Le donne in traduzione

Le traduttrici di Shakespeare dal 1798 al primo decennio fascista

By Alessandra Calvani (Università di Urbino)

Abstract

This article examines some shakespearian texts translated into Italian
by women translators, particularly between 1798 and 1931, with a view
to establishing how different social and historical contexts
influenced the choices of translators. In particular the paper argues,
on the basis of the texts analysis, that Giustina Renier, the first
woman translator of Shakespeare, translated three particular plays
with a specific educational purpose and that the subsequent
translators were influenced in their decisions by the historical
context of their time, especially by Fascism.

Riassunto

L’articolo prende in esame i primi testi shakespeariani tradotti in italiano da traduttrici, in particolare dal 1798 fino al 1931, allo scopo di mostrare come il diverso contesto sociale e storico possa influire in maniera differente sulle diverse scelte traduttive. Nello specifico l’articolo vuole mostrare, sulla base dell’analisi testuale, che Giustina Renier, la prima traduttrice di Shakespeare, ha tradotto tre drammi particolari a scopo essenzialmente educativo e che le traduttrici successive sono state influenzate nelle loro scelte dal particolare contesto storico in cui vivevano, ossia dal fascismo.

Keywords / Parole chiave

Giustina Renier, women translators, women translators during fascism, Shakespeare, Shakespeare translations

Giustina Renier, traduttrici, traduttrici del fascismo, Shakespeare, traduzioni di Shakespeare

©inTRAlinea & Alessandra Calvani (2010).
"Le donne in traduzione Le traduttrici di Shakespeare dal 1798 al primo decennio fascista"
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1. Introduzione

Che in Italia la traduzione non abbia mai avuto l’apprezzamento che merita si nota ad esempio dal desiderio di riconoscimento da parte del Foscolo per la sua opera di traduzione di Sterne (Calvani 2004) e tuttavia fu proprio tale condizione secondaria a fare della traduzione un genere femminile “per natura”. Ma perché la traduzione è femminile? Lori Chamberlain (Venuti 1992), analizzando le molte metafore diffuse sulla traduzione e sul traduttore, evidenzia come la struttura di pensiero che vuole l’opera tradotta semplicemente un’opera “derivata” e dunque seconda rispetto al testo originale, sia in realtà il riflesso di quella concezione che vede il maschile quale creatore e dunque primo, rispetto al femminile, derivato e dunque secondo; nello specifico, il testo originale, opera creativa e quindi maschile, si configura “naturalmente” come testo primo e di maggiore importanza rispetto all’opera da esso derivata, la traduzione, femminile appunto e naturalmente seconda.

Che la traduzione abbia un ruolo di secondo piano, caratterizzato dalla mancanza di creatività, lo si vede ancora in quella che è stata una delle metafore più diffuse sulla traduzione “creativa”, ossia la cosiddetta “belle infidèle”. In tale metafora si celerebbe il bisogno tutto maschile di stabilire la certezza della discendenza, con un ammiccamento nemmeno troppo velato all’immoralità, tutta femminile questa volta, del “tradire” il proprio originale. Una traduzione, un’opera derivata e seconda, che sia anche bella, non può esistere; per esserlo dovrebbe necessariamente possedere doti creative, doti queste che non le sono congeniali, ma che possono essere state trasposte in lei solo grazie all’influsso creativo e dunque “maschile”: ne sortirebbe una femminilità “deturpata” da tratti di creatività, maschile quindi, esattamente quanto

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In principio fu Sachespir, in Sipario, Rivista di teatro scenografia cinema, anno diciannovesimo, giugno 1964, numero 218.

 

[url=#ref1][1][/url] La data è puramente di convenienza, essendo impossibile per motivi di spazio analizzare tutte le traduzioni al femminile di Shakespeare.

