Memetica e traduzione
Una sintesi della riflessione
By Fabio Regattin (Università degli Studi di Udine, Italy)
Abstract
English:
After some years of inattention, memetics, a hypothesis about the evolution of culture that had long concerned philosophers, linguists, sociologists and other social scientists, seems to be gaining new force. Very lively from the mid-90s until the first years of the new millennium, the debate stimulated by this theory had given rise to some interesting contributions even within translation studies, while declining in intensity in the last few years. This paper tries to provide a summary of what has been written to date in this field; it should help understanding if the memetic road is a dead end – as the sharp decline of works combining memetics and translation studies after 2000 seems to suggest – or if, on the other hand, it allows to say something new and relevant to our field of study.
Italian:
Torna recentemente a far parlare di sé, da più parti, un’ipotesi sulla diffusione della cultura che aveva a lungo interessato filosofi, linguisti, sociologi e altri studiosi di scienze sociali: la memetica. Molto vivace dalla metà degli anni ‘90 all’inizio del nuovo millennio, il dibattito suscitato da questa teoria aveva dato vita ad alcuni interessanti contributi anche all’interno dei Translation Studies, per poi perdere di intensità negli ultimi anni. Queste righe hanno lo scopo di fornire un sunto di quanto si è scritto fino a oggi nel settore; idealmente, dovrebbero permettere di capire se la via memetica sia un vicolo cieco – come sembra suggerire la netta diminuzione degli interventi che uniscono memetica e traduttologia dopo il 2000 – o se, al contrario, permetta di dire qualcosa di nuovo e pertinente sul nostro ambito di studi.
Keywords: meme, memetics, memetica, translation theory, teoria della traduzione, evoluzione, dawkins, chesterman, conversational dominance
©inTRAlinea & Fabio Regattin (2011).
"Memetica e traduzione Una sintesi della riflessione"
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“Translation is a memetic activity.”
(Chesterman 2000: 1)
1. Introduzione
Dopo alcuni anni di stasi, in cui le teorie evoluzionistiche applicate alla cultura sembravano aver subito una battuta d’arresto, torna da più parti a far parlare di sé[1] un’ipotesi sulla diffusione della cultura che aveva a lungo interessato filosofi, linguisti, sociologi e altri studiosi di scienze sociali: la memetica.
Il campo aveva conosciuto un notevole sviluppo tra la metà degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio (in particolare grazie ai lavori di Susan Blackmore o Daniel Dennett, che l’avevano reso accessibile anche ai non-specialisti, e alla pubblicazione del Journal of Memetics, rivista on-line attiva dal 1997 al 2005), per poi subire un parziale arresto negli anni successivi e fino in epoca recente. Nel momento di massimo rigoglio, il “meme dei memi” era penetrato anche nella riflessione traduttologica, per venire addirittura “canonizzato” grazie all’inclusione in un articolo di uno tra i principali esponenti della disciplina (Toury 1998) e in un influente volume che riassumeva le più recenti vie di sviluppo dei Translation Studies (Snell-Hornby 2006: 72-78).
Queste righe hanno lo scopo di fornire un sunto di quanto si è scritto fino a oggi nel settore; idealmente, dovrebbero permettere di capire se la via memetica sia un vicolo cieco – come sembra suggerire la netta diminuzione degli interventi che uniscono memetica e traduttologia dopo il 2000 – o se, al contrario, permetta di dire qualcosa di nuovo e pertinente sul nostro ambito di studi. L’ordine seguito per la presentazione dei vari contributi sarà quello cronologico, l’unico che permetta di mettere in luce eventuali influenze tra i diversi e comunque rari autori che si sono interessati all’ambito. Nonostante la memetica non sia l’unico avvicinamento possibile a un trattamento darwiniano della cultura[2], abbiamo deciso per il momento di limitarci a questo tipo di approccio, che potrà essere integrato in seguito con gli eventuali contributi ispirati ad altre teorie (come per esempio quelle introdotte da Sperber 1999 o da Cavalli-Sforza 1996). La presentazione dei contributi sarà preceduta da una breve introduzione alla memetica e ai suoi concetti fondamentali, che speriamo possa consentire al lettore di cogliere con maggiore immediatezza le differenze metodologiche che caratterizzano i lavori degli autori analizzati. Teoria giovane e diffusasi con grande rapidità, la memetica presenta infatti una certa variabilità anche per quanto riguarda i suoi aspetti più centrali, tanto che la stessa definizione di “meme” è tutt’altro che omogenea.
2. Memi, memetica
Che cos’è dunque la memetica, e qual è il suo oggetto di studio? Il termine “meme” compare per la prima volta nel volume Il gene egoista (Dawkins 1992[1976]), in cui l’etologo britannico Richard Dawkins sosteneva l’idea, allora rivoluzionaria e ancora oggi dibattuta, secondo cui la selezione naturale non si manifesterebbe a livello delle specie o degli individui di una certa specie ma piuttosto a livello dei geni. In base a quest’ottica, gli esseri viventi non sarebbero altro che “macchine da sopravvivenza” per i geni, modellate dalla pressione selettiva che agisce su questi ultimi e perfezionate dalla lotta darwiniana in cui essi sono implicati (ovviamente, a livello fenotipico le conseguenze di questa lotta sarebbero, nella gran parte dei casi, “macchine da sopravvivenza” – ossia individui – a loro volta sempre più adatte al proprio ambiente, ma questo solamente “in vista”[3] della replicazione e propagazione dei geni).
