L’interprete nel processo penale italiano:
perito, consulente tecnico o professionista virtuale?
By Antonella Longhi (Italy)
Abstract & Keywords
English:
This article paper concerns court interpreters in Italy, the reasons for their appointment within criminal proceedings, the laws regulating their engagement and performance, and finally the distinctiveness of their role. On closer examination of the fundamental contribution of the interpreter in the economy of the bilingual process, this paper asks whether, and to what extent, they can be compared to two other specialized figures who, when necessary, enter the same legal proceedings: the consultant and the expert.
Italian:
Il presente articolo concerne la figura professionale dell’interprete forense in Italia, le motivazioni della sua presenza nell’ambito di un procedimento penale, le leggi che regolamentano la sua nomina e le modalità di svolgimento dell’ufficio, ed infine la peculiarità del suo ruolo. Considerando il contributo fondamentale e altamente specializzato richiesto all’interprete nell’economia del processo bilingue, è lecito chiedersi se e in quale misura possa essere accostato a due figure altrettanto specializzate che, laddove necessario, entrano a far parte del medesimo procedimento giudiziario: il consulente tecnico e il perito.
Keywords: court and legal interpreting, interpretazione di conferenza
©inTRAlinea & Antonella Longhi (2005).
"L’interprete nel processo penale italiano: perito, consulente tecnico o professionista virtuale?", inTRAlinea Vol. 7.
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1. L’interprete nel processo penale italiano: motivazioni della nomina e lacune normative.
Nell’ambito del procedimento penale italiano, l’autorità procedente nomina un interprete, ai sensi dell’art. 111 (recentemente modificato) della Costituzione Italiana e degli artt. 143 – 147 del Codice di procedura penale, qualora le parti coinvolte non conoscano la lingua ufficiale del processo (che, in base all’art. 109 c.p.p., è l’italiano), o qualora non la conoscano a sufficienza per affrontare adeguatamente la dinamica processuale. Tale nomina è motivata dalla necessità di garantire all’imputato che non capisce e/o non parla l’italiano (è sufficiente che si verifichi una delle due condizioni) il diritto di comprendere le accuse contro di lui formulate e capire il procedimento al quale partecipa, nel rispetto del principio costituzionale dell’uguaglianza di ogni individuo davanti alla legge, in virtù del quale nessuno può essere discriminato su basi linguistiche o culturali. Scopo ultimo di questa tutela linguistica, che è gratuita, è quello di far sì che l’imputato sia presente, vale a dire parte attiva del procedimento [1] al quale partecipa e la cui piena comprensione è presupposto fondamentale per l’esercizio di una difesa consapevole, conditio sine qua non per lo svolgimento di un giusto processo.
Il diritto all’interprete nell’ambito di un processo penale costituisce quindi una condizione indispensabile per porre in essere un diritto fondamentale dell’imputato, quello alla difesa e alla «parità fra le parti» (Curtotti Nappi 2002: 260). Idealmente, l’imputato non italofono – sia egli cittadino italiano o straniero, cittadino italiano appartenente a minoranze linguistiche riconosciute (Curtotti Nappi 2002: 325s.) o, infine, cittadino esclusivamente dialettofono, eventualità quest’ultima sempre più rara (Barbagli 1998: 72) – dovrebbe essere messo nelle condizioni le più simili possibile a quelle di un imputato italofono.
Ispirata a principi generali irreprensibili, la normativa in vigore nasconde tuttavia alcune lacune, riguardanti in particolare: a) la mancata distinzione fra le competenze dell’interprete e del traduttore, b) il soggetto che presiede alla nomina dell’interprete, c) le linee guida per valutare il grado di conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato, e, infine, d) i criteri che dovrebbero guidare l’accertamento dell’idoneità e delle competenze della persona nominata.
