“Il traduttore a chi legge”
La fenomenologia della prefazione alle traduzioni italiane del Settecento
By Sabine Schwarze (Universität Augsburg, Germany)
Abstract
English:
The focus of this article will be the prefaces to Italian translations in the Eighteenth century and in particular their contribution to the evolution of translation theory. It was in the Eighteenth century (Italy included) that scholars began to adopt a more agile and essential style of writing in order to cater for an increasingly vast and varied reading public. Based on a selection of examples, this article seeks to demonstrate the significant role that prefaces played in the transition towards new discursive traditions and new text genres.
Italian:
Al centro del contributo staranno le prefazioni alle traduzioni italiane nel Settecento e in particolare il loro contributo all’evoluzione della traduttologia. È proprio nel Settecento che (anche in Italia) la scrittura scientifica comincia ad orientarsi verso forme più agili ed essenziali per rispondere alle esigenze di un pubblico sempre più vasto e variegato. Sulla base di esempi rappresentativi si dimostrerà l’apporto notevole che ebbero le prefazioni, in una fase transitoria, nel processo della formazione di nuove tradizioni discorsive, e cioè di nuovi generi testuali.
Keywords: paratesti, prefazioni, traduttologia, tradizioni discorsive, paratexts, translation theory, discursive traditions
©inTRAlinea & Sabine Schwarze (2020).
"“Il traduttore a chi legge” La fenomenologia della prefazione alle traduzioni italiane del Settecento"
inTRAlinea Special Issue: La traduzione e i suoi paratesti
Edited by: Gabriella Catalano & Nicoletta Marcialis
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1. Aspetti tipologici della prefazione e traduttologia storica
Bücher ohne Vorrede in die Welt zu schicken, oder laufen zu lassen ist [...] ein höchst unerlaubtes und grausames Verfahren der Schriftsteller gegen ihrer Hände Arbeit. Denn ist es nicht grausam etwas, das gewissermaßen die Natur den Büchern nicht bloß zur Zierde, sondern auch zum Mückenwehren beigelegt hat, grade herunterzuschneiden […]?[1] (Zum Parakletor. Der Fliegenwedel oder die Vorrede des Herausgebers, Lichtenberg 1899: 68).
Lo scrittore e fisico tedesco Georg Christoph Lichtenberg (1742-1799), noto anche in Italia per i suoi aforismi, osservazioni e pensieri (cf. Lichtenberg 1975), distingue due funzioni essenziali della prefazione, da lui considerata un elemento costitutivo della struttura libresca “naturale”: la funzione estetica ornamentale (Zierde) e la difesa del proprio lavoro contro le “punture” dei critici, paragonati alle zanzare (Mückenwehren). L’autore fa riferimento a una tradizione letteraria che prevede, nell’apparato paratestuale, la difesa esplicita dei valori del testo sottoposto all’attenzione del pubblico.
La funzione della prefazione nel mondo libresco settecentesco è anche oggetto di una lettera anteposta alla sua traduzione di Corneille dal torinese Giuseppe Baretti (1719-1789), noto come conoscitore del mondo anglofono e traduttore di testi francesi e inglesi. L’autore polemizza contro l’usanza di riempire la prefazione con citazioni latine e greche, riferimenti ad autori e traduttori precedenti, elementi solitamente considerati come prove dell’erudizione dello scrivente:
Or come volete voi ch’e’ faccia una prefazione che meriti quel bel nome di erudita? Sapete pure che a nessuna scrittura si dà, che non sia piena zeppa di latino e se non si vedono almeno almeno due o tre citazioni greche per ogni pagina. Io vedo bene ch’io mi potre’ aiutare con de’ libri italiani e francesi, e qualche bel motto latino mi darebbe anche il cuore di cavarnelo fuori, e così fare un buonissimo pasticcio de’ pensieri e delle opinioni rapite altrui; ma, domine, io non sono fatto a questa foggia. E poi chi sa s’io sare’ uomo da sottoscrivermi sotto gli altri e stare a detta? [...] (Giuseppe Baretti 1911: 33).
Con l’immagine della prefazione come “pasticcio de’ pensieri e delle opinioni rapite altrui” Baretti indica quindi una terza funzione ad essa comunemente assegnata nel Settecento.
Una ricerca che, come la nostra, verte sulla variazione funzionale della prefazione deve certo prendere in considerazione l’apporto del dibattito post-strutturalistico sulla dialogicità testuale e in particolare la prospettiva pragmatica allo studio dell’istanza prefativa apertasi con la tipologia dei “dintorni del testo” elaborata da Gerard Genette[2]. I tipi fondamentali dell’istanza prefativa – “essenzialmente determinati da considerazioni di luogo, di momento e di natura del destinatore” - sarebbero sei: la prefazione autoriale originale, la postfazione autoriale originale, la prefazione o postfazione autoriale ulteriore, la prefazione o postfazione autoriale tardiva, la prefazione allografa (e attoriale) autentica e la prefazione finzionale (Genette 1989: 193). L’autore sottolinea il carattere del tutto operativo di tale tipologia, precisando che “le distinzioni funzionali sono di natura meno rigorose e meno rigide delle altre: la data, l’ubicazione, il destinatore di una prefazione possono generalmente venir determinate in modo semplice e sicuro, mentre il suo funzionamento spesso dipende dall’interpretazione, e molte delle funzioni possono qua e là oscillare da un tipo a un altro” (Genette 1989: 194).
