepa,
il frantumarsi
degli ossi arsi
                nella man d’Amleto...
Amleto
o, così vicino com’è
a Lombardia, Ambleto?
D’una vita
comunque
il resto, il testo
e il final feto...

8. Oltre la parola

In realtà, l’eco della scena con Amleto e il teschio di Yorick non è assente dall’universo artistico di Testori anche nel periodo tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta. Semplicemente va cercato ben al di là dei due grandi momenti di incontro diretto con Shakespeare, la sceneggiatura del 1970 e l’Ambleto, e addirittura al di là della stessa pagina scritta. Infatti, proprio in quegli anni, oltrepassando i confini semiotici della letteratura, il tormentato e infinito rapporto Testori/Amleto approda alla pittura, in ben due quadri. Sono le due grandi tele ad olio (220 x 150 cm.) che Testori, all’interno dei suoi cataloghi autografi tra il 1970 e il 1972, definisce ‘un dittico’,  assegnando loro il titolo di Ragazzo di schiena col teschio e Ragazzo seduto col teschio (Archivio Testori). Entrambe le tele (oggi conservate in collezione privata) furono presentate nel 1971 nella mostra personale allestita presso la Galleria Galatea di Torino, una tappa fondamentale per Testori, da lui infatti preparata con moltissima cura. Il primo dei due oli su tela, Ragazzo di schiena col teschio, è stato poi ripetutamente esposto anche in varie mostre dopo la morte del Maestro, fino ad essere addirittura scelto come copertina per il volume che accompagna la mostra I segreti di Milano nel 2003-4. Doveva essere, dunque, un quadro particolarmente caro a Testori, come confermato dal fatto che l’artista lo ha voluto, assieme a Ritratto di Daniele/Bar (collezione privata), per una ben conosciuta composizione fotografica scattata durante un servizio curato nel suo studio, sempre nei primi anni Settanta (in Testori 2013: 6, e anche in Archivio Testori, allegato a Ragazzo seduto col teschio).

Figure 2

I critici hanno sottolineato il carattere non realistico, né tanto meno narrativo, del Ragazzo di schiena col teschio, come del resto di tutte le altre tele del grande ciclo dei Pugilatori, presentate pure nella mostra della Galleria Galatea di Torino. Il ‘bianco purificante o, meglio, disinfettante’ che avvolge la figura, assieme a ‘l’uso astratto e non mimetico del colore, che si condensa [...] in tasselli regolari che ben poco hanno di naturalistico’, potrebbero suggerire una forza espressiva volutamente contenuta.

Nei suoi dipinti, Testori sembra piuttosto interessato a dar corpo a quel ‘abbacinamento della bellezza’, di cui più volte parla [...] l’immagine ha qualcosa di oleografico e non è la narrazione. (Testori 2013: 13)

Eppure, se di ‘abbacinamento della bellezza’ si deve parlare anche per questa tela, il risultato non è certo una rappresentazione di maniera. Uno sguardo più attento non tarda a cogliere nel dipinto un gioco sottile e personalissimo di richiami e di contrasti, che innescano, anche a livello plastico (topologico ed edeitico), dinamiche tensionali che disperdono ogni eventuale percezione dell’opera come testo chiuso e statico.

Già a livello figurativo la dinamica si rivela più complessa. La coppia antonimica giovane bello (in secondo piano, di spalle, ma centrale e dominante),  e teschio (in primo piano, di fronte, però in basso a sinistra) ripropone, è vero, il classico memento mori, con l’inevitabile richiamo al futuro di morte e decomposizione, destino tragico di ogni uomo. Tuttavia, sia il teschio, sia la nera testa di capelli del giovane sono in posizione periferica, mentre al centro è il suo statuario fondo schiena. Il forte richiamo interstestuale ‘al sempre imprescindibile Géricault’ (Dall’Ombra in Testori 2013: 15) ne accresce l’indubitabile fascino, mentre al contempo problematizza la dinamica vita-morte, introducendo mirabilmente anche Eros, altro tòpos centrale in Testori.