Nei capitoli conclusivi del suo volume, Dawkins inseriva i geni all’interno di una classe più vasta, quella dei “replicatori”. Per Dawkins, può essere considerata un replicatore qualunque entità soddisfi tre condizioni: variazione, eredità e selezione. Se unite, queste tre operazioni danno vita a un processo ricorsivo capace di produrre in maniera autonoma una complessità crescente e l’adattamento dei replicatori a un ambiente determinato, grazie all’accumulo delle “buone soluzioni” (Dennett 1997[1996]) che queste entità “scoprono” in maniera fortuita. Il meccanismo in questione può essere spiegato, in breve, come segue: è necessario che esista una variazione, in maniera che gli individui di una popolazione data (intendiamo qui le unità di replicazione, e dunque i geni nel caso della biologia) non siano tutti identici tra loro; bisogna poi che questi individui siano in grado di trasmettere le proprie caratteristiche alla generazione seguente (ma talvolta in maniera imperfetta, così da assicurare anche la variazione); è infine necessario un ambiente in cui le risorse disponibili non siano sufficienti per tutti gli individui, e in cui – in virtù della variazione di cui si è detto – alcuni di essi siano più adatti, per qualsivoglia ragione, alle condizioni dell’ambiente nel quale si trovano.
Secondo Dawkins, i geni non sono gli unici replicatori; esisterebbe quanto meno un secondo “oggetto darwiniano”, che l’etologo britannico battezza “meme” e definisce in questo modo:
Un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. […] Esempi di memi sono melodie, idee, frasi, modi di modellare vasi o costruire archi. Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool memico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione (Dawkins 1992: 201).
La sua riflessione non si spinge molto oltre questa definizione: il suo obiettivo è del resto quello di mostrare che l’algoritmo darwiniano non si applica necessariamente solo ai geni, ma può agire ogni volta in cui siano presenti le condizioni di fondo del processo – variazione, eredità, selezione (questo allargamento di prospettiva è stato definito talvolta “darwinismo universale”). Il testimone viene tuttavia preso da altri autori, che applicano l’ipotesi ad ambiti quali la filosofia e gli studi sulla coscienza (si vedano per esempio i lavori di Daniel Dennett) o la psicologia (Blackmore 2002).
In quest’ultimo volume (La macchina dei memi), la britannica Susan Blackmore avanza un’ipotesi forte e molto feconda: se i geni hanno perfezionato le proprie macchine da sopravvivenza al fine di aumentare le proprie possibilità di replicazione, i memi hanno fatto lo stesso con i nostri cervelli e i nostri manufatti. A partire dal momento in cui è nata l’imitazione, e con lei il meccanismo di copia che mancava loro[4], i memi hanno cominciato a dare vita a macchine da sopravvivenza sempre più perfezionate (i nostri cervelli) e a strumenti di copia e diffusione dotati di fedeltà crescente (il linguaggio, la scrittura, la stampa, il passaggio dall’analogico al digitale…). Tutto questo a vantaggio esclusivo del meme, che – per quanto il suo interesse coincida spesso con quello dell’individuo che ne è portatore – non corrisponde necessariamente a quello della sua macchina da sopravvivenza: classici esempi di non-conformità sono la diffusione di credenze che possono rivelarsi nocive per il loro “veicolo”, pur continuando a essere trasmesse (la cristalloterapia, l’astrologia o i manuali per vincere al lotto, per esempio) oppure il celibato dei sacerdoti cattolici, che permette loro di dedicare più energie ai memi di cui sono portatori, a scapito dei loro geni. Per comprendere i meccanismi che regolano la diffusione dei memi, seguendo ciò che Dawkins aveva fatto in ambito biologico (studiare l’evoluzione a partire dal “punto di vista del gene”, liberando quest’ultimo dall’ottica del bene della specie o dell’individuo), Susan Blackmore invita a sua volta ad adottare “il punto di vista del meme” (Blackmore 2002): una raccomandazione che cercheremo di fare nostra nella seconda parte di questo testo, in cui metteremo a confronto le proposte teoriche dei diversi traduttologi che hanno cercato di importare il concetto nel nostro ambito di studi.
Nelle righe che seguono, il cui interesse non è un’esposizione sistematica della memetica, terremo in considerazione le seguenti caratteristiche dei memi, che ci sembrano fondamentali: (1) come è stato detto, i memi sono sottoposti all’algoritmo genetico, che ha luogo grazie all’azione combinata di variazione, eredità e selezione; (2) per questo motivo, tendono a migliorare, con il passare del tempo, le proprie fedeltà di replicazione, longevità e fecondità[5]; (3) la delimitazione del concetto di meme resta alquanto sfumata; un meme si può comporre infatti di diversi “sotto-memi” che sono allo stesso tempo memi veri e propri, e – a un livello “superiore” – diversi memi possono unirsi a formare complessi coadattati (“memeplessi”, per Dennett e Blackmore) i cui componenti possono trarre reciproco vantaggio. Susan Blackmore porta a questo proposito l’esempio della Quinta Sinfonia di Beethoven, chiedendosi se siano le sue prime quattro note a costituire un meme, o l’opera nel suo complesso. L’autrice affermerà, infine, che entrambe le risposte sono valide, e che memi egoisti e sotto-memi egoisti possono vedersi favoriti da condizioni diverse e addirittura contrastanti[6] (per una spiegazione più dettagliata di questi aspetti invitiamo il lettore a riferirsi a Blackmore 2002, in particolare i capitoli 4-7, oppure – per una trattazione decisamente più sintetica – a Regattin 2011).
