La traduction des jeux de mots
Jacqueline Henry (2003)
Presses de la Sorbonne Nouvelle: Paris, pp. 306, € 21
Reviewed by: Fabio Regattin
Succede talvolta che la forma della lingua prenda il sopravvento sulla semplice necessità di comunicare e che i suoni, le possibilità combinatorie, la materialità del segno linguistico diventino un fine in sé e non più un mezzo. In questi casi, in cui il significante sembra assumere un’importanza pari, se non maggiore, a quella del significato, accade che tra i teorici della traduzione si levino numerose le voci di chi invoca l’intraducibilità, attributo che il gioco di parole – regno della reificazione del linguaggio e, per eccellenza, fenomeno dipendente dalla lingua in cui è prodotto – si è visto assegnare di frequente. Forse proprio a causa di questa presunta intraducibilità, unita a una tradizione che vede nel gioco di parole una forma bassa d’uso del linguaggio [1], il campo di studi, peraltro molto ricco, è stato fin ora disertato dai traduttologi (con alcune eccezioni di rilievo: pensiamo per esempio a Dirk Delabastita (1993, 1996, 1997), che però si è concentrato su aspetti puntuali della questione, senza tentarne una trattazione globale). A supplire alla mancanza di un’opera di largo respiro è arrivato recentemente La traduction des jeux de mots di Jacqueline Henry, frutto di una tesi di dottorato conclusa nel 1993, ma pubblicata solo l’anno scorso dalle Presses de la Sorbonne Nouvelle.
Il convincente volume riesce a sfatare il dogma dell’intraducibilità e a dimostrare che il gioco di parole può quasi sempre essere tradotto con efficacia. Il libro è diviso in quattro capitoli, preceduti da una breve introduzione che, oltre a presentare il testo, pone immediatamente alcuni punti fermi. Le prime pagine sono dedicate alla definizione del concetto di “gioco di parole”, termine che, tanto in francese come in italiano, si presta a molteplici interpretazioni. Alla suddivisione classica tra jeux de mots (giochi di parole) e mots d’esprit (motti di spirito) si aggiunge un’altra distinzione, all’interno della prima categoria, tra i jeux avec les mots (giochi con le parole: rebus, cruciverba, sciarade…) e i jeux sur les mots (giochi sulle parole: calembour, anagrammi, contrepèteries…). Effettuata questa suddivisione preliminare, l’autrice annuncia di volersi occupare di “tutte le manipolazioni intenzionali delle parole, che possono riguardare tanto il loro lato fonico quanto quello semico” [2], tralasciando i soli motti di spirito. Il secondo passo di Jacqueline Henry consiste nella rivalutazione del gioco di parole, visto come fenomeno creativo e strumento di scrittura al pari di altri: un’idea opposta a quella tradizionale, che lo reputa invece un artificio linguistico di basso livello. L’introduzione ci presenta inoltre lo scopo dello studio: Henry non vuole fornire al lettore una ricetta universale per la traduzione dei giochi di parole, ma più semplicemente dimostrarne la traducibilità, partendo dall’assunto indiscutibile che il gioco linguistico esiste in ogni lingua e che, per questo, all’interno di ogni lingua è possibile trovare spazi di manovra sufficienti per la sua resa.