La tela è inoltre caratterizzata da significative tensioni direzionali.  E’ vero che il dipinto potrebbe suggerire una struttura ben definita e priva di problematicità, con l’asse orizzontale marcato dalla linea superiore delle due gambe, aperte e fortemente divaricate, che individuano nel quadro due chiare zone, alto/basso, ciascuna doppiamente definita, per una certa coerenza figurativa. La parte alta del quadro corrisponde alla parte alta del corpo e della sedia, ed è caratterizzata da assenza di oggetti; in maniera conforme, la parte bassa del quadro presenta la parte inferiore del corpo e della sedia, e, a differenza della metà superiore della tela, presenta anche un mobile e un teschio. Quest’ultimo, poi, già di per sé, in quanto simbolo di morte, evoca la terra, e quindi tutto ciò che è basso. Il contrasto basso/alto è infine confermato anche a livello eidetico: prevalenza della linearità e dei colori rossi nella parte bassa, predominanza del ‘bianco purificante’ e delle linee curve e spezzate nella parte alta.

Tuttavia, le gambe aperte si proiettano lateralmente verso il fuori, con la gamba destra che materialmente invade il fuori campo. E la loro marcata vettorialità di fuga centrifuga è controbilanciata da una non meno significativa spinta centripeta, innescata dalla centralità di quello scultoreo fondo schiena. E’ il fulcro da cui orizzontalmente fuggono, ma, in un certo senso, anche convergono, le gambe. Ed è lo stesso fulcro su cui si innesca verticalmente la non meno significativa  sinuosità del torso del giovane, obliquo e flessuoso,  che a sua volta proietta il quadro verso l’alto.

La tela, pur rappresetando un giovane seduto e a riposo, gli attribuisce in realtà una forma dinamica, aperta e, in questo senso, davvero proiettata verso la vita. E’ vero che la testa, lievemente piegata, e le braccia, che non si vedono, ma si intuisce essere raccolte sul davanti, suggeriscono piuttosto riflessione e ripiegamento su di sé. Tuttavia, il ragazzo non sta guardando il teschio, ma, come la folta macchia nera delle ciglia rivela, il suo sguardo è anch’esso proiettato verso il fuori, a sinistra, con un movimento senza fine verso il fondo bianco, come immerso nell’altrove e nel dopo, nel post. Anche il teschio guarda: a differenza del giovane, è rivolto davanti, verso destra e di tre quarti, ma anche lui si proietta verso il fuori del quadro, nella direzione che è poi quella di chi il quadro sta creando. Le tensioni innescate dalla non convergenza degli sguardi nel quadro, e la proiezione verso il fuori e verso l’oltre, ‘istituiscono il quadro come un segmento di questo gesto cretore/ricreatore che è la scrittura/lettura’ (Corrain 1999: 78), rendendo, dunque, aperto il dialogo, con un chiaro coinvolgimento di chi dentro la tela non è, ma che la tela invece chiama in causa.[6]

In questa prospettiva diventa rivelatrice la già menzionata foto nello studio. Qui Testori entra direttamente nella composizione, quasi una versione moderna del commentator di tanta pittura rinascimentale, autore dei due quadri raffigurati nella foto (ma certamente anche coautore della stessa composizione fotografica); soggetto della foto (la foto è fondamentalmente un autoritratto), ma anche suo interprete al medesimo tempo. Il teschio è nella stessa posizione che ha nel quadro, in basso a sinistra e in primissimo piano, ma nella foto è uscito dal quadro per entrare nella nostra realtà. Grazie alla sua collocazione nella foto, alle spalle del pittore, lo sguardo del personaggio dipinto nell’altro quadro (Daniele), proiettandosi davanti e fuori, appare rivolto proprio al cranio. E’ una foto da studio, e quindi molto attentamente costruita. Come già rilevato, la foto è un autoritratto, e in questo senso, quindi, affermazione di identità, ma allo stesso tempo anche ricerca. Testori assume la stessa posizione di Daniele nel quadro, per cui proprio come il giovane Daniele alle sue spalle, guarda anche lui in direzione del teschio. Tuttavia, a differenza di Daniele, Testori trapassa il teschio. Il suo sguardo è in realtà assente, o meglio, è rivolto fuori della foto, attraverso, e oltre il teschio, verso l’infinito. La ricerca della verità, l’interrogarsi continuo dell’uomo sul significato dell’esistenza e del dolore, sembra dirci qui Testori, non può concludersi col teschio come  assoluta negazione e annichilimento della vita. Ma questo è, del resto, lo stesso lacerato ed eterno discorso che l’artista sta portando avanti attraverso la pagina scritta.