3. Memetica e traduzione: i contributi esistenti
Il primo contributo nel settore, a firma di Andrew Chesterman, viene pubblicato nel 1996 all’interno di un volume sulla didattica della traduzione, a sua volta parte di una serie più ampia, uscita dal 1992 al 2002. Si intitola “Teaching translation theory: the significance of memes”, e traccia diversi spunti interessanti, che l’autore riprenderà in numerose pubblicazioni successive. Viene innanzitutto introdotto il concetto stesso di “meme”, allora sconosciuto all’interno degli studi sulla traduzione: ne viene scelta la prima definizione in assoluto, quella fornita da Richard Dawkins nel 1976 e di cui abbiamo riportato sopra la traduzione italiana. In seguito, si introduce anche il concetto di “macchina da sopravvivenza”, termine che viene usato per definire le traduzioni: “We might suggest that translations are one kind of survival machine for memes – at least for memes that can be expressed and transferred verbally”, p. 63. Un’affermazione che segue immediatamente quella appena citata mostra quanto, a questo punto, la memetica sia ancora una scienza in divenire, o per lo meno quanto la sua comprensione da parte dei non specialisti sia talvolta ingenua: si sostiene che la sopravvivenza dei memi dipende da quella dei propri veicoli, e che i memi “parassiti”, che portano a uccidere le proprie macchine di sopravvivenza, tendono nel lungo periodo a scomparire (pp. 63-64): si è visto in precedenza come invece uno degli assunti base della memetica, e che ne fanno l’originalità, sia proprio l’indipendenza del meme dalla propria macchina di sopravvivenza. I memi favoriti saranno semplicemente quelli in grado di riprodursi (riprodurre se stessi) in misura maggiore, indipendentemente dagli effetti di questa riproduzione sui propri veicoli.
La questione della diffusione dei memi attraverso la traduzione viene comunque abbandonata subito: Chesterman si concentra su una sottocategoria ben precisa di memi, ossia le idee diffuse sulla traduzione, sulla sua teoria e sulla sua pratica. Lo stesso autore parla a questo proposito di “received ideas” (p. 64), e si fatica in effetti a capire quale sia la differenza tra i due termini. È tuttavia in questa direzione che si muovono le pagine successive: vengono elencati alcuni luoghi comuni sulla traduzione e si mostra come la consapevolezza tanto della loro esistenza, come del loro carattere stereotipato, possa rivelarsi di grande utilità per l’apprendista traduttore. Si introduce inoltre, alquanto rapidamente, l’idea darwiniana in base alla quale l’ontogenesi ricapitolerebbe la filogenesi, e si fa notare come spesso l’atteggiamento del traduttore di fronte al testo, nei diversi e successivi momenti della propria formazione, segua un’evoluzione simile a quella delle idee vigenti nel corso della storia sulla traduzione. In base a questa ipotesi, tanto la riflessione globale sulla traduzione quanto il singolo traduttore attraverserebbero diverse fasi, in un ordine spesso simile. Delle sette individuate da Chesterman, riportiamo di seguito le prime tre:
“- Words: a concern with individual words as carriers of meaning;
- The Word of God: a concern with formal structure, with a stress on literal translation;
- Rhetoric: in reaction, a concern for expanding the target language, freer translation […]” (p. 70).
In questa sua prima occorrenza il meme sembra dunque essere usato in gran parte in maniera metaforica; l’articolo ha comunque il merito, tutt’altro che trascurabile, di aver introdotto nella traduttologia alcune nuove idee e un lessico che fino ad allora era rimasto confinato al di fuori del nostro ambito.
L’anno successivo, il “meme dei memi” sembra prendere ulteriormente piede: Chesterman continua a interessarsi alla questione, pubblicando l’influente Memes of Translation (Chesterman 1997), che riprende ed espande molte delle idee accennate nel lavoro del 1996; dal canto suo, Hans Vermeer scopre in maniera indipendente il concetto pubblicando il suo primo articolo sulla questione, “Translation and the ‘meme’” (Vermeer 1997).
Il ricercatore tedesco sembra interessarsi innanzitutto agli effetti epistemologici del concetto: in forma di brevi paragrafi indipendenti, descrive in particolare alcune conseguenze dell’approccio memetico sulla coscienza e l’accesso all’informazione. Il rapporto tra meme e traduzione sembra invece limitarsi ad alcune proposizioni minimali, che avanzano ipotesi molto generali, nell’ultimo paragrafo dell’articolo (che consta di circa due pagine sulle dodici del testo).