Il primo capitolo, che precisa il quadro teorico dello studio, è diviso in due parti distinte: la prima analizza i giochi di parole, la seconda riassume l’approccio traduttivo dell’autrice. Nella prima parte, il gioco di parole è inizialmente esaminato dal punto di vista linguistico. Una panoramica delle classificazioni esistenti (forse troppo rapida, e purtroppo ristretta all’area francese) porta l’autrice a utilizzare (pp. 20-30) la tassonomia, ormai classica, elaborata da Pierre Guiraud (1976: 6-8), che distingue tra giochi di parole par enchaînement (sintagmatici), par substitution (paradigmatici) e par inclusion (categoria che prevede lo spostamento degli elementi linguistici di partenza). Il paragrafo successivo (pp. 31-44) passa all’analisi delle funzioni del gioco di parole. Decisamente eterogeneo, questo segmento riunisce due delle funzioni linguistiche individuate da Roman Jakobson (la metalinguistica e la poetica), l’aspetto comico, il concetto di “risparmio del dispendio psichico” introdotto da Sigmund Freud (1905) e una versione delle teorie basate sull’ambiguità (di cui viene riportata a pag. 42 la distinzione di Tzvetan Todorov tra sens exposé e sens imposé) [3]. Altri aspetti esaminati in questa prima parte del capitolo (pp. 45-63) sono il rapporto tra scritto e orale (per alcuni giochi di parole, in particolare i calembours omonimici o paronimici, la scrittura può essere vista come un fattore disambiguante) e il valore del gioco di parole all’interno di ogni singolo testo (i testi in cui il gioco di parole è un elemento occasionale vengono distinti da quelli in cui il suo ruolo diventa fondante). Nella seconda parte del capitolo è brevemente riassunto l’approccio traduttologico alla base dello studio: si tratta della Teoria interpretativa della traduzione o Teoria del senso, concepita all’ESIT di Parigi da Marianne Lederer e Danica Seleskovitch. Tale teoria si interessa in modo particolare al processo di traduzione, sintetizzandolo in tre diverse fasi: comprensione, deverbalizzazione e riformulazione.
La seconda, prevedendo la trasformazione del messaggio originale in unità di senso per così dire a-linguistiche, risulta molto importante ai fini della resa del gioco di parole, poiché sembra autorizzare il traduttore ad allontanarsi anche di molto dalla lettera del testo da tradurre per riproporne il senso, inteso da Henry come unione indissociabile del contenuto del messaggio e dell’effetto emozionale che questo produce sul proprio ricevente (pp. 66-67). Il secondo capitolo affronta il problema della traducibilità del gioco di parole. Jacqueline Henry passa in rivista una a una le teorie che sostengono l’impossibilità di tradurre il gioco linguistico (pp. 70-84), dimostrando come esse siano basate su una concezione errata del gioco di parole (che considerano dipendente da un accidente linguistico peculiare alla lingua nella quale ha luogo e, pertanto, irriproducibile), o della traduzione (vista come corrispondenza tra termine e termine e non tra testo e testo). Successivamente (pp. 84-96), il problema viene allargato alla presunta intraducibilità di qualunque testo in cui gli elementi formali del codice acquistano valore di per se stessi: in quest’ottica, è presentato un confronto tra gioco di parole e poesia, basato prima sui punti che accomunano i due fenomeni (importanza del significante, scarto rispetto a un ipotetico grado zero della scrittura, reificazione del linguaggio) e quindi sugli aspetti che li differenziano (in primo luogo, la differente portata dell’intenzione estetica e successivamente il tipo di procedimenti formali utilizzati). L’ultima parte del capitolo (pp. 97-110) elenca gli argomenti a favore della traducibilità del gioco di parole (argomenti mediati dalla concezione traduttiva dell’autrice, esposta nel primo capitolo): il traduttore deve lavorare con i testi e non con le parole (è quindi importante estrapolare il progetto dell’opera e riprodurre quello, più che aderire al testo d’origine), la possibilità di reificazione del linguaggio è un fenomeno universale (e pertanto le strutture di ogni lingua offrono spazi di manovra, seppur talvolta limitati).