Emblematiche per sofferenza, ma anche per volontà di perseguire sempre la verità, vengono alla mente le parole del saggio L’orafo fedele e disperato, dedicato da Testori nel 1978 alla serie dei Teschi dell’amico pittore Ennio Morlotti. E non meno emblematicamente vi si ritrova il richiamo ad Amleto:

meglio è vivere fino all’ultimo soffio o alito del proprio destino: pianta; animale; uomo. E’ infatti, allora, proprio e solo allora, che il dolore, la fatica, il silente strazio di una ricerca senza pace fanno rotolare sulla pagina o sulla tela il frutto insperato; ove pur fosse questo: il nostro umano teschio. Vi bisbigliano attorno l’eterne parole d’Amleto. (In Testori 2002: 173-4).

Il teschio viene dunque elevato a vero correlativo oggettivo delle ‘eterne parole d’Amleto’, che, come personaggio, rimane legatissimo a Shakespeare, ma, come creatura entrata a pieno titolo nell’universo artistico testoriano, è inscindibile da un’inarrestabile evoluzione. Testori infatti aggiunge:

A memento e testimonianza che, anche nei nostri disfatti anni, qualcuno pensò che la vita è soprattutto meditazione sulla sua fine [...] Amleto docet; e, nelle misure dell’infimo, anche l’Amleto con l’intoppico della bi [...]. (In Testori 2002: 175)

Non possono rimanere dubbi, a questo punto, sulla natura intima, carnale, che lega Testori ad Amleto, come figura emblematica, ma pure come testo da amare e quindi sempre rileggere e tradurre. Il suo continuo interesse, il continuo ritornare al personaggio e alla pagina di Shakespeare, ma anche le coraggiose rivisitazioni, non hanno davvero niente della matrice intellettualistica, né tanto meno rappresentano un piegarsi a tendenze culturali alla moda, come Testori del resto spesso rivendica con forza.

9. Fluidità, ambiguità e resistenza nell’Amleto testoriano

Abbiamo già avuto occasione di ricordare che Testori, in particolare  proprio nel caso di Amleto,  è scettico rispetto alla traduzione, quando la traduzione venga concepita esclusivamente come processo di trasferimento interlinguistico. Testori, con Amleto, sembra percepire chiaramente la resistenza alla traduzione da parte del testo, e ancor più del personaggio, confermato da quel suo continuo riprendere la pagina shakespeariana e riprovarci in forme e modi sempre diversi, senza però mai poter concludere la sua ricerca. In effetti, come abbiamo visto, il rapporto che lega Testori ad Amleto è molto complesso ed articolato, sfidando i limiti di definizioni o classificazioni rigide. In questo personalissimo inseguimento testoriano, vengono ampiamente superati e addirittura svuotati i confini della traduzione nella sua accezione classica di migrazione da un testo di partenza a un testo di arrivo, e questo anche includendo la traduzione intersemiotica (Jakobson 1959/2000: 114).[7]  Certamente opere come la sceneggiatura filmica del 1970, ma ancor più la tela del Ragazzo di schiena col teschio, se lette singolarmente nel loro rapporto col testo shakespeariano, rimangono interessanti esempi di traduzione intersemiotica, che comunque evidenzierebbero lo spaziare del discorso testoriano oltre i confini della trasposizione interlinguistica. Tuttavia, da sole, non riuscirebbero a illuminare l’esperienza traduttiva nella sua totalità: in questo caso, infatti, se limitata al rapporto binario testo fonte/traduzione intersemiotica, la riflessione critica, rimarrebbe inevitabilmente ben lontana da cogliere il complesso migrare dell’Amleto testoriano.