Una prima evidente lacuna appare nell’art. 143.2 c.p.p., che prevede la nomina di un interprete laddove si renda necessaria la traduzione di uno scritto in lingua straniera. Tale incoerenza, non solo terminologica, è ribadita dall’art. 147 c.p.p., ove si tratta dei termini che l’interprete deve rispettare per la consegna di traduzioni scritte. Nemmeno l’art. 242 c.p.p., che regolamenta la traduzione di documenti e nastri magnetofonici, fa riferimento alla figura del traduttore, limitandosi a rimandare all’art. 143 c.p.p. La legge richiama dunque sempre ed esclusivamente la figura dell’interprete, affidandogli entrambi i compiti, ossia l’attività prettamente traduttiva e quella interpretativa in senso stretto (Curtotti Nappi 2002: 120).
Per quanto riguarda il soggetto cui spetta la nomina dell’interprete, l’art. 143.1 c.p.p. vi si riferisce con un generico appellativo di «autorità procedente», in passato solitamente identificata con il giudice che presiede il procedimento (Megale 1992: 177). Da alcuni anni la giurisprudenza costituzionale ha tuttavia esteso il diritto alla tutela linguistica dalla fase processuale vera e propria all’intero procedimento (Vigoni 1995: 393-396), estendendo di conseguenza l’accezione stessa di «autorità procedente».
La normativa vigente, inoltre, non fornisce indicazioni precise né circa il grado minimo di competenza linguistica richiesto a un imputato, né circa la soglia oltre la quale si riveli necessaria un’assistenza linguistica in suo favore. Eppure tali indicazioni sarebbero particolarmente utili per la stessa autorità procedente, chiamata a valutare l’opportunità della nomina di un interprete. Va infatti precisato che, contrariamente a quanto avviene per i cittadini italiani appartenenti a minoranze etnico-linguistiche riconosciute, i quali usufruiscono della tutela linguistica a prescindere dalla loro conoscenza della lingua italiana (Vigoni 1995; Curtotti Nappi 2002: 10), il solo fatto che un imputato straniero non possegga la cittadinanza italiana non è di per sé presupposto unico e sufficiente per l’assegnazione di un interprete. Il cittadino straniero, infatti, ha diritto a tale assistenza previa dimostrazione della sua insufficiente conoscenza dell’italiano (Ballardini 2002: 208). Al contempo, però, la normativa non suggerisce procedure specifiche volte a verificare la sua competenza linguistica, né tanto meno fissa parametri di riferimento per la valutazione delle stesse.
Va rilevato parimenti che l’autorità procedente dispone di un ampio potere discrezionale durante la fase di selezione dell’interprete. Nessuna normativa fornisce, infatti, indicazioni circa i criteri di scelta e di nomina dell’interprete, al di là dell’art. 143 c.p.p., che tuttavia si limita a definire le caratteristiche che rendono un candidato interprete non idoneo piuttosto che stabilire i prerequisiti che questi dovrebbe possedere per fornire un servizio di qualità.
Pur essendo la qualità della performance interpretativa presupposto fondamentale per il pieno esercizio del diritto alla difesa dell’imputato alloglotta, l’attuale normativa non propone chiare linee guida cui l’interprete possa ispirarsi durante l’espletamento dell’incarico. Al riguardo, l’art. 146.2 c.p.p. si limita a ricordare in modo sommario che l’autorità procedente «ammonisce [l’interprete] sull’obbligo di adempiere bene e fedelmente l’incarico affidatogli, senz’altro scopo che quello di far conoscere la verità, e di mantenere il segreto su tutti gli atti che si faranno per suo mezzo o in sua presenza.» È lecito chiedersi, a questo proposito, quali qualifiche, competenze e capacità permettano all’interprete di adempiere «bene» il suo ufficio. L’autorità procedente possiede forse competenze linguistiche specifiche tali da poter «ammonire» l’interprete circa le caratteristiche che la sua prestazione dovrebbe avere per essere considerata di buona qualità? E quali sono i criteri cui un interprete dovrebbe attenersi perché la sua interpretazione sia «fedele»?
Infine, l’attuale formulazione della legge lascia intendere che l’incarico possa essere conferito a chiunque sia ritenuto capace di adempiere l’ufficio, e che essere professionisti o possedere un diploma o una laurea in interpretazione e traduzione sia auspicabile ma non vincolante (Ballardini 2005: 169).