Il carattere introduttivo di questo intervento è dimostrato dall’ampio spazio che viene dedicato alla definizione del termine e alla spiegazione di alcuni concetti-chiave che lo riguardano. Dopo la citazione della definizione di meme fornita da Dawkins 1982, Vermeer si interessa alla replicazione di queste entità: vengono introdotti rapidamente il concetto di “macchina da sopravvivenza” (“Organisms […] are gene and meme ‘vehicles’”, p. 156) e quello di meme come parassita o virus mentale, introdotta per esempio in Brodie 1996 (“Memes seem to be infectious. We can’t help being ‘infected’ by memes”, p. 158). L’autore passa poi alla descrizione della struttura dei memi, considerando la possibilità dell’esistenza di memeplessi: “Memes ‘grow’ by association etc. with other memes; they form ‘organisms’. The more complicated an organism is, the less likely it is to suffer further evolution. Does that apply to memes too?”, pp. 159-160. Nonostante la sua domanda resti pertinente, Vermeer sbaglia qui, a nostro avviso, a definire i memeplessi come “organisms”: questo termine traccia infatti un’analogia indebita, nella misura in cui i geni dirigono lo sviluppo di un organismo, ma non sono per questo organismi a loro volta (esistono quindi due livelli distinti, il genotipo e il fenotipo), mentre i memeplessi non sono né più né meno che gruppi di memi che occorrono assieme. Nonostante l’“egoismo” dei memi sia esplicitamente riconosciuto (“The meme need not even be ‘good’, it must just meet a big enough […] set of other memes willing to ‘cooperate’”, p. 161), l’autore tende a scordarsene in un paio di occasioni, riconducendo anch’egli, come già aveva fatto Chesterman l’anno precedente, la sopravvivenza differenziale del meme a quella del suo veicolo: “In the long run only ‘good’ memes will survive (because the detrimental ones lead to the extinction of the species, in this case homo sapiens)”, p. 164; ma si veda anche il commento a una citazione di J.T. Bonner: “Bonner suggests that memes, like genes, ‘are immediately selected by our brain, and those that are suicidal [for the genes? the organism?] are summarily rejected’”. È qui necessario ricordare che, purché la replicazione del meme preceda la morte del suo veicolo, nulla impedisce a un meme di avere successo anche se questo va a scapito dei geni (si veda il già citato esempio dei sacerdoti cattolici). Nella parte conclusiva dell’articolo (pp. 163-165) Vermeer indica alcune possibili conseguenze legate a una concezione memetica della traduzione. Come abbiamo anticipato, si tratta di punti estremamente vaghi:
- la ricezione e la produzione del testo in traduzione sono determinate dai memi che, a loro volta, sembrano essere solo parzialmente controllabili da parte dei propri “veicoli”;
- la traduzione è una replicazione memetica transculturale, e le traduzioni sono macchine di sopravvivenza transculturali per memi;
- le culture possono essere considerate “pool memetici” all’interno dei quali i memi sono considerati come interdipendenti.
Lo studioso riprenderà alcune di queste proposizioni, alquanto scarne, in un nuovo articolo sul tema, uscito nel 1998 (vedi infra).
Torniamo però momentaneamente a Chesterman, e al suo volume Memes of Translation. Alcune affermazioni di principio che si possono ritrovare nella prefazione e nel primo capitolo lasciano ben sperare il memetista interessato alla traduzione:
“My underlying metaphor for translation comes from the notion of memes. […] The meme-metaphor highlights an aspect of the translation phenomenon that I want to foreground: the way that ideas spread and change as they are translated […]. A translator is not someone whose task is to conserve something but to propagate something […]: translators are agents of change”, p. 2; “Translations are survival machines for memes”, p. 5.
Alla lettura del volume, tuttavia, le speranze sollevate da queste affermazioni vengono parzialmente disattese: il concetto di meme si rivelerà uno strumento (ottimamente sfruttato) per mettere in luce alcuni temi ricorrenti del pensiero sulla traduzione (capitolo 1) e per descrivere l’evoluzione della teoria della traduzione occidentale (capitolo 2), per poi lasciare spazio ad altri temi parzialmente sovrapponibili (il concetto touryiano di “norma” e l’analisi delle produzioni reali dei traduttori, alla ricerca delle norme che governano il processo traduttivo, nonché una descrizione dei valori etici che fondano l’adesione dei traduttori alle norme che ne determinano l’operato). A ben guardare, comunque, il volume mantiene ciò che promette il titolo, Memes of Translation (da intendersi dunque come uno studio sui memi più diffusi nel “memosistema” del pensiero sulla traduzione), laddove Memes in Translation avrebbe invece richiesto invece un’analisi della pratica traduttiva attraverso gli strumenti offerti dalla memetica. Effettuate queste precisazioni e limitato il campo di applicazione del concetto, le parti dedicate da Chesterman al rapporto tra memetica e traduzione appaiono decisamente interessanti, soprattutto per la maggiore coesione dei suoi propositi; laddove Vermeer appariva certo suggestivo ma anche impressionistico, accumulando suggerimenti piuttosto slegati tra loro, l’autore di Memes of Translation sembra capace di sistematizzare l’ipotesi memetica in un tutto coerente (per quanto volutamente parziale[7], come si è visto).
Il primo capitolo del volume presenta il concetto di meme, di cui viene ripresa la definizione di Dawkins che abbiamo riportato sopra. Sono poi introdotti rapidamente il concetto di memeplesso, applicato alle teorie (“It is often insightful to think of a theory […] as a memome, a meme-complex”, pp. 6-7), e quello di pool memetico (“we could even define a culture in precisely these terms, as a population of memes”, p. 7). Si accenna infine, brevemente, alla traduzione come indispensabile meccanismo di trasmissione memetica: “For a meme to be transmitted verbally across cultures, it needs a translation. […] This gives us a fundamental definition of a translation: translations are survival machines for memes”, ibid. Queste premesse, che sembrano aprire la strada a un trattamento memetico dell’atto traduttivo, vengono però immediatamente lasciate da parte. Il concetto di meme viene ridotto al suo aspetto intuitivo di “idea diffusa”, e come tale viene trattato nel prosieguo del volume. Il capitolo prosegue infatti con l’analisi di cinque “supermemi della traduzione” (“ideas of such pervasive influence that they come up again and again in the history of the subject”, pp. 7-8): i concetti selezionati sono la distinzione source-target, l’equivalenza, l’intraducibilità, l’opposizione traduzione libera-traduzione letterale e l’idea che ogni tipo di scrittura sia a modo suo una traduzione.