D’altra parte, è anche vero che in Testori l’evoluzione di Amleto non diventa mai pastiche  postmoderno, né un viaggiare alla deriva, in un allontanarsi infinito e progressivo dalle origini. Gli scarni testi poetici da Per sempre, così come la tela ad olio del giovane seduto col teschio, pur vicini temporalmente alla sceneggiatura del film su Amleto e alla rivisitazione teatrale dell’Ambleto, rivelano un rapporto a stella rispetto al nucleo ispiratore, piuttosto che un viaggio lineare di rilettura e di allontanamento. Come abbiamo visto, Testori, nella sua lunga visitazione dello splenetico personaggio, non taglia mai il contatto vitale con l’Amleto di Shakespeare.

Questa è la sua eccezionalità, e, proprio in tal senso, l’esperienza testoriana può essere definita di natura traduttiva. Certo, è una relazione traduttiva particolare, che non può trovare piena collocazione neppure nell’ambito delle cosiddette riletture. Il personalissimo incontro con il nucleo profondo dell’Amleto, è così totalizzante che in Testori il rapporto traduttivo si confonde e approda nella scrittura.

Perché allora sentivo che quelle figure [Amleto, Macbeth, Edipo] erano vive, sono vive, appartengono all'uomo, alla sua storia, alla sua coscienza. E in essi sentivo anche il coagularsi di tre momenti della mia esperienza, il mio cammino progressivo fino alla sfida ultima. Allora li ho presi. Li ho presi come si prende un personaggio vivente, senza fare tutte le riletture che mi hanno poi attribuito. (Testori 2003b: 23).

Amleto, dunque, come personaggio vivente. Ma allora, in quanto persona viva, non è più solo oggetto di traduzione, bensì ne è anche soggetto. Nell’eterno dialogo/inseguimento fra Testori e Amleto, il personaggio prende vita e incarna la condizione stessa del migrante. Come il migrante, anche Amleto si trova dunque con Testori a vivere in una continua trasposizione. Ma è una  condizione dove il personaggio anche interagisce, a sua volta stimolando e fecondando: da testo a testo, dal palcoscenico  teatrale a quello filmico, dalla prosa alla poesia, dalla scrittura alla pittura. In questo senso, Amleto da oggetto diventa anche attore e co-autore dello stesso processo traduttivo, là dove il concetto di traduzione è espanso e diviene metafora di un più universale ed esistenziale processo di continua trasposizione: un dislocamento in cui, senza linearità cronologica, si prendono, si mettono in gioco, si ibridizzano e si negoziano, dimensioni diverse, che risultano pertanto sempre altre. E’ un incessante ricercare la traduzione, paradossalmente vivendo allo stesso tempo la lacerazione del lottarvi contro. Così Amleto/Testori finisce per diventare il soggetto di una personalissima esperienza di resistant translation nel solco del pensiero di Homi Bhabha.

Fluidità, ambiguità, trasformazione continua: è quanto, del resto, suggerisce l’emblematico titolo scelto da Testori per il suo ultimo incontro teatrale con Amleto, Post-Hamlet, un titolo che, nell’evocare l’Ur-Hamlet da cui si è mossa la tragedia shakespeariana, invita per contrasto a guardare indietro, al prima di Shakespeare. L’andare oltre Shakespeare (Testori, Dell’Amleto: 14), ma guardando anche prima di Shakespeare, mette in rilievo la circolarità e il continuum di un processo, che nell’incessante coinvolgere e fondere traduzione e scrittura sembra davvero aprirsi all’infinito.

La focalizzazione sul continnum traduttivo, più che sul singolo prodotto, amplifica necessariamente lo sguardo nella lettura, forzando i confini in entrambe le direzioni del prima e del dopo. Il concetto di traduzione come processo, ma anche come metafora esistenziale, chiama in campo ancora una volta il controverso paradigma di cultural translation, visto che, come evidenzia Anthony Pym (2010: 144), col termine ampio di cultural translation si tende a esprimere un processo traduttivo in cui non c’è un testo di partenza, e generalmente neppure un testo di arrivo, fissi.