Sono quindi evidenti le carenze di una definizione normativa (alle quali fa da corollario l’inadeguato trattamento economico – basti prendere atto dell’irrisorio aumento dei compensi previsto dal Decreto del Ministero della Giustizia del 30 maggio 2002) di quella che dovrebbe essere una prestazione professionale specializzata. Una via percorribile nel tentativo di garantire un’assistenza linguistica di qualità dovrebbe passare, a nostro parere, in primo luogo attraverso il riconoscimento – normativo ed economico – della necessaria professionalità dell’attività di interpretazione in questo settore particolare, che implica competenze altamente specializzate e la capacità di svolgere compiti specifici, oltre che nettamente distinti da quelli di un traduttore.
Alla luce di quanto detto sopra, può sembrare paradossale (ma, da un certo punto di vista, anche incoraggiante), che la normativa in vigore associ la figura dell’interprete forense ora a quella del perito, ora a quella del consulente tecnico. In tal senso, può essere interessante analizzare le norme che accomunano l’interprete con queste due categorie di ausiliari del giudice, al fine di rilevare eventuali contraddizioni o spunti interessanti in vista di un possibile riconoscimento.
2. Figure professionali a confronto: interprete, perito e consulente tecnico.
In primo luogo appare opportuno osservare come la normativa inquadra le figure professionali del perito e del consulente tecnico, al fine di rilevare punti di contatto e differenze rispetto all’interprete forense.
2.1. Albi del tribunale
Prima però di prendere in esame le figure del perito e del consulente tecnico, è opportuno fare un breve cenno all’esistenza di albi che raggruppano diverse categorie professionali.
Va innanzitutto premesso che non esiste al momento un albo degli interpreti e dei traduttori. Pertanto questi, in ambito giuridico, confluiscono nell’Albo dei consulenti tecnici e dei periti, insieme con altre figure professionali appartenenti a categorie molto diverse (esperti in medicina e chirurgia, agricoltura, commercio, balistica ecc., come previsto dagli artt. 13 disp. att. c.p.c. e 67 disp. att. c.p.p.). Per la precisione esistono due tipi di albo: uno tenuto presso il tribunale civile, chiamato Albo dei consulenti tecnici, e uno presso il tribunale penale, chiamato Albo dei periti. Poiché il presente contributo concerne esclusivamente la figura dell’interprete attivo in ambito penale, di seguito sarà preso in considerazione unicamente l’Albo dei periti.
Per l’iscrizione all’Albo è richiesta una «speciale competenza nella materia» (art. 69 norme di attuazione c.p.p.), che deve essere dimostrata con la presentazione di titoli e documenti che la attestino: è questo l’unico criterio previsto dalla normativa volto ad accertare la competenza del candidato. Un comitato presiede alla scelta degli iscritti e provvede alla revisione periodica dell’Albo, al fine di cancellare eventuali iscritti per i quali sia venuto meno uno dei requisiti necessari o sia sorto un impedimento per l’esercizio di perito (art. 68 norme di attuazione c.p.p.). Sebbene tale procedura possa sembrare una garanzia sufficiente di aggiornamento e continua valutazione dell’Albo, in realtà l’esclusione da esso sembra basarsi più su considerazioni di tipo giuridico e amministrativo circa il possesso o meno di determinati requisisti (condanne e sentenze precedenti, cause di incapacità, provvedimenti disciplinari passati), piuttosto che su una concreta verifica della qualità del servizio reso dall’interprete. Non solo: una volta iscritto nelle liste del tribunale, il perito diventa automaticamente contattabile da parte dell’autorità senza ulteriori controlli.
Non va inoltre omesso che l’art. 67 disp. att. c.p.p. prevede la possibilità di nomina di un perito non iscritto all’Albo, scelta che non causa la nullità dell’atto, ma implica solo l’obbligo per l’autorità procedente di motivare tale decisione. Ne consegue che il ricorso all’Albo ai fini della nomina non è obbligatorio. Se, come già osservato, l’iscrizione all’Albo non garantisce automaticamente la competenza dell’interprete, la sua non iscrizione, a nostro parere, la garantisce ancor meno.