Il capitolo terzo costituisce il cuore dell’opera. La prima parte (pp. 111-159) presenta una raccolta di giochi di parole puntuali, corredati dalle rispettive traduzioni: la maggior parte del corpus è tratto dall’esperienza di traduttrice di Henry, ma non mancano – e il progetto dell’autrice non può che guadagnarne – esempi, resi efficacemente in francese, ripresi da testi o articoli in cui questi servivano a suffragare la tesi dell’intraducibilità. Le parti successive traggono alcune conclusioni in base a quanto emerge dagli esempi portati nella prima. La seconda (pp. 159-176) presenta gli elementi che possono aiutare il traduttore a trovare un equivalente adatto del gioco di parole originale (struttura della lingua d’arrivo, funzione svolta dal gioco di parole all’interno del testo, contesto del gioco e bagaglio cognitivo del traduttore). La terza parte (pp. 176-192) classifica le possibili strategie di traduzione del gioco di parole, suddividendole in quattro categorie: - traduzione isomorfa: non soltanto riprende lo stesso modello di composizione, ma ripropone anche gli stessi termini dell’originale. Henry porta l’esempio del mot-valise Monumentan, citato da Freud, che può essere reso efficacemente, sia in francese che in italiano, con un calco (monumentané, monumentaneo); - traduzione omomorfa: utilizzo dello stesso procedimento (per esempio, resa di un anagramma con un anagramma, di un calembour con un calembour, eccetera), basato però su elementi formali diversi; - traduzione eteromorfa: resa di un gioco di parole con un gioco di parole che utilizzi un procedimento diverso. L’autrice porta l’esempio della traduzione del titolo Metamagical Themas (anagramma di Mathematical Games) di Douglas Hofstadter, reso in francese con il calembour omofonico – e neologistico – Ma thémagie. - traduzione libera [4]: comprende tutte le altre possibili soluzioni, dall’ellissi del gioco di parole dell’originale fino alla sua creazione ex-novo in un punto in cui il testo di partenza ne è sprovvisto. Dall’approccio dell’autrice emerge un fatto che può essere considerato allo stesso tempo un limite e un vantaggio: abbiamo visto che le traduzioni presentate sono in buona parte frutto dell’esperienza della stessa Jacqueline Henry. Da un lato, questo le permette di parlare dei fenomeni analizzati con maggior cognizione di causa; dall’altro, questa autoreferenzialità, che non sembra salvare molto nell’attuale panorama della traduzione del gioco di parole, può indurre il lettore a ritenere che questa sia una pratica elitaria, riservata ai pochi eletti in grado di penetrare adeguatamente le intenzioni dell'autore. Una visione che contrasta con il proposito stesso di Henry, interessata a dimostrare – è bene ricordarlo – che il gioco di parole si può tradurre.
L’ultimo capitolo è dedicato alla resa dei testi di cui il gioco di parole costituisce l’aspetto fondante. La scelta di tradurre in francese alcuni testi di Achille Campanile (riprodotti, con le loro traduzioni, alle pp. 193-219) [5], integralmente basati su calembours omonimici, conduce l’autrice ad ampliare la definizione stessa di traduzione. Per farlo, Henry decide di ricorrere al concetto spesso denigrato di adattamento. L’autrice riscopre (p. 220) [6], l’accezione darwiniana del termine: l’adattamento è visto come un processo di modificazione che si traduce in un adeguamento, causato da condizioni imposte dall’ambiente circostante (e si vede facilmente come una di queste “condizioni imposte” possa essere la natura fondante del gioco di parole nei testi che l’autrice prende in considerazione). La soluzione – piuttosto facile, in realtà – a cui approda Henry si basa su una questione di gradazione: poiché una resa interlinguistica perfettamente letterale è impossibile (la traduzione sarebbe in questo caso unicamente una transcodifica), qualunque traduzione è, in una certa misura, un adattamento: la differenza tra i vari approcci possibili sarebbe quindi una questione di grado e non dipenderebbe dall’utilizzo di strategie differenti. Nonostante la compiuta riabilitazione della nozione di adattamento, l’autrice, conscia dell’unicità dell’operazione svolta nella sua resa dei testi di Campanile, cerca un nuovo nome per la strategia utilizzata (pp. 232-247), esplorando diverse strade terminologiche, che vanno da termini neutri quali “testo francese”, “versione francese” o “trasposizione” a definizioni che privilegiano l’intertestualità (parodia, pastiche) o la creatività (ricreazione) [7]. La scelta dell’autrice cade infine sull’iperonimo “ricreazione” (recréation), a cui vanno aggiunte definizioni ulteriori, di volta in volta variabili, quali parodia (parodie) o forgerie [8].