Il secondo capitolo mantiene un’impostazione memetica nell’ultimo senso che abbiamo visto: secondo Chesterman, “ideas about translation […] have sprung up like mushrooms. Presumably, some of these ideas, these translation memes, have failed to win any general acceptance […]. Others have remained current for quite some time […] and still others appear to be practically indestructible” (p. 19). L’autore passa quindi in rassegna otto fasi storiche i cui memi sono, in varia misura, presenti ancora oggi nel pool memetico della teoria della traduzione: tra i vari periodi inquadrati sono presenti per esempio l’attenzione alla lettera tipica dell’epoca medievale, legata soprattutto alla traduzione dei testi sacri, e la “reazione” che troverà il proprio apice al momento delle belles infidèles; avvicinandosi al presente, i diversi momenti scelti mettono in luce, tra gli altri, aspetti quali l’attenzione portata alla comunicazione, alla lingua-cultura target o agli aspetti cognitivi del processo traduttivo. Se una simile analisi storica non ha nulla di particolarmente innovativo, ciò che fa la sua forza è il costante riferimento al presente della traduttologia, e ai “memi egoisti” che, distaccandosi da memeplessi che oggi godono magari di minor fortuna, sono riusciti a giungere fino alla riflessione contemporanea, ricavandosi una nicchia all’interno della quale sopravvivono. È così, per esempio, che l’autore fa risalire alla fase “letteralista” della traduzione biblica temi quali il “supermeme” dell’opposizione tra traduzione libera e traduzione letterale o ancora concetti quali il minimal transfer di Eugene A. Nida, la traduzione semantica di Peter Newmark o l’intero approccio della classica Stylistique comparée di Vinay e Darbelnet, secondo i quali, laddove possibile, una traduzione diretta è sempre preferibile alle varie strategie di traduzione indiretta.
Nelle pagine successive Chesterman descrive altre idee diffuse concernenti la traduzione: si discute di norme e leggi traduttive, nel senso che Gideon Toury dà al termine, di strategie traduttive (di cui viene proposta un’interessante tassonomia) e infine di valutazione delle traduzioni. Nei capitoli 3 e 4, in particolare, tanto le norme e le leggi quanto le diverse strategie traduttive possono costituire un legittimo oggetto di studio per la memetica, nel momento in cui vengono rese esplicite e possono essere adottate o rifiutate consciamente dal traduttore. Tuttavia, il concetto di meme passa in secondo piano: bisognerà aspettare il sesto e penultimo capitolo, dove vengono fornite alcune indicazioni sulla didattica della traduzione, perché faccia nuovamente la propria comparsa; e, anche in questo caso, viene ripresa l’idea dei primi due capitoli e si sostiene che una maggiore conoscenza dei memi (idee e pratiche dominanti all’interno del campo) della traduzione può essere d’aiuto all’apprendista traduttore in diverse fasi del proprio apprendimento; l’idea è che un approccio più conscio alle principali “idee in circolo” possa permettere al futuro traduttore di scegliere quelle che ritiene più consone alla propria pratica, rifiutando al contempo quelle che considera deleterie (si tratterebbe quindi di favorire una sorta di “ingegneria memetica” che permetta di “farsi infettare” solo dai memi più utili per la propria pratica traduttiva).
L’impressione è che la prospettiva adottata da Chesterman offra un utile compendio delle “idee sulla traduzione” – memes of translation, appunto – senza però “affondare il colpo”. Il concetto di meme viene ridotto a quello di idea o pratica diffusa[8], in un’accezione simile a quella “popolare” di Internet meme (fenomeni, in gran parte divertenti o umoristici, che diventano rapidamente celebri online via il passaparola tra gli internauti. Per una definizione più ampia rinviamo a Wikipedia: [url=http://en.wikipedia.org/wiki/Internet_meme);]http://en.wikipedia.org/wiki/Internet_meme);[/url] alcune delle sue caratteristiche precipue, e che ne fanno l’originalità rispetto a qualunque entità simile in storia delle idee, sono volutamente lasciate da parte; in particolare, lo statuto di replicatori dei memi – con tutto ciò che ne consegue in termini di variazione, selezione e eredità, per esempio, o con l’idea del “punto di vista del meme” – viene lasciato quasi completamente da parte. Chesterman vi allude all’inizio del volume, quando al pari di Vermeer introduce l’interessante idea delle traduzioni come macchine da sopravvivenza per memi (vedi supra), ma abbandona immediatamente il tema. Parafrasando E.A. Gutt[9], il suo volume potrebbe essere considerato in definitiva come “a memetic account of translation – without memes”.
L’anno successivo alla pubblicazione del volume di Chesterman e al proprio contributo su Target, Hans Vermeer torna a discutere di memi in un nuovo lavoro, che appare sulla stessa rivista. In “Starting to unask what translatology is about” (1998), un articolo piuttosto complicato e dalla struttura logica non immediatamente leggibile, i memi non occupano più la posizione centrale ma compaiono in vari momenti della discussione.