10. Conclusione

In apertura di articolo abbiamo ricordato come cultural translation non sia un chiaro modello teorico, e quindi sia potuto risultare attaccato e attaccabile nell’ambito di Translation Studies. Tuttavia, pur rimanendo nella consapevolezza dei limiti di indagine proposti in questo studio di caso, è innegabile l’impulso che dal paradigma cultural translation può derivare per l’esplorazione e interpretazione di esperienze traduttive complesse. E’ infatti grazie a concetti quali traduzione come continuum, o come resistant translation, che fondamentalmente questo studio di caso di critica della traduzione individua la chiave di lettura dell’Amleto testoriano. Rispondendo in modo affermativo al dubbio sulla legittimità di considerare ancora di natura traduttiva un legame artista/personaggio/testo così emblematico come quello qui analizzato, la lettura dell’Amleto testoriano mostra le possibilità analitico-interpretative che possono scaturire da un concetto di traduzione meno esclusivamente focalizzato sul rapporto fra singoli testi. Nell’ottica di un approccio traduttivo aperto alla complessità, l’infinito e poliedrico inseguimento testoriano può così essere colto come un modello paradigmatico della fluidità e inafferrabilità dei confini fra traduzione e scrittura.

A Homi Bhabba, cediamo, dunque la parola, prendendone in prestito un brano di grande efficacia evocativa, per applicarlo al nostro contesto e per cercare una formula di sintesi che, nella condizione dell’ibrido e dell’ambiguità, riesca a cogliere anche la straordinarietà del rapporto fra Testori e Amleto.

If hybridity is heresy, then to blaspheme is to dream. To dream not of the past or present, nor the continuous present […] it is the dream of translation as ‘survival’, as Derrida translates the ‘time’ of Benjamin’s concept of the after-life, as sur-vivre, the act of living on borderlines […] an empowering condition of hybridity; an emergence that turns ‘return’ into reinscription and re-description; an iteration that is not belated, but ironic and insurgent. (Bhabha 2004: 324. Enfasi nel testo)

Attraverso il loro intimissimo rapporto, Testori e Amleto vivono entrambi sui margini, sui confini, e la loro sofferta simbiosi incarna addirittura l’essenza dell’ibrido. Testori, infatti, non solo porta Amleto (ed è a sua volta anche portato) a trasgredire e confondere i confini culturali, temporali e spaziali. Assieme all’artista lombardo, Amleto resiste alla traduzione e giunge a violare altre barriere non meno cristallizzate: dal genere (Amleto è omosessuale) al canone artistico (differenze fra generi letterari e codici semiotici), nonché lo stesso limite fra traduzione e scrittura creativa, fino a rendere vago il confine fra autore e personaggio. Testori non potrebbe davvero offrire una dimostrazione più efficace di come lo splenetico principe possa continuare a essere pienamente vivo; possa, in altre parole, űberleben, nella ricchissima ambiguità di un processo creativo, eternamente in bilico fra traduzione e scrittura.

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---- (1983b) Ossa mea. Milano, Mondadori.

---- (1983c) “Dall’Amleto della speranza al Bosco della vita”. Corriere della sera, 9 Aprile: 14.

---- (1984) I promessi sposi alla prova. Milano, Arnoldo Mondadori.

---- (1991) Traduzione della prima lettera ai Corinti. Milano, Longanesi.

---- (1994) Tre Lai. Cleopatràs, Erodiàs, Mater strangosciàs. Milano, Longanesi.

---- (1994) Segno della gloria – Incisioni di Samuele Gabai. Commento poetico di Giovanni Testori. Rovio, Edizioni Rovio & Giorgio Upiglio, Grafica Uno.

---- (1995) La realtà della pittura. Scritti di storia e critica d’arte dal Quattrocento al Seicento. Pietro C. Marani (ed.). Milano, Longanesi,.

---- (1996) Nel ventre del teatro. Gilberto Santini (ed.). Urbino, Edizioni Quattro Venti.

---- (1997) Opere 1965-1977. Fulvio Panzeri (ed.). Milano, Bompiani.

---- (2002) Amleto – Una storia per il cinema. Fulvio Panzeri (ed.). Torino, Aragno Editore.

---- (2003a) Parole e colori. Luigi Cavadini e Alain Toubas (eds). Milano, Mazzotta.

---- (2003b) I segreti di Milano. Alain Toubas (ed.). Milano, Silvana Editoriale.

---- (2013) I pugilatori. Davide Dall’Ombra e Angelo Piazzoli (eds). Bergamo, Fondazione Credito Bergamasco.