La nostra ricerca riguarda gli elementi di una teoria esplicita della traduzione (cf. Koller 1992) che si possono ricavare dalle prefazioni a traduzioni settecentesche in italiano con l’obiettivo di rendere trasparente il loro contributo alla traduttologia storica[3]. Sin dal Medioevo i luoghi preferiti per il ragionamento teorico erano giustamente i paratesti, e cioè la prefazione, la postfazione e le note. Dal secolo XVI in poi nasce e si consolida con il trattato teorico – non più necessariamente collegato ad una traduzione particolare e quindi anche staccato dalla pratica del tradurre – una nuova tradizione discorsiva, un vero e proprio genere testuale dedicato alla teoria[4]. Come si dimostrerà in seguito, si tratta di un processo in cui le prefazioni formano una specie di zona transitoria verso il trattato, per quanto ospitano spesso brani di riflessione teorica che superano la consueta dimensione di una prefazione.
2. Peculiarità tematiche e strutturali della prefazione a traduzioni nel Settecento italiano
La prefazione settecentesca segue certo un modello testuale ben stabilito nella tradizione letteraria che prende spunto dalla prefatio della retorica classica. Da parte del traduttore prevede, ad esempio, l’elogio del testo originale e la dichiarazione della propria “incapacità” di raggiungere un risultato soddisfacente, una strategia applicata in realtà per ottenere il giusto contrario, vale a dire allontanare le possibili critiche oppure, con le parole di Lichtenberg, l’effetto “scacciamosche”. Ciononostante la prefazione diventa non di rado un luogo di ragionamenti più o meno estesi su argomenti di carattere metodologico oppure linguistico riguardo alla traduzione, ma anche su argomenti centrali del dibattito intellettuale accesosi nel secolo dei Lumi intorno alle attività di traduzione[5]. Cercheremo in seguito di illustrare, sulla base di alcuni esempi rappresentativi, come si colloca la riflessione teorica nelle prefazioni e quali sono i fili tematici ricorrenti del ragionamento dei traduttori. Per raggiungere l’obiettivo conviene distinguere i vari ambiti della traduzione settecentesca italiana, quello delle traduzioni dalle lingue classiche (greco e latino) e quello delle traduzioni dei testi contemporanei dalle lingue moderne[6].
3. Prefazioni a traduzioni di testi classici
Nel dibattito linguistico del primo Settecento, la traduzione dei classici si rivela un campo non ancora conquistato dai francesi in una lotta spietata per l’egemonia linguistico-culturale in Europa. In tale funzione la traduzione diventa una “bandiera dell’italianità”[7]. Le prefazioni alle numerose traduzioni italiane di testi greci e latini accolgono spesso un discorso argomentativo centrato sul topos del ‘genio della lingua’ per dimostrare la superiorità della lingua italiana.
Un esempio significativo è offerto da un’opera di Scipione Maffei (1675-1755), uno dei più importanti personaggi ad aver animato la vita intellettuale e l’attività traduttoria nella Verona del XVIII secolo[8], strutturata in varie sezioni che riuniscono ragionamento teorico e pratica della traduzione. Il collegamento delle tre sezioni testuali[9], apparentemente indipendenti l’una dall’altra, è reso esplicito nella prefazione in forma di una lettera dedicatoria alla Contessa Adelaide Felice Canossa Tering di Seefield (Maffei 1720: 3-20). La destinataria rappresenta un pubblico contemporaneo sempre più incline a preferire le traduzioni francesi dei classici a quelle italiane perché apparentemente più appropriate al gusto del lettore contemporaneo. Maffei ritiene perciò necessario dimostrare per via di un catalogo che raccoglie le traduzioni italiane di ben 164 autori di lingua greca e latina di età antica e tardo-antica che “gl’Italiani aveano forse tradotto prima, più, e meglio d’ogn’ altra nazione” (Maffei 1720: 6). Al posto di un giudizio estetico-qualitativo di ciascuna traduzione segnalata nel catalogo (“che troppo lunga faccenda sarebbe stata, e nojosa”), Maffei evoca il vantaggio che avrebbe invece la premessa di “un assai diffuso Trattato di tradurre” (Maffei 1720: 11). Senza procedere all’attuazione dettagliata di tale progetto, vengono abbozzati i principali argomenti ritenuti dall’autore necessari per analizzare e confrontare “il genio e la forza” delle due lingue, fra cui verificare se si possano trasportare “il periodo, le figure, le trasposizioni, la strettezza del dire”; se le voci composte possano imitarsi; se si possano rendere superlativi e diminutivi oppure se la varietà dei modi di dire, delle figure sia stata riprodotta[10]. Per quanto riguarda il metodo di tradurre Maffei riconosce un “quasi doppio genio, che corre nel tradurre” che starebbe alla base della diversa qualità raggiunta da traduttori francesi e italiani nel tradurre i testi classici. La superiorità del metodo italiano starebbe giustamente nel “non solamente […] rappresentare fedelmente i concetti, ma le parole ancora, e la misura, e l’aria del dire, e l’indole del suo Autore” che debba anteporsi “poiché dalla fedeltà, dall’inerenza, e dall’esattezza trae suo pregio più essenziale un interprete; e chi fa una traslazione non par che debba studiarsi di lavorare una bella figura, ma un bel ritratto” (Maffei 1720: 14). Mentre il genio della lingua italiana avrebbe permesso ai traduttori la massima fedeltà, i francesi avrebbero potuto rendere soltanto un’idea superficiale dell’originale (cioè una “figura”).