L’articolo si concentra sul superamento della dicotomia “traduzione fedele vs. traduzione libera” (mettendo in luce criticamente, quindi, uno dei “supermemi della traduzione” discussi da Chesterman l’anno precedente), superamento che a parere dell’autore può passare attraverso il ricorso al concetto di skopos; un approccio puramente funzionale all’attività traduttiva riduce l’importanza del testo di partenza, e permette di considerare il traduttore allo stesso tempo come una figura libera di agire in quanto dotata della necessaria esperienza e come responsabile, proprio in virtù del ruolo che ricopre, delle proprie scelte.
All’interno dell’articolo, le affermazioni che hanno a che vedere con i memi sono alquanto scarne e isolate. Il testo si apre proprio in chiave memetica, con un’affermazione che fa immediatamente pensare a concetti quali la selezione e la variazione: “Most conceptual evolution does not occur via innovations but by means of the recombinations of the same old ideas, not by novel ideas but by novel combinations of familiar ideas”, p. 41. Questo aspetto viene però subito abbandonato, dopodiché il concetto di meme tornerà a presentarsi in due occasioni soltanto. In un primo caso, introduce una messa in discussione dell’intenzionalità (un concetto fondamentale nella skopos theory, dove è proprio questa a costituire il motore dell’azione traduttiva): “The question has even been raised wether we think or ‘are thought’; […] do memes constitute us? Genes do. We know that we are tossed and torn by conflicting ideas which exist within and between our brains” (pp. 46-47). Nel secondo, si porta avanti l’idea – già espressa anche negli altri contributi visti fino a qui e, anche in questo caso, subito abbandonata – del traduttore come macchina per memi: “The translator is a meme transmitter. (The memes can be considered to reside in a source texteme or a commissoner’s brain or in both.)” (p. 50).
In tutte queste affermazioni, i progressi rispetto al passato – e al passato dello stesso Vermeer – sono, dal punto di vista memetico, ben poca cosa. Il fatto non stupisce, visto che il centro concettuale dell’articolo è situato altrove; viene da pensare che il “meme dei memi” sia stato talmente affascinante da imporsi all’attenzione di Vermeer anche quando, come avviene qui, la sua pertinenza era relativamente bassa.
Maggiore attenzione merita forse il successivo contributo di Andrew Chesterman, che nel 2000 apre il numero 5 della rivista Synapse con un intervento interamente centrato su memetica e traduzione. Il suo “Memetics and translation strategies” riprende alcuni concetti espressi nel libro pubblicato tre anni prima, ma allo stesso tempo ne espande i confini.
Fa la sua comparsa negli studi sulla traduzione l’idea di “punto di vista del meme”, e si sancisce lo statuto di meme come replicatore autonomo: “From a meme’s-eye view, human beings are just convenient and rather efficient machines for spreading memes, as memes engage in their Darwinian struggle for space and survival”, p. 2. Tuttavia questa apertura, così come il proseguimento della frase (“Memes also spread via translations […]. In fact, this is really what the whole translation business is about: spreading memes from one place to another”, ibid.), lasciano subito spazio ai due temi che Chesterman aveva già trattato in passato: la presenza di memi sulla traduzione e le implicazioni didattiche del concetto. I memi sono visti, per tutta la prima metà dell’articolo, come strumenti concettuali o come idee diffuse, positive o negative che siano, sulla traduzione; si discutono inoltre rapidamente gli stessi tipi di meme che si erano visti nel volume pubblicato alcuni anni prima (norme e strategie traduttive, per esempio). Verso la fine del testo, tuttavia, Chesterman dedica qualche pagina alle implicazioni dell’approccio memetico per la ricerca in traduzione. Le domande poste sono molte:
“Another interesting kind of research which is clearly memetic is the study of what is known as the comet’s tail phenomenon. This means looking at the way a given work, or the work of a particular author, spreads through a series of cultures, via translation (direct or indirect)”, p. 11; “What happens to ideas as they mutate via translation? Which ideas tend to survive better than others, and why? How does translation affect their survival, both in the target culture and in the source culture?”, ibid; “One possible application of this way of thinking has to do with making predictions. If we discover that the evolution of translation memes tends to occur in certain waves or patterns, not just in one culture only but more generally, we might be able to make predictions about up-and-coming memes in a particular culture. We might also be able to offer explanations about current meme patterns, in terms of universal laws of memetic evolution”, p. 12.
Mancano però le risposte: si cerca unicamente di mettere in campo una serie di temi da sviluppare, senza che questo sviluppo venga preso in mano in prima persona dall’autore.
Se questo articolo di Chesterman ha dunque l’innegabile vantaggio di cominciare a porre alcune domande importanti (che comunque già Vermeer, nel suo primo contributo, aveva sfiorato), e di puntare la luce su un tipo di ricerca memetica legata alla traduzione che ancora deve vedere la luce, il suo autore sembra aspettare che sia qualcun altro a farsi carico dell’incombenza – un fatto che, come si evince in modo particolare dall’ultima tra le domande citate sopra, lo porta a posizioni forse troppo ottimistiche riguardo ai possibili risultati di questa linea di ricerca.
Con l’inizio del nuovo millennio, l’impressione è che l’attenzione rivolta alla memetica cominci a scemare[10]: nel 2005 chiude il Journal of Memetics e anche nel campo della traduttologia, dopo anni relativamente vivaci, il “meme dei memi” sembra perdere colpi. Tra l’articolo sopra citato e il successivo passeranno cinque anni: in quest’occasione sarà ancora Chesterman a parlare di memi, con “The memetics of knowledge” (Chesterman 2005), un articolo in un volume collettaneo dedicato ai sistemi di conoscenza applicati alla traduzione.