2.2. Il perito
La nomina di un perito è motivata dalla necessità del giudice di avvalersi di competenze tecniche specializzate che lui stesso non possiede in prima persona ma che gli sono indispensabili per accertare i fatti e formulare un giudizio, come regolamentato dall’art. 220.1 c.p.p. La perizia assume perciò un carattere di eccezionalità, dal momento che il perito viene nominato esclusivamente quando la sua presenza è necessaria per colmare una lacuna di competenze tecniche da parte dell’autorità, che deve pronunciarsi su questioni talvolta estremamente specialistiche. In altre parole, la perizia è giustificata solo in caso di necessità manifesta dell’autorità giudiziaria (Codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza 2001: 592), che si trova in una condizione di disagio in ambiti a lei non congeniali (Enciclopedia del diritto Giuffré 1983: voce “perito”).
L’apprezzamento della necessità o meno di un’indagine peritale è oggetto di valutazione discrezionale da parte del giudice, che “preferibilmente”, ma non necessariamente, sceglie fra i nominativi iscritti nell’apposito Albo (art. 221 c.p.p.).
Tale necessità deve essere considerata anche nell’ottica delle parti, per le quali la perizia è una garanzia di giudizio tecnico qualificato, nonché di decisione corretta e ponderata da parte dell’autorità. Ciò non significa però che il perito sia un «giudice tecnico» (Enciclopedia del diritto Giuffré 1983: voce “perito”), poiché la perizia, una volta acquisita al procedimento, non ha potere vincolante ai fini della decisione dell’autorità, che la considera alla stregua degli altri elementi probatori, che vengono valutati, utilizzati, oppure non condivisi. In tal senso la perizia è un «mezzo di prova neutro» (Codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza 2001: 592) poiché indipendente dalle parti, le quali dispongono del potere di nomina solo riguardo alla figura del consulente tecnico. Esse hanno infatti facoltà di nominare un consulente tecnico “di parte” che assista alle operazioni del perito, ma non un perito “di parte”.
Per ovvi motivi di imparzialità e di conflitto di interessi, l’art. 222 c.p.p. vieta che l’incarico di perito venga attribuito a chi sia già stato nominato consulente tecnico nell’ambito dello stesso procedimento o di un procedimento connesso. Il conferimento dell’incarico, che avviene tramite ordinanza del giudice (art. 224 c.p.p.), consente al perito di intraprendere gli accertamenti necessari a rispondere per iscritto ai quesiti oggetto della perizia.
Qualora lo ritenga necessario per lo svolgimento della perizia, il perito ha facoltà di chiedere al giudice il permesso di prendere visione degli atti e dei documenti acquisiti al dibattimento, nonché di richiedere informazioni all’imputato, alla persona offesa dal reato o ad altri (art. 228 c.p.p.), fermo restando il vincolo di utilizzare tali notizie ai soli fini dell’accertamento peritale.
Va ricordato ancora che la prestazione dell’ufficio di perito è obbligatoria (art. 221.3 c.p.p.), come peraltro quella dell’interprete (art. 143.4), e il rifiuto dell’incarico (art. 366 c.p.), così come la falsa perizia o interpretazione, sono punibili (art. 373 c.p.).
Infine, il perito, oltre all’obbligo di prestare giuramento, deve attenersi al segreto circa gli atti conosciuti e formati nel corso della perizia (Alimenti 1999).
2.3. Il consulente tecnico
La procedura penale identifica una differenza fondamentale fra perizia e consulenza tecnica: la prima, come detto sopra, è disposta dal giudice, la seconda dalle parti (Enciclopedia del Diritto Garzanti 2001: voce “perito”). Dall’art. 225 c.p.p. emerge infatti chiaramente la caratteristica “di parte” del consulente tecnico, che può essere nominato dal pubblico ministero per integrare le indagini peritali o dalle parti private, a proprie spese, allo scopo di integrare l’attività della difesa. Il giudizio dei consulenti di parte può contrapporsi a quello formulato sulla medesima questione da periti e consulenti del pubblico ministero (Enciclopedia del diritto Giuffré 1983: voce “consulente tecnico”).