Il concetto di traduzione fondata sul criterio dell’inerenza fu ripreso con entusiasmo da due discepoli di Maffei, Girolamo Pompei e Giuseppe Torelli che crearono una vera e propria scuola di traduzione fondata su quel principio[11]. Il primo affronta la sfida del suo maestro e s’inserisce nel dibatto sul tradurre i classici con un testo di trenta pagine, pubblicato indipendentemente da una particolare traduzione, il trattato teorico Dell’imitazione degli antichi scrittori (Pompei 1741). Trent’anni dopo riprende il filo che lo lega alla teoria coniata da Maffei nella “Prefazione” alla traduzione delle Vite di Plutarco (1772) che rappresenta un altro esempio di prefazione con ambizione teorica. Ne riporto solo un brano, citato dalla seconda edizione 1791:
Ora intorno alla maniera tenuta da me nel tradurre, ho io procurato di non discostarmi dall’opinione di quelli che voglion’esatta inerenza la quale inerenza per altro trattandosi di cose istoriche, credo che abbia ad intendersi discretamente. Il non essere inerente a puntino intorno alla precisa relazione de fatti, e intorno a sentimenti, sarebbe in un traduttore vizio non tollerabile, pregiudicata restandone allor la sostanza: ma il voler sempre esserlo anche intorno alle parole, dove consiste la semplice forma, sarebbe uno scrupoleggiare di troppo, e un prender si briga vana, e talvolta pure nociva: perocchè ciò produce spesse fiate quell’arido e quello stentato che sì duro e spiacevole riesce a chi legge; e non di rado apporta altresì oscurità, della quale io mi son per natura così nemico, che amo aver piuppresto negli scritti miei qualunque altro difetto (Pompei 1791: VII).
Anche Giuseppe Torelli segue le orme di Maffei e pubblica la propria versione dell’Eneide con una prefazione dedicatoria in cui include un ragionamento teorico. Si tratta di un approfondimento metodico di matrice chiaramente maffeiana in quanto propone un confronto del “tradurre inerendo sempre al testo” (Torelli 1746: 8) con i risultati, ritenuti inferiori, di altre traduzioni. Risulta particolarmente ampio il confronto dell’Illiade di Maffei con la traduzione proposta da Anton Maria Salvini, altro famoso traduttore dal greco, coetaneo di Maffei e forse più riconosciuto come classicista (Torelli 1746: 12-26). L’analisi si fonda su aspetti metrici, stilistici e linguistici (come il trattamento dei versi formulari e degli epiteti composti) per dimostrare su esempi concreti che “essere con tutto ciò molto più inerente, e molto più fedele la versione del Marchese Maffei” (Torelli 1746: 13).
Va aggiunto che lo stesso Salvini, nella prefazione alla sua traduzione delle Opere di Omero del 1723 (qui citata dalla seconda edizione del 1742), inserisce un ragionamento metodologico sul tradurre basato sul genio della lingua italiana (in particolare sulla sua flessibilità sintattica) in confronto con quello del francese, tanto lodato per la sua “precisità”:
Vero è, che e la lingua Franzese per la sua delicatezza e precisità, e per alcune sue frasi, per dir così, consacrate, non può gran fatto tenere il filo delle parole dell’originale: e la Latina lingua, della stessa maniera, per essere lingua fraseggiante, anzi che nò, e per avere, dirò così, un turno particolare, è necessitata a dilungarsi non poco dalla semplicità e dalla naturalezza dell’originale medesimo. Ma la nostra Italiana, e Toscana, e volgar lingua, comunque uno ami nominarla, è come cera, cedente ad ogni figura, che in lei si piaccia d’imprimere: ne viene in somma, come un vuole […] (Anton Maria Salvini 1742: s.p.).