L’articolo in questione dice molto poco sul rapporto tra memetica e traduzione: le prime 10 pagine, sulle 13 totali, si occupano di definire la memetica (segno che l’ipotesi è ancora ben lungi dall’essere parte integrante del discorso scientifico sulla traduzione) e di elencare le critiche possibili a questo approccio, per poi offrire, in quella che è forse la parte più interessante e innovativa dell’articolo, una dettagliata tassonomia dei diversi aspetti che, a parità di altre condizioni, favoriscono la replicazione di un meme e dunque il suo successo in un memosistema determinato (si tratta delle condizioni che abbiamo riassunto in “fecondità, longevità e fedeltà di replicazione”, e che Chesterman espande notevolmente). L’articolo continua affermando l’utilità di un sistema memetico di knowledge management, ma la proposta, avanzata in una pagina appena, andrebbe sviluppata per poter essere compresa appieno. Il testo si conclude su alcune affermazioni che ritornano costantemente fin da Memes of Translation, quali la natura additiva della replicazione memetica (il meme B, traduzione del meme A, non ne prende il posto ma si aggiunge ad A) e la messa in discussione dei tradizionali concetti di equivalenza e fedeltà.
Il passo avanti che Chesterman sembra compiere in quest’occasione riguarda lo studio dei memi presi per se stessi, e non in rapporto alla traduzione: le diverse “strategie”[11] messe in atto dai memi per sopravvivere più a lungo, produrre più copie o produrre copie più fedeli sono estremamente interessanti e meriterebbero di essere approfondite da chi decidesse di interessarsi allo studio della traduzione in chiave memetica.
Un salto in avanti di un anno e viene pubblicato in galiziano un lungo articolo a firma di Burghard Baltrusch, dell’Università di Vigo. Ai nostri fini, l’interesse maggiore del testo (Baltrusch 2006) è il fatto che si esca infine dal monopolio del campo da parte dei due studiosi che abbiamo nominato costantemente fino a qui. Dal punto di vista traduttologico, invece, questo contributo presenta un interesse limitato a un solo punto: memetica e altri approcci (come per esempio le neuroscienze: si parla rapidamente anche di neuroni specchio) sono convocati per sostenere il concetto di “paratraduzione”[12], introdotto proprio all’università galiziana, e vengono utilizzati solamente a questo fine.
Il legame tra traduzione e memetica è riattivato a distanza di altri tre anni: nel 2009 esce un ultimo articolo di Chesterman, “The view from memetics”, che ribadisce quanto affermato nei contributi passati. Molti brani sono ripresi, con lievi modifiche, dagli articoli precedenti dello stesso autore, che ancora una volta si schiera a favore di un approccio memetico ai fatti traduttivi. La novità dell’articolo è costituita dal paragrafo centrale, in cui vengono passate in rassegna alcune recenti proposte di Maria Tymoczko (2006) per una revisione globale dei Translation Studies, da effettuarsi riconsiderando otto assunti eurocentrici e a suo avviso problematici. Chesterman vede ovviamente questi assunti come memi, ma soprattutto spiega in che maniera la memetica offra, a modo suo, la possibilità di affrontarli e rimetterli in discussione. Prenderemo come esempio il quarto punto enunciato da Tymoczko, che contesta l’affermazione secondo la quale il processo traduttivo sarebbe una sorta di “scatola nera”, con un traduttore individuale che decodifica un messaggio in entrata e ricodifica quello stesso messaggio in uscita. Chesterman segnala l’attenzione data da Tymoczko all’importanza della traduzione di gruppo, per esempio nella Cina antica o in diversi casi di traduzione biblica, e sostiene poi che un approccio memetico potrebbe andare nella stessa direzione. Nelle parole di Chesterman,
“Team translation would be an obvious locus for a memetic approach, as team members gradually approach consensus (e.g. in Bible translation), or as each member edits and passes on a version. […] Networks of peers and contacts are all-important. Even the use of multiple drafts has memetic significance, as more variants may allow a superior choice to emerge eventually” (2009: 82-83).
Affermazioni interessanti e “pienamente memetiche”: è chiaro qui il riferimento ai concetti, pur non espressi, di variazione e selezione. Ciò che continua a mancare, tuttavia, è il salto dalle dichiarazioni relative all’adeguatezza di un modello teorico a un tentativo, anche minimale, di messa in pratica di tale modello.
4. Conclusioni parziali: strade esplorate, strade da esplorare
Per quanto i rapporti tra le due discipline possano apparire quasi inesistenti, si è visto come in realtà memetica e traduttologia si siano incontrate, nell’ultimo decennio e mezzo, con relativa frequenza e una discreta costanza. La maggior parte del lavoro è tuttavia stata fatta da due soli ricercatori, che hanno aperto un campo e hanno cercato di conferire dignità alla memetica attraverso le loro pubblicazioni. Nel corso del tempo, tra i vari ambiti esplorati, ci sono stati in particolare quello della “paratraduzione” e quello delle idee che si diffondono tra i professionisti e i teorici della traduzione (due categorie sociali a lungo coincidenti): teorie, norme traduttive e strategie. Si è inoltre alluso più volte anche un approccio che cerchi di studiare l’atto traduttivo in quanto replicazione memetica. Un esempio di questa seconda via è rappresentato dalle scarne pagine conclusive di Vermeer 1997 o, in modo già più articolato, dal discorso di Chesterman (2000) sulla ritraduzione:
“The decision to translate a given work again into the same target language, for instance a generation later, seems to suggest the need to revive certain memes that were perhaps in danger of fading away. What are the characteristics of translations that need to be supplemented by retranslations? How do retranslations differ from earlier translations? In other words, how are the memes re-expressed? What are the characteristics of translations that seem to survive without retranslations? More powerful memes? A more effective expression of them? How do different translations then compete for the honour of carrying the memes?” (Chesterman 2000: 13).