[url=#ref2][2][/url] Discorso a parte merita la traduzione dei classici latini e greci, in passato appannaggio dei soli studiosi. L’educazione femminile infatti non contemplava la conoscenza di queste lingue. Solo in poche hanno avuto la possibilità di dedicarsi a tali studi, suscitando ovunque meraviglia. Già Aphra Behn se ne era lamentata (in proposito vedi S. Simon (1996), Gender in Translation, London and New York: Routledge) , altre invece si sono limitate a tradurre riparandosi dietro un’umiltà almeno apparente che le metteva al riparo dagli attacchi che la loro audacia avrebbe provocato (in proposito vedi D. Robinson, Theorizing Translation in a Woman’s Voice, in [url=([url=http://home.olemiss.edu/~djr/pages/writer/articles/html/woman.html]http://home.olemiss.edu/~djr/pages/writer/articles/html/woman.html[/url])]http://home.olemiss.edu/~djr/pages/writer/articles/html/woman.html[/url]. È il caso di varie traduttrici, tra cui Elisabeth Carter, della prima metà del settecento, conoscitrice di molte lingue europee nonché del latino, greco ed ebraico, la quale tradusse nel 1738 il Newtonianesimo per le dame così da meritare da parte di un recensore dell’epoca la definizione di “phenomenon” (in proposito vedi M. Agorni (2002), Translating Italy for the Eighteenth Century, Manchester: St. Jerome Publishing).

[url=#ref3][3][/url] Si possono citare due tentativi di traduzione precedenti a quella della Renier, il primo ad opera del Valentini risale al 1756, ma è difficile parlare di traduzione vera e propria perchè per ammissione dello stesso Valentini, lo studioso non conosceva affatto l’inglese, il secondo ad opera di Alessandro Verri, che si dedicò alla traduzione di Shakespeare dal 1769 al 1777, senza però voler mai pubblicare la sua opera.

[url=#ref4][4][/url] In particolare mi riferisco alle perplessità espresse in merito da Anna Maria Crinò e Anna Busi, rispettivamente in Anna Maria Crinò (1950), Le Traduzioni Di Shakespeare, Roma: Edizioni di Storia e Letteratura e Anna Busi (1973), Otello in Italia, Bari: Adriatica Editrice.

[url=#ref5][5][/url] Le battute in questione sono: “ FIG. E voi come farete per riavere un marito? LADY. Posso trovarne venti ad ogni mercato? FIG. Dunque li comprerete, e li venderete di nuovo. LADY. Tu parli davvero con molto spirito” (Renier 1801: 150).

[url=#ref6][6][/url] A tale proposito, vorrei anche rilevare, brevemente, che al contrario di quanto affermato da Busi, la cui visione dell’opera risulta essere comunque limitata essendosi occupata solo dell’Otello, dall’analisi di tutte e tre le versioni tradotte risulterebbe piuttosto che Renier abbia eliminato quasi tutte le frasi interrogative di Le Tourneur e che anche laddove Busi le rilevava tali (Busi 1973: 29), queste erano già presenti nel testo francese.

[url=#ref7][7][/url] Da citare un tentativo del 1892 ad opera di Carmelina Vittori, tentativo appunto, perché la traduzione si limita a due scene del Cymbeline, la scena IV, atto I e la V, atto III, scelte perché, come afferma la traduttrice stessa, “mi pare ritratto in esse più che nelle altre l’animo soavemente affettuoso e virilmente forte di Imogene, questa «del bel numero una» fra le donne di Shakespeare” (C. Vittori, 1892).

[url=#ref8][8][/url] Rileviamo soprattutto una nota all’atto IV, scena III, dove leggiamo, riferito a Cassio, “Vedendosi soverchiato e messo dalla parte del torto, Cassio fa la vittima. In queste nature violente ed eccessive c’è sempre qualche cosa di stranamente femmineo” (Avancini, 1925: 129, il corsivo è mio) e più oltre, in un’altra nota alla stessa scena, il commentatore afferma: “Bruto, come tutte le anime veramente aristocratiche, è mite e cortese con gl’inferiori” (Avancini, 1925: 137, il corsivo è mio).

[url=#ref9][9][/url] All’atto II, scena I, Antonio e Sebastiano, che si danno del tu, di tanto in tanto passano improvvisamente a darsi del voi; così se prima Antonio aveva detto: “Nobile Sebastiano, tu lasci dormire, anzi, morire la tua fortuna e chiudi gli occhi, mentre sei desto”, alla battuta successiva, sempre rivolto a Sebastiano, dice: “io sono assai più serio del solito e voi dovreste fare altrettanto, se mi capite, e se mi capite dovete farvi tre volte più grande” (Avancini, 1925: 84). Non mi sembra che sia fonte di confusione, tuttavia è cmq un segno di poca attenzione.