Il consulente tecnico è quindi chiamato a prestare la sua opera nel solo interesse della parte che l’ha nominato e pertanto non è tenuto a farsi carico dell’impegno di obiettività, previsto unicamente per i periti (Codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza 2001: 601). Ciò non toglie che il consulente tecnico sia comunque vincolato al rispetto di determinati doveri professionali nei confronti della parte che lo ha nominato. I reati previsti (artt. 380 e 381 c.p.) sono la collusione con la parte avversaria, la prestazione contemporanea del patrocinio o della consulenza a favore di parti contrarie, l’assunzione di patrocinio o consulenza della parte avversaria dopo aver assistito una parte e senza il consenso di quest’ultima.
I consulenti tecnici partecipano all’iter di svolgimento della perizia sin dalla prima fase di formulazione dei quesiti da parte dell’autorità, e anche alle operazioni peritali, con facoltà di proporre al perito indagini, così come di presentare riserve e osservazioni, che devono entrare a far parte della relazione peritale (Enciclopedia del Diritto Garzanti 2001: voce “perito”). Si potrebbe dire pertanto che il consulente tecnico esercita in alcuni casi una vera e propria funzione di “controllo” sull’attività del perito nominato dall’autorità, come regolamentato all’art. 230 c.p.p.
Contrariamente a quanto accade per i periti, non vi sono vincoli normativi riguardo ai tempi di nomina dei consulenti tecnici, che possono essere nominati anche una volta conclusa la perizia. In tal caso i consulenti hanno facoltà di esaminare la relazione peritale, nonché di richiedere al giudice di esaminare la persona, il luogo o l’oggetto della perizia (Enciclopedia del Diritto Garzanti 2001: voce “perito”), al fine di verificare, nell’interesse della parte che li ha nominati, la correttezza e l’affidabilità delle stesse indagini peritali.
2.4. L’interprete: perito o consulente tecnico?
Viste le figure del perito e del consulente tecnico (nominato dal giudice o di parte), è ora possibile valutare in quale misura l’interprete possa esservi accostato, e allo stesso tempo osservare le differenze più manifeste.
Abbiamo osservato nel § 2.2. che il perito viene nominato dal giudice per ovviare a una situazione di disagio dovuta alla necessità di avvalersi di competenze altamente specializzate indispensabili alla valutazione di un fatto che concorre a formare il giudizio. Ora, cosa vi è di più indispensabile della comprensione linguistica di quanto affermato al fine di valutare i fatti? Come potrebbe l’autorità emettere un giudizio sulla base di affermazioni prodotte in una lingua sconosciuta? È il motivo per cui è stato suggerito in passato un accostamento della figura dell’interprete in particolare a quella del perito (Enciclopedia del diritto Giuffré 1983: voce “interprete”), partendo dalla constatazione che l’interpretazione costituisce una rappresentazione di dichiarazioni originariamente prodotte in un linguaggio inintelligibile, ossia che l’interprete rappresenta un fatto – le dichiarazioni altrui – la cui percezione da parte degli altri attori del procedimento passa necessariamente per la mediazione della sua esperienza. Vale a dire che l’interprete è chiamato a svolgere una funzione peritale laddove l’autorità procedente si avvale delle sue competenze linguistiche per la comprensione di quanto affermato dall’imputato o da eventuali testimoni alloglotti. In tal senso, l’autorevole affermazione di Franco Cordero, secondo il quale l’interprete «visto dal giudice assomiglia al perito» (1993: 315), ossia ad un esperto nella materia, appare quindi del tutto condivisibile.
Il Codice di procedura penale assimila le due figure anche per quanto riguarda i presupposti della nomina. Entrambe sono infatti nominate dall’autorità in virtù del loro possesso di conoscenza non comuni, indipendentemente dalle competenze personali e occasionali del giudice e del pubblico ministero (art. 143 c.p.p.). In altre parole l’interprete, in nome del principio del giusto processo, agisce nell’interesse delle parti, e il diritto all’assistenza linguistica non può essere negato in virtù di una particolare «capacità culturale» del giudice, del pubblico ministero o della polizia giudiziaria.