Note

[1] La letteratura teorica su cultural translation, anche nel solo ambito traduttivo, è molto ampia. In particolare si ricorda il forum sull’argomento aperto nel 2009 dall’intervento di Boris Buden e Stefan Nowotny su Translation Studies (2:2, 196-219), con vari altri autorevoli contributi. Il forum è rimasto aperto e la discussione si è protratta nel 2010 in altri due numeri della rivista: 3:1, 94-110; 3:3, 349-360.  Cfr. anche il capitolo dedicato all’argomento da Anthony Pym in Exploring Translation Theories (2010: 143-164) e il suo articolo ‘On Empiricism and Bad Philosophy in Translation Studies’, sempre dello stesso anno. La rivista Translation Studies non ha smesso di seguire la riflessione sul tema, come dimostrano gli importanti interventi di Kyle Conway (2012) e di Sarah Maitland (2016).

[2] Testori racconta: ‘Il programma era ambizioso: volevamo allestire l’Amleto di Shakespeare presso il santuario di Campoè, che si trova in mezzo ai boschi. La scena fu posta tra i due pilastri del cancello del santuario, con i fari di due automobili, dietro, che la illuminavano. Era piuttosto suggestivo, devo dire, nonostante la pochezza degli attori, soprattutto nella scena del funerale di Ofelia che noi avevamo trasformato in una specie di processione. Con la resina degli alberi avevamo fatto delle torce [...] Fu un successone.’ (Doninelli 1993: 43)

[3] La serie dei dieci disegni dei costumi è stata poi presentata integralmente, e giustamente valorizzata, nella mostra  I segreti di Milano del 2003.

[4] Nel 1983, Testori riprende ancora una volta Amleto nel Post-Hamlet, che nel richiamare il personaggio di Shakespeare direttamente col nome originario, 'Hamlet', lo dichiara però anche superato, passato. Testori presenta infatti una lettura, per molti versi, ancora più radicale ed estrema. Dopo l'eroe shakespeariano della vendetta, del dubbio e del silenzio, e dopo l'evangelismo anarchico dell'anti-eroe Ambleto, questo terzo Hamlet, che rimane siginificativamente assente dal palcoscenico, è l'eroe positivo che accetta il martirio per guidare una comunità dispersa, vere pecore senza pastore, all'incontro col Padre. Hamlet, quindi, come figura Christi che si immola per lavare col sangue l'omicidio del Padre, che è poi l'omicidio perpetuato da una società globalizzata che idolatra la scienza e la tecnologia.

[5] La poesia è stata pubblicata postuma nel 1994 nel volume Segno della gloria.

[6] Cfr. in particolare il capitolo ‘Lo sguardo in pittura: un’economia dell’enunciazione’ in Omar Calabrese, Come si legge un’opera d’arte, 2006: 31-39; e anche Lucia Corrain, Semiotiche della pittura (2004).

[7] La nota classificazione di Jakobson individua tre tipologie di interpretazione di un segno verbale, che può essere tradotto in altri segni della stessa lingua (traduzione intralinguistica), in un’altra lingua (traduzione interlinguistica o traduzione propria), o in un diverso sistema di simboli non verbali (traduzione intersemiotica).

About the author(s)

Anna Fochi, BA at the University of Pisa, Italy; Ph. D.in Translation Studies, University of Glasgow, UK. She is currently co-operating with Cardiff University, School of European Studies, as an Honorary Research Fellow. Main field of interest: translation criticism with special focus on intersemiotic translation (cinema and literature, painting and literature) and poetry translation. Other fields of interest: English and Italian literatures. Publications: articles in “Translation Studies”, “InTRAlinea” “New Readings”, “Westerly”, "Studi di filologia e letteratura", "Italianistica", “Critica letteraria”, “Contesti”, “Lingua e letteratura”, “Educazione permanente”, “Iter”, “Lend”. Editor and translator of an anthology of John Keats’s letters (Oscar Mondadori: Milan).

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©inTRAlinea & Anna Fochi (2016).
"Fra traduzione e scrittura, senza confini semiotici o letterari Giovanni Testori e Amleto", inTRAlinea Vol. 18.

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