[url=#ref10][10][/url] Uno dei tagli più evidenti è quello delle battute a doppio senso del Portiere del palazzo di Macbeth, atto II, scena II, ma è solo uno dei numerosi esempi riscontrabili nel corso di tutto il dramma (G. Perticone e M. De Vincolis (1925), Antonio e Cleopatra, Lanciano: Giuseppe Carabba editore). Che per quel che ricordo è però cosa comune, anche in altre traduzioni sono tagliate.

[url=#ref11][11][/url] Con l’occasione volevo precisare che il testo da me analizzato risulta mancante di alcune pagine; infatti le pagine dalla 17 alla 32 contengono una parte del Guglielmo Tell di Schiller. Mi sembra piuttosto problematico… Che senso ha prendere in considerazione il testo?

[url=#ref12][12][/url] La traduttrice infatti non traduce le seguenti battute: Nerissa “What, and stake down?”, Gratiano “No; we shall ne’er win at that sport, and stake down” (Shakespeare, 1996: 403). E quindi?

[url=#ref13][13][/url] L. Torretta (1931), Sogno di una notte di mezza estate – Amleto – La Tempesta, Torino: UTET.

[url=#ref14][14][/url] I nomi degli artigiani ateniesi vengono resi in italiano, lasciando però in inglese i relativi cognomi, per poi tornare invece all’inglese anche per il nome nel quarto atto (Torretta, 1931: 75, 76).

[url=#ref15][15][/url] “or perchance «I saw him enter such a house of sale» videlicet, a brothel, or so forth” (Shakespeare, 1996: 680).

[url=#ref16][16][/url] “as we have many pocky corses now-a-days that will scarce hold the laying in”,(Shakespeare, 1996: 706).

[url=#ref17][17][/url] G. Celenza (1934), Sogno di una notte di mezza estate, Introduzione e note di G. N. Giordano-Orsini e un profilo di Giulia Celenza di Mario Praz, Firenze: G. C. Sansoni Editore.

[url=#ref18][18][/url] Colgo l’occasione per notare, che sebbene Mario Praz non si risparmi in lodi per la traduttrice, tuttavia non può far a meno di rimpiangere la sua mancata creazione di opere originali, come traspare da quel commento di Cecchi, che Praz riporta e che in qualche modo sembra approvare quando dice: “egli [Cecchi] ripeteva quell’ammonimento: Perché tradurre quando si può far di meglio? E Giulia Celenza poteva fare, avrebbe fatto di meglio, se la vita le fosse bastata”, rivelando così ancora una volta quanto la traduzione, se anche ben riuscita, venga comunque immancabilmente ritenuta opera di secondaria importanza rispetto alla creazione “originale” (Celenza, 1934: VIII).

[url=#ref19][19][/url] La prima tra le donne appunto, perché già altri prima di lei avevano pubblicato il testo italiano affiancandolo a quello inglese. È il caso, per fare qualche nome, di Carlo Rusconi, che pubblicò Amleto, Macbeth e Otello nel 1867, Re Lear e Romeo e Giulietta, nel 1868, Riccardo III nel 1878 ed altre opere ancora, tutte con testo a fronte o di Cino Chiarini, che fece lo stesso a partire dal 1910.

 

About the author(s)

Laureata in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università Roma Tre, ha successivamente ottenuto il Master in Comunicazione Web ed il Dottorato Europeo in Letterature Comparate, con un lavoro di ricerca dal titolo Gli specchi dell’originale: Traduzioni e Traduttori. Attualmente è docente a contratto per il corso di “Lingua e Traduzione Inglese” presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Ha pubblicato Il viaggio italiano di Sterne, Franco Cesati Editore, Firenze 2004, testo incentrato sull’analisi ed il confronto delle traduzioni del Sentimental Journey, la traduzione italiana di The Twilight of the Gods di Richard Garnett, Mattia&Fortunato;, Calabritto, 2005 e recentemente una raccolta di poesie e racconti, Parole di sabbia, Aletti Editore, Guidonia, 2008. Ha inoltre pubblicato vari articoli, tra cui La mediazione interlinguistica: opportunità da cogliere o problema da risolvere? e Rito e Sacrificio nelle traduzioni di Otello, entrambi reperibili all’indirizzo Internet www.intralinea.it , Byron e il femminile: la verità in maschera, in Linguae & (anche online, sito Internet, http://www.ledonline.it/linguae/index.html ) e numerose traduzioni di Richard Garnett.

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