Altri fattori che avvicinano la figura dell’interprete a quella del perito sono: la procedura di nomina e notifica (artt. 143 c.p.p. e 146 c.p.p.; artt. 221.1 c.p.p. e 224.1 c.p.p.), l’obbligatorietà dell’ufficio (artt. 143.4 c.p.p. e 221.3 c.p.p.) – una volta nominato l’interprete diventa infatti pubblico ufficiale a tutti gli effetti –, e le cause di incapacità e incompatibilità (artt. 144 c.p.p. e 145 c.p.p.; art. 222 c.p.p.).
Per quanto riguarda infine il modo in cui deve essere compiuto l’ufficio, l’interprete è, come si è detto, ammonito dall’autorità a svolgere «bene e fedelmente» l’incarico (art. 146.2 c.p.p.), indicazione sulla cui vaghezza ci siamo già soffermati. Allo stesso modo il Codice di procedura penale prevede sanzioni per il perito che svolge «negligentemente» l’ufficio per cui è stato nominato (art. 231 c.p.p.). Da questo punto di vista l’interprete e il perito sono pertanto accomunati anche, e purtroppo, dalla scarsa precisione con cui la legge definisce criteri di valutazione per l’operato di entrambi.
Quanto rilevato finora pare quindi avvalorare un accostamento dell’interprete al perito piuttosto che al consulente tecnico. Questo punto di vista richiede tuttavia alcune precisazioni. È opportuno infatti ricordare che in ambito penale la figura del consulente tecnico appartiene alla campo d’interesse della difesa. Egli è cioè nominato dalle parti tramite i difensori, allo scopo di integrare la loro attività, nonché per assistere alle diverse fasi della perizia, sempre nell’interesse della parte che lo ha nominato. Questo aspetto sembrerebbe quindi avvicinare il consulente tecnico non tanto all’interprete nominato dall’autorità procedente, quanto all’interprete di parte, nominato appunto dalle parti, cui è contrattualmente vincolato. Egli entra così a far parte del collegio della difesa e può perciò essere qualificato come un «difensore tecnico» (Alimenti 1999), rispetto al quale hanno facoltà di nomina tutte le parti che vi hanno interesse, in virtù del diritto di contraddittorio rispetto all’indagine condotta dal perito – nel nostro caso l’interprete – nominato dal giudice (Ibidem). Quale esempio chiarificante possiamo citare a questo proposito i casi di intercettazioni telefoniche che il perito-interprete d’ufficio, nel caso di registrazioni in lingua straniera, è chiamato a trascrivere e tradurre: l’imputato ha facoltà di nominare un consulente tecnico – un interprete di parte – che può formulare osservazioni circa eventuali conversazioni ritenute di particolare importanza per lo svolgimento delle indagini, nonché in vista della strategia difensiva da adottarsi (Codice di procedura penale annotato con la giurisprudenza 2001: 603).
Da un lato, quindi, l’interprete d’ufficio sembra effettivamente assimilabile alla categoria dei periti; dall’altro, l’interprete di parte sembra svolgere un ruolo più simile a quello di un consulente tecnico.
Tornando all’accostamento interprete – perito – consulente tecnico, nonostante vi siano, nell’attuale disciplina, diverse sovrapposizione, non pare lecito affermare che i loro ruoli siano del tutto assimilabili, se non altro perché nell’economia del processo penale essi costituiscono “strumenti” ben distinti. La differenza più palese, confermata anche dalla sistemazione di tali figure all’interno del Codice di procedura penale in vigore, è che l’interpretazione e la traduzione (Libro II, Atti) non costituiscono un’attività relativa alla prova, mentre la perizia (Libro III, Prove) è considerata un mezzo di prova.