Salvini dimostra una profonda conoscenza del dibattito teorico finora avvenuto non solo in Italia, con riferimenti a Cicerone, San Girolamo, Huet e all’Abate Regnier, citando anche le rispettive prefazioni. L’elenco dei parametri che determina la strategia della traduzione (il carattere del pubblico, dell’autore, il genere testuale ecc.) è dominato dal genio della lingua che, nel caso dell’italiano, avrebbe perfino permesso di compensare le “deboli forze” del traduttore.
Ciononostante nel secondo Settecento, quando con la differenziazione della letteratura amena dalla letteratura filosofica e scientifica aumenta anche la percezione della variazione interna e cronologica delle singole lingue, si fa sempre più strada l’idea di dover applicare strategie traduttive diverse a testi tipologicamente distinti l’uno dall’altro. Prima di implementarsi negli scritti meramente teorici, il ragionamento sulla necessità di applicare metodi diversi nel tradurre i classici in dipendenza dallo scopo che intende raggiungere il traduttore si sviluppa nelle prefazioni. Diventa un argomento nelle prefazioni anteposte alle tre traduzioni italiane dell’Iliade che propone Melchiorre Cesarotti (1730-1808). Due traduzioni – il Volgarizzamento letterale in prosa e L’Illiade recata poeticamente in verso sciolto italiano (1786-1794) – sono pubblicate in parallelo per dimostrare che due metodi diversi siano appropriati ad obiettivi diversi. Il Ragionamento storico-critico, che comprende ben 235 pagine, presenta una panoramica generale della recezione di Omero in epoche diverse, in cui il traduttore inserisce, sparso su tutte le sezioni, il suo ragionamento teorico metodologico. A problemi di traduzione è anche dedicata una trentina di note. Riporto in seguito un brano significativo per l’approccio innovativo per affrontare il problema del pubblico ormai differenziato cui sono indirizzate le traduzioni nella seconda metà del secolo XVIII:
Per fare gustare un originale straniero la traduzione dee esser libera, per farlo conoscere con precisione è necessario ch’ella sia scrupolosamente fedele. Ora la fedeltà esclude la grazia, la libertà l’esattezza... Perciò sembra pensarla meglio chi prende francamente il suo partito e si risolve di essere o poeta o emulo del suo originale o puro copista e grammatico [...] Il Copista serve all’erudizione, e l’emulo alla poesia, quello ci dà la figura dell’Originale, e questo l’anima e il genio (Cesarotti 1786: 210).
Alla terza traduzione, pubblicata nel 1795 con il doppio titolo L’Illiade o la Morte di Ettore, Cesarotti antepone, invece, un “Avvertimento preliminare” di poche pagine che segue la matrice tradizionale di “scacciamosche”. Ciò è senz’altro dovuto al fatto che il traduttore è ben cosciente della polemica che avrebbe suscitato “L’Iliade italiana” presso un pubblico di lettori orgogliosi della lunga tradizione italiana di ottime traduzioni “fedeli” dei greci e latini. Cito un estratto:
Veggendo adunque che i cangiamenti già fatti rendevano il mio lavoro un non so che mezzo fra l’originale e la traduzione, e certo che le mie colpe passate erano più che bastanti per tirarmi addosso gli anatemi degli Omerolatri e dei Fedelisti, presi francamente il mio partito, e risolsi di compire appieno quell’esemplare dell’Iliade ch’io m’ero già formato in mente (Cesarotti 1795: IX).
Per concludere l’esemplificazione del ragionamento teorico ambientato nelle prefazioni a traduzioni di testi classici riporto ancora una prefazione allografa premessa da Girolamo Carli (1745, “A chi legge”, 33 pagine) alla traduzione delle Elegie scelte di Tibullo, Properzio, ed Albinovano, tradotte in terza rima da Oresbio Agieo. Si tratta probabilmente di una delle prime testimonianze per la recezione in Italia di un approccio storico e non più statico all’interpretazione dell’evoluzione delle lingue. Cito due brani in cui Carli applica la teoria delle idee accessorie che creano il bagaglio storico culturale portato avanti nel significato delle parole al ragionamento sulla traducibilità dei testi di epoca antica.
La nobiltà, o bassezza di un termine non deriva dal significato, ma dall’idee che inoltre vi applica il popolo nel udirlo e che perciò dai Dialettici si chiamano idee accessorie. ‘Carnifice’ e ‘boia’ hanno lo stesso significato ma per l’idea accessoria il primo termine è nobile, e l’altro è basso (Carli 1745: XXXI).