Una breve conclusione riassume quanto detto, proponendo in breve alcune possibili linee guida per la ricerca futura (per esempio, studi sulla traduzione del gioco di parole per coppie di lingue specifiche, oppure sulla resa di alcuni giochi di parole specifici – l’autrice cita a questo proposito i calembours onomastici). Un paio di critiche vanno mosse alla bibliografia, divisa in quattro parti (Giochi di parole, Linguistica e poetica, Traduttologia, Fonti degli esempi), che chiude il volume: sappiamo che la tesi di Henry è stata discussa nel 1993, ma si poteva pensare a un suo aggiornamento, almeno parziale – paradossalmente, l’aggiornamento c’è, ma riguarda solamente le opere dell’autrice (l’ultima segnalata è del 2002, mentre il resto della bibliografia non va oltre il 1997); anche nella scelta bibliografica dobbiamo poi imputare a Jacqueline Henry un certo regionalismo, che la porta a tralasciare quasi completamente tutta la ricerca effettuata al di fuori dei paesi francofoni (in tutta l’area anglosassone, per esempio, gli Humor Studies sono un campo di studi molto prolifico, che ha prodotto molto anche sul gioco di parole). Utile, per chi si avvicina per la prima volta al gioco di parole o alla teoria della traduzione, il breve glossario che chiude il volume.
Bibliografia
Attardo (1994): Salvatore Attardo, Linguistic Theories of Humor, Berlin-New York: Mouton-De Gruyter.
Bastin (1990): Georges Louis Bastin, La notion d’adaptation en traduction, Paris: tesi di dottorato non pubblicata.
Campanile (1973): Achille Campanile, Manuale di conversazione, Milano: Rizzoli.
Delabastita (1993): Dirk Delabastita, There’s a Double Tongue: an Investigation into the Translation of Shakespeare’s Wordplay with Special Reference to Hamlet, Amsterdam: Rodopi.
Delabastita (1996): Dirk Delabastita (ed.), The Translator, vol. 2, n. 2. Special Issue: Wordplay & Translation, Manchester: St. Jerome Publishing.
Delabastita (1997): Dirk Delabastita (ed.), Traductio: Essays on Punning and Translation, Manchester – Namur: St. Jerome Publishing, Presses Universitaires de Namur.
Freud (1905): Sigmund Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (tr. it. di S.Giammetta), Milano: Rizzoli. Genette (1982): Gérard Genette, Palinsesti (tr. it. di R. Novità), Torino: Einaudi. Guiraud (1976): Pierre Guiraud, Les jeux de mots, Paris, Presses Universitaires de France.
Note
[1] Di questo parla, per esempio, Guiraud (1976), alle pp. 101-104.
[2] Pag. 10: “[cette étude] concerne toutes les manipulations intentionnelles des mots, qu’elles portent sur leur face phonique ou sémique“.
[3] Ancora una volta, vengono ignorati i contributi non francesi alla questione – pensiamo almeno a Salvatore Attardo (1994) che sintetizza i numerosi scritti che, da Greimas in poi, sono stati dedicati all’argomento.
[4] Nostro calco delle espressioni Traduction isomorphe, homomorphe, hétéromorphe, libre (pagg. 176-187).
[5] Si tratta dei testi “La quercia del Tasso” e “La rivolta delle sette”, tratti da Campanile (1973).
[6] Sulla scia della tesi di dottorato non pubblicata di Georges Louis Bastin (1990).
[7] I termini originali sono rispettivamente texte français, version française, transposition, parodie, pastiche e recréation.
[8] Concetti che Jacqueline Henry riprende da Gérard Genette (1982).
©inTRAlinea & Fabio Regattin (2004).
[Review] "La traduction des jeux de mots", inTRAlinea
Vol. 7
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