Ma di là della normativa vigente, appare evidente che l’interpretazione dovrebbe essere ritenuta, oggettivamente, un’attività altamente specialistica, alla pari di un’attività peritale. Sfortunatamente, e a differenza di quanto avviene in altri Paesi, in Italia lo statuto dell’interprete al tribunale oggi è quello di una figura solo accessoriamente professionale, che non solo non è distinta da quella del traduttore, che a sua volta dovrebbe essere dotata di competenze specifiche, ma neppure dai semplici cultori della lingua, i quali raramente possiedono le abilità e le conoscenze di un professionista.
Conclusione
Sembra che manchi ancora in Italia una generale consapevolezza dell’importanza del ruolo svolto dall’interprete nell’economia di un procedimento penale, divenuto sempre più spesso, nel corso degli ultimi anni, bilingue o persino plurilingue. Questa mancanza di consapevolezza è dimostrata dallo scarso riconoscimento normativo ed economico del ruolo peculiare svolto dall’interprete forense, e solo essa può spiegare la reticenza con la quale si ricorre al servizio di interpreti adeguatamente qualificati. D’altro canto, bisogna ammettere che nella pratica tale ricorso è reso arduo all’autorità giudiziaria che al momento non dispone né di un albo ad hoc che possa garantire la professionalità degli interpreti forensi iscritti, né di chiare indicazioni normative che guidino la sua scelta.
Abbiamo osservato in che misura l’interprete forense possa essere accomunato ora al perito ora al consulente tecnico, e possiamo concludere che, nonostante alcuni importanti tratti comuni, egli non può, oggi, essere completamente associato né all’una né all’altra categoria di ausiliari del giudice.
Appare perciò evidente la necessità di un chiaro riconoscimento normativo della figura dell’interprete forense, del suo ruolo specifico e dei compiti che gli spettano, nonché delle competenze che deve possedere, ben distinte da quelle di un traduttore e di altri ausiliari del giudice. Una via percorribile potrebbe essere la creazione di un apposito albo per interpreti forensi, che presupponga una formazione specifica, sia tecnica che linguistica, come prerequisito indispensabile all’ammissione. Sarebbe utile che l’appartenenza ad un eventuale albo prevedesse il rispetto di un determinato codice deontologico, con clausole valide per tutti gli interpreti attivi in ambito giuridico e da questi unanimemente riconosciuto come punto di riferimento.
L’appartenenza ad un albo ad hoc con criteri di ammissione ben precisi e studiati appositamente per l’interprete forense rappresenterebbe una garanzia per un servizio di buona qualità ed eticamente corretto, e renderebbe più semplice il compito dell’autorità procedente che provvede alla nomina dell’interprete, la quale, come già osservato, potrebbe anche non possedere le competenze necessarie a valutare l’attitudine e di conseguenza l’eleggibilità di un candidato al ruolo di interprete forense. [2]
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Note
[1] Nel presente articolo si fa uso dei termini procedimento e processo. Tali termini non sono utilizzati come sinonimi liberamente interscambiabili, poiché con procedimento si vuole indicare l’iter giudiziario completo che vede coinvolto l’indagato alloglotta, mentre parlando di processo ci si riferisce alla fase del procedimento che si svolge in aula, dove l’imputato non italofono è assistito dall’interprete in presenza del giudice. È infatti l’imputazione, cioè l’accusa formulata all’atto dell’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, a segnare la linea di confine tra il procedimento, che comprende le attività della polizia giudiziaria e del pubblico ministero idonee a formare prove utilizzabili nel corso del dibattimento, e il processo, che ha inizio con la richiesta di rinvio a giudizio o con uno degli introduttivi dei procedimenti speciali (Enciclopedia del Diritto Garzanti 2001: 1020s.). Nonostante la nettezza della distinzione, il termine procedimento si presta anche ad un’utilizzazione di portata più generale (Ibidem), che giustifica l’uso iperonimico che se ne è fatto nel presente articolo.
[2] Ringrazio l’Avv. Andrea Pellicini per l’accurata rilettura di questo articolo e per i suoi preziosi consigli.
©inTRAlinea & Antonella Longhi (2005).
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