[leggere …quegli Autori], non lo facciamo per esaminar se scrive bene, o male, ma ci accordiamo con un’anticipata credenza, che egli di sicuro scrive bene. … Come possiamo aver sicura certezza, che alcuna locuzione da loro [i greci] usata sia bassa, o non bene espressiva? (Carli 1745: XXXII-XXXIII)
4. Le prefazioni a traduzioni di testi contemporanei
Passiamo alle traduzioni di testi contemporanei che devono confrontarsi con problemi metodologici non del tutto simili. Il successo della lingua e della cultura francese animava in Italia non solo l’edizione di opere nella lingua originale, ma anche l’attività traduttoria. Se l’espansione del francese come lingua di cultura e di comunicazione porta alla sua egemonia e aumenta notevolmente l’edizione di opere francesi in originale e, nondimeno, l’attività traduttoria, ciò non significa che le altre lingue di qualche rilevanza europea siano escluse dalla comunicazione. In Italia “l’anglomania”, concepita come conseguenza oppure come “correttivo della gallomania” (Graf 1911: 33), stimola anche le traduzioni dall’inglese. Si tratta tuttavia di un’impresa che trova ostacoli nella scarsa competenza linguistica degli italiani, che spesso ricorrono a una traduzione intermedia francese. In tali casi, il ragionamento teorico metodologico non sempre deve (o può) confrontarsi con la lingua originale.
A scopo di esempio per elementi di una riflessione teorica metodologica che si riscontrano nelle prefazioni a traduzioni di testi contemporanei, abbiamo scelto le prefazioni anteposte da Lodovico Antonio Loschi (1744-1811) a due traduzioni eseguite sulla base di originali francesi ambientati in sfere discorsive diverse[12]. La “Prefazione del Traduttore” precede una “traduzione libera” delle Notti del Young (Loschi 1774), un testo poetico che ebbe una notevole fama nel Settecento. Una “Prefazione del Volgarizzatore” è anteposta invece alla traduzione del Segretario di Philipon de la Madelaine (Loschi 1787). La distinzione terminologica fra traduttore e volgarizzatore merita un certo interesse per quanto modifica la terminologia coniata già nel Medioevo. Tradizionalmente volgarizzare era inteso come nozione “verticale” (trasportare un testo da lingue tipologicamente e culturalmente distanti, come il greco o l’arabo, nelle lingue volgari). Tradurre (trasporre) si applicava invece al trasferimento “orizzontale” fra lingue volgari moderne, romanze o germaniche (cf. Folena 1994: 78). Loschi ridefinisce i due termini. Nel ruolo di “traduttore italiano” si concede più libertà rispetto all’originale e non prevede di arricchire la propria lingua:
Non ho intitolato questo mio lavoro né Parafrasi, né Imitazione, ma sì Traduzione, perché realmente è tale; e l’ho chiamata libera, perché oltre la integrità del testo, della quale sono stato gelosissimo custode, ho fatto certe aggiunte, di cui il Pubblico giudicherà. […] mio intendimento è stato di offrire alla nostra gioventù un libro di eloquenza accomodato al Tempio, al Foro, ed all’Accademia, ma che nondimeno conservi l’original suo carattere di poesia (Loschi [1774] 1830: III).
Nelle vesti del “volgarizzatore” Loschi sottintende il tenersi più scrupolosamente alle strutture del testo originale con l’idea di un possibile arricchimento dell’italiano:
[…] volgarizzando il Segretario Perfetto […] l’ho fatto col principale intendimento de servire al comodo di chi voglia, confrontando la versione col testo, esercitarsi nello studio di sì grazioso idioma forestiero, e nel tempo stesso affine di provvedere all’uopo di chiunque cerchi una retta norma in cotesto genere di scrivere (Loschi 1787: VII).
Tale scelta terminologica non è, infatti, dovuta alla diversità della lingua dei rispettivi originali ma ad ambiti discorsivi che, nel Settecento italiano, non vantavano una tradizione di ugual prestigio. In ambedue i casi la base per la traduzione è un testo francese perché, nel tradurre il Young, Loschi si era dovuto basare sulla traduzione intermedia francese del Tourneur. Quest’ultima diventa oggetto di critica rivolta meno all’incapacità del traduttore che non all’incapacità poetica della lingua francese, ciò che stimola il traduttore a prendere delle licenze a scopo di “migliorare” il testo:
[…] non potendo io consultare l’originale e raffazzonarlo a modo mio, ho dovuto adottar ciecamente la divisione fatta dal Traduttor francese di nove Notti in ventiquattro, e lasciar tra i rifiuti letterarj certi squarci di quelle da lui chiamate impropriamente con titolo di Note, quantunque nella nostra favella diano mirabil suono, poiché dessa è una lingua assai varia e più copiosa (Loschi [1774] 1830: V).
Nel caso del Segretario si tratta invece di un ambito testuale per il quale Loschi non nega la superiorità dei francesi:
Si grande è in Francia il numero degli scrittori epistolari, che la loro collezione formerebbe una biblioteca; ed in Italia all’incontro è sì picciolo, che ancora dopo dugento e più anni si fa ristampare le lettere del Commendatore Annibal Caro, eccellenti per la purità delle voci e delle frasi Toscane, ma inutili, se non dannose eziando, per la indole, d’allora in poi affatto cambiata, dello stile famigliare, che più d’ogni altro modificar suolsi dal vegliante uso delle varie età, non che de’ secoli diversi (Loschi 1787: V).
A seconda dell’ambito testuale, la valutazione della lingua francese è negativa quando riguarda l’espressività poetica:
Non sapendo io nulla dell’idioma inglese, m’è stato giuocoforza l’attenermi passo passo alla traduzion francese del Signor le Tourneur, sebbene di mala voglia; perocchè a più manifesti indizj si comprende, che l’anima di lui di gran lunga non si accosta all’unisono con quello dell’Autore. […] Chiamano i francesi la lingua loro vereconda e casta, ed io la chiamerei più volentieri timida, spigolistra, e poco favorevole alla espressione del bello, del nuovo, e del grande (Loschi [1774] 1830: V).
Diventa invece positiva quando si tratta (come negli epistolari) di esprimersi con spontaneità e in modo più informale, modello che il Loschi decide di seguire con accuratezza: “[collezione di lettere Francesi … Manuale Epistolare] dobbiamo noi per la verità confessare che questo è forse l’unico ramo di letteratura, in cui sieno gli scrittori d’oltremontani senza verun sconcio imitabili dai nostri” (Loschi 1787: VIII).
A differenza dal ragionamento teorico metodologico intenso ambientato nei paratesti a traduzioni classici, l’apporto teorico delle prefazioni a testi contemporanei si rivela decisamente più modesto e ristretto. Ciononostante si tratta di elementi della traduttologia storica da non sottovalutare.
5. Dal paratesto al trattato teorico: evoluzione tematica e testuale del discorso teorico sulla traduzione
Riportiamo in conclusione alcuni fili di discussione che derivano da ciò che abbiamo potuto ricavare al livello teorico metodologico nelle prefazioni analizzate. Un discorso (non nuovo) riguarda la discussione sulla competenza linguistica e disciplinare dell’autore originale e sull’autonomia del traduttore. Spesso considerata come prodotto culturale autonomo rispetto all’opera originale, la traduzione diventa oggetto di riflessione sul processo traduttivo e sul risultato ottenuto. Per molto tempo, tale riflessione tocca due argomenti principali – la capacità e la modalità di trasmissione dall’idioma di partenza all’idioma d’arrivo senza perdite estetico-culturali e/o concettuali e la possibilità di contribuire con l’aiuto della traduzione al processo di evoluzione della lingua d’arrivo. Come risultato del confronto con i testi di epoche lontani comincia a consolidarsi non solo la distinzione delle lingue in dipendenza da un carattere (genio) a loro proprio, ma si fa anche strada l’idea che il linguaggio umano abbia carattere storico e quindi non sia immutabile col tempo. L’argomento della traduzione svolge anche un ruolo di rilievo nelle grandi controversie intellettuali del secolo XVIII e diventa oggetto dei dibatti intorno alla (ormai secolare) questione della lingua che, nel Settecento, si alimenta in particolare della polemica intorno alla presunta “universalità del francese come lingua europea”. Nella seconda metà del Settecento comincia a prendere forma una distinzione dei metodi di tradurre che rispondono a generi testuali diversi. Una vera e propria tipologia metodologica del tradurre basata sulla distinzione della traduzione letteraria (dei classici o dei moderni) dalla traduzione di testi filosofici e/o scientifici sfocia invece più tardi quando si consolida il trattato teorico indipendente come luogo del ragionamento approfondito sul tradurre[13].
La situazione sviluppatasi nel Settecento permette di riprendere i fondamenti già istauratasi nel Cinquecento quando il ragionamento sul processo del tradurre, tradizionalmente ambientato negli accompagnatori delle singole traduzioni, trova spazio anche in forme testuali indipendenti dall’attività pratica. Quando l’attività di traduzione conosce una ripresa paragonabile a quella del XVI secolo la “summa del vivace dibattito sulla traduzione che percorre tutto il secolo” (per riprendere una citazione di Gatta, 2011: 41) trova spazio innanzitutto nell’istanza prefativa delle singole traduzioni (cf. Maffei 1720, Carli 1745, Cesarotti 1786), ma in alcuni casi anche in trattati indipendenti (cf. Pompei 1741). Dallo studio sincronico della situazione settecentesca emerge quindi un repertorio testuale storicamente determinato che abbiamo tentato di schematizzare nella tabella 1.
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Paratesti delle traduzioni |
Trattati sull’operazione del tradurre [indipendenti] |
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Genere testuale |
Prefazione |
Trattato teorico |
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Denominazioni |
Prefazione (del traduttore) |
Dissertazione, Saggio, Ragionamento |
Ragionamento (accademico, storico-critico) |
Focus
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Informazione |
Inquadramento razionale |
Inquadramento razionale |
Matrice cognitiva |
Informazione |
Analisi |
Analisi |
Tabella 1. Il repertorio testuale del discorso sulla traduzione nel Settecento italiano
Bibliografia
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––––– (1787) “Prefazione del Volgarizzatore”, in Il segretario perfetto ovvero modelli di lettere di vario argomento di Philipon de la Madelaine, Venezia, Antonio Canziani: V-XV.
Maffei, Scipione (1720) Traduttori italiani o sia notizia de’ volgarizzamenti d’antichi scrittori Latini e Greci che sono in luce, aggiunto il volgarizzamento d’alcune insigni iscrizioni greche e la notizia del nuovo museo d’iscrizioni in Verona col paragone fra le iscrizioni, e le medaglie, Venezia, Sebastian Coleti.
Marchi, Gian Paolo (2006) “Storia e tecnica della traduzione in Scipione Maffei”, in Traduzioni letterarie e rinnovamento del gusto: dal Neoclassicismo al primo Romanticismo, Giuseppe Coluccia e Beatrice Stasi (eds.), vol. 2, Lecce: Mario Congedo Editore: 150-65.
Marchi, Gian Paolo e Viola, Corrado (2009) Il letterato e la città. Cultura e istituzioni nell’esperienza di Scipione Maffei, Verona, Accademia Filarmonica di Verona – Cierre edizioni.
Mari, Michele (1994) Momenti della traduzione fra Settecento e Ottocento, Milano, Istituto Propaganda Libreria.
Mounin, Georges (1965) Teoria e storia della traduzione, Torino, Einaudi.
Pompei, Girolamo (1791) [1741] “Dell’imitazione degli antichi scrittori”, in Opere, vol. VI, Verona, Eredi Moroni: 21-50.
––––– (1791) [1772] “Prefazione”, in Le vite di Plutarco volgarizzate da Girolamo Pompei gentiluomo veronese, vol. 1, Roma, per Giovanni Desiderj: III-XIII.
Salvini, Anton Maria (21742) [1723] “Il traduttore A’ Lettori”, in Opere d’Omero tradotte dall’original greco in versi sciolti, Padova, Giovanni Manfrè, s.p.
Schwarze, Sabine (2003) “Giovanni Carmignani e la riflessione teorica sulla traduzione nel primo Ottocento italiano”, in Giovanni Carmignani (1768-1847). Maestro di scienze criminali e pratico del foro, sulle soglie del Diritto Penale contemporaneo, Mario Montorzi (ed.), Pisa, ETS: 439-62.
––––– (2004) Sprachreflexion zwischen nationaler Identifikation und Entgrenzung. Der italienische Übersetzungsdiskurs im 18. und 19. Jahrhundert, Münster, Nodus.
––––– (2006) “Il genio della lingua nella teoria settecentesca della traduzione”, in Traduzioni letterarie e rinnovamento del gusto: dal Neoclassicismo al primo Romanticismo, Giuseppe Coluccia e Beatrice Stasi (eds.), vol. 2, Lecce, Mario Congedo Editore: 167-82.
––––– (2015) “Il doppio genio, che corre nel tradurre … Die Klassiker-Übersetzung in der französisch-italienischen Sprachdebatte des 18. Jahrhunderts”, in Nationenbildung und Übersetzung, Dilek Dizdar, Andreas Gipper e Michael Schreiber (eds.), Berlin, Frank & Timme: 157-74.
Torelli, Giuseppe (1746) “Agl’illustri letterati che compongono l’accademia delle scienze di Bologna”, in Traduzioni poetiche o sia tentativi per ben tradurre in verso esemplificati col volgarizzamento del primo libro dell’Iliade, del primo dell’Eneide e di alcuni cantici della Sacra Scrittura e d’un salmo, Venezia, Stamperia del Seminario: 3-30.
Note
[1] Mettere al mondo i libri e lasciarli circolare senza una prefazione […] deve essere considerato il procedimento più illecito e crudele dei letterati contro i frutti del loro lavoro. Non sarebbe poi crudele privare i libri di qualcosa offertogli dalla natura non solo come ornamento ma anche in difesa dalle zanzare […]? (trad. S. Schw]. Nel titolo del fascicolo Lichtenberg utilizza invece la metafora di scacciamosche (Fliegenwedel).
[2] Sotto l’etichetta di paratesto l’autore indica come possibili “accompagnatori” di un testo (cito dall’indice della traduzione italiana): il peritesto editoriale (copertina, frontespizio, formato, ecc.), il titolo, le dediche, le epigrafi, l’istanza prefativa, gli intertitoli, le note, l’epitesto pubblico e privato (cf. Genette 1989, corsivo SSchw).
[3] Nel tentativo di distinguere nella riflessione teorica sul processo della traduzione diverse fasi storiche, la storiografia della traduttologia si è spesso orientata alla pubblicazione di testi programmatici come ad esempio il capitolo sulla traduzione nel “Westöstlicher Divan” di Goethe, definito da Mounin (1965: 53-54) il “primo tentativo moderno di creare una teoria della traduzione” oppure il trattato sui diversi metodi di tradurre di Friedrich Schleiermacher (1813), cf. ad esempio Koller (1992). Se si colloca quindi l’inizio della traduttologia come scienza vera e propria nel primo Ottocento, in epoca del Romanticismo, le rappresentazioni di una teoria anteriori a questa data, spesso strettamente legata alla pratica del tradurre, si dovrebbero riassumere sotto l’etichetta di una “riflessione teorica pre-scientifica”.
[4] Ai luoghi in cui si sviluppa il ragionamento teorico sulla traduzione nel Cinquecento sono dedicati due saggi di Francesca Gatta (2010 e 2011) che dimostrano che la prima opera italiana interamente dedicata all’argomento, il Dialogo del Fausto da Longiano, del modo de lo tradurre d’una in altra lingua segondo le regole mostrate da Cicerone (pubblicata a Venezia nel 1556 e preceduta solo dal trattato di Etienne Dolet La maniere de bien traduire d’une langue en autre, pubblicato nel 1540 a Lione) nasce in seguito a varie prefazioni in cui lo stesso autore già raccolse le sue riflessioni sul tradurre.
[5] La Querelle des Anciens et des Modernes, sorta in ambito francese, trova un campo fertile nella disputa fra i sostenitori e detrattori della superiorità degli autori classici che riguarda anche la qualità delle lingue moderne, disputa alimentata e rinforzata, sin dall’inizio del XVIII secolo, nella polemica Orsi-Bouhours che coinvolge le élites intellettuali francese e italiana. Per un quadro complessivo del dibattito intellettuale in Italia si rinvia al capitolo I in Schwarze (2004).
[6] In questa sede ci siamo concentrati sulla sfera discorsiva letteraria. Un confronto sistematico con altre sfere di grande rilevanza nel secolo dei Lumi come la filosofia e la scienza, come avviato ad esempio in Schwarze (2004), permetterebbe di ricostruire un quadro complessivo del mutamento di tradizioni discorsive in corso.
[7] Si veda a proposito due saggi sulla funzione identitaria della traduzione di testi classici e sul concetto di genio della lingua italiana (Schwarze 2006 e 2015).
[8] Sul Maffei traduttore si veda Marchi (2006), sul ruolo esercitato di Maffei nella vita culturale di Verona rinvio a Marchi-Viola (2009).
[9] Si tratta di un catalogo che raccoglie Traduttori italiani [e] volgarizzamenti d’antichi scrittori Latini e Greci che sono in luce (Maffei 1720: 21-84) seguito dal Volgarizzamento D’alcune insigni Iscrizioni Greche (Maffei 1720: 85-162) e dalla Notizia del nuovo museo d’iscrizioni in Verona: e paragone delle Iscrizioni con le Medaglie (Maffei 1720: 163-213).
[10] Per l’elenco di tutti gli aspetti da abbordare, secondo Maffei, in un tale trattato rinvio al primo studio approfondito sull’opera di Buffatti 2019: 20ss.
[11] Per Michele Mari, che definisce Verona la “capitale del partito della fedeltà” (Mari 1994: 119), Pompei e Torelli furono gli “autentici depositori del legato culturale, specie sul versante classicistico di Maffei” (Mari 1994: 199). Per un’analisi più dettagliata delle prefazioni di Pompei rinvio a Schwarze (2004: 97-9).
[12] Per i risultati di uno studio recente delle vaste attività traduttorie dell’autore rinvio a Forner/Schwarze (2019).
[13] Rinvio come esempio alla Dissertazione critica sulle traduzioni di Giovanni Carmignani (1808) presentata al concorso letterario dell’Accademia Napoleone di Lucca sull’argomento “Assegnare i danni, ed i vantaggi arrecati alla letteratura dalle traduzioni delle antiche lingue e moderne; e determinare se le traduzioni giammai possono trasportare da una in un’altra lingua esattamente le idee, e gli affetti”, che inaugurò tutta una serie di trattati teorici veri e propri che nel primo Ottocento sostituirono la prefazione come luogo del ragionamento teorico (cf. Schwarze 2003).
©inTRAlinea & Sabine Schwarze (2020).
"“Il traduttore a chi legge” La fenomenologia della prefazione alle traduzioni italiane del Settecento"
inTRAlinea Special Issue: La traduzione e i suoi paratesti
Edited by: Gabriella Catalano & Nicoletta Marcialis
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