Quest’ultimo approccio, tuttavia, non è mai stato veramente esplorato, e le molte domande poste nel breve paragrafo riportato qui sopra non hanno trovato, a quanto ci è dato sapere, una risposta.
Un’altra caratteristica che sembra accomunare i diversi testi qui descritti è il costante carattere introduttivo di cui fanno mostra. Oguno degli articoli qui raccolti (questo vale anche per l’unica monografia, dove ovviamente la proporzione risulta differente) dedica uno spazio relativo decisamente ampio a spiegare che cosa sia la memetica, che cosa siano i memi e quali siano le loro caratteristiche (mediamente, si tratta forse di un 40-50% della lunghezza totale dei testi, con alcuni casi estremi rappresentati da Vermeer 1997 o Chesterman 2005). In qualche modo, sembra dunque che si cerchi di aprire e riaprire costantemente un campo di ricerca apparentemente vergine. Abbiamo visto che così non è, dato che gli interventi su memi e memetica sono senza dubbio alquanto scarsi ma, a partire dal 1996, certo non inesistenti. Questo atteggiamento è chiaramente indice di una mancata integrazione dell’ipotesi memetica nell’ambito di studio che ci interessa: ogni nuovo autore che si interessi alla questione si vede costretto a ripetere molte cose già dette.
Resta un fatto: dei due approcci possibili alla traduzione attraverso la memetica, uno (quello dei memes of translation) è stato trattato in maniera relativamente approfondita; l’altro (quello dei memes in translation) è invece stato appena sfiorato, e solamente sotto forma di dichiarazione di intenti. Una delle cause della mancata incidenza dell’approccio memetico è forse proprio questa: l’assenza di una memetica sulla traduzione, che potrebbe mettere alla prova la memetica stessa attraverso modelli di diffusione e replicazione che possano in qualche modo prevedere, nel modo “debole” che si può assegnare a questo termine nelle scienze umane, determinati risultati.
Campo relativamente nuovo e alquanto marginale, la memetica stessa è stata soggetta a svariate critiche, metodologiche e ideologiche. Chesterman risponde nei suoi lavori a molte di esse, ma ne lascia fuori una che ci sembra particolarmente pertinente: “Critics, particularly from social and cultural anthropology, claim that memetics offers nothing that cannot already be adequately taken care of by their own disciplines; it does nothing more than introduce a new terminology” (2009: 86). Ciò di cui ci si è occupati finora è effettivamente soggetto a questo rischio: parlare di memi o di luoghi comuni, strategie, norme non modifica in misura sensibile il loro statuto. È forse per questa ragione che la replica di Chesterman a simili critiche risulta alquanto fiacca e poco pragmatica:
“I would argue that new advances in understanding are often made by means of what Pierce called abduction, by which we posit a hypothesis that, if it were true, would help us to understand a given phenomenon. Memes are such hypotheses. The notion offers us a way of seeing, of relating cultural evolution to genetic evolution, which may bring new insights, and these in turn may bring different kinds of hypotheses that can be tested empirically” (Ibid.).
Si tratta di un’affermazione certamente condivisibile, e che tuttavia perde parte del proprio valore nel momento in cui, a distanza di 13 anni dai primi articoli sul tema, si continua ad affermare che questo modo di vedere “may bring new insights”, senza che questi “new insights” comincino a rendersi visibili. A oggi, i tentativi di Chesterman sembrano effettivamente dare una nuova veste a cose già dette altrimenti.
Probabilmente, allora, è giunto il momento di creare qualche teoria nel senso popperiano del termine. In quest’ottica (si veda Chesterman 1997: 44), una teoria è una risposta provvisoria a una domanda, una soluzione ipotetica a un problema. Ciò che si è fatto fino a oggi è stato chiedere che si aprisse una teoria, che qualcuno provasse a risolvere un problema attraverso la memetica. Si è, per così dire, messo in luce uno strumento, indicandone i possibili usi ma senza davvero provare a servirsene[13]. Per poter accettare (o scartare, ovviamente) l’ipotesi memetica, mancano dunque ancora due fasi: la costituzione di una teoria memetica della traduzione – che dovrebbe idealmente “risolvere problemi”, ossia offrire previsioni relativamente affidabili riguardo ad alcuni comportamenti o al successo di certi memi rispetto ad altri – e la sua falsificazione. Rispetto alla conclusione del libro di Chesterman (“Now for the error elimination”, Chesterman 1997: 196) siamo dunque un passo indietro. Lo parafraseremo quindi, in conclusione di queste righe, sperando che questo articolo possa contribuire a riaprire un campo di ricerca chiuso forse troppo in fretta: e adesso, costruiamo una teoria.
Bibliografia
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Note
[1] Come dimostra la pubblicazione di volumi quali Guillo 2009 o ancora Jouxtel 2010. In particolare la pubblicazione di quest’ultimo testo da parte di uno degli editori scientifici di punta del nostro paese, Bollati Boringhieri, pur essendo la traduzione italiana di un volume uscito in Francia nel 2005 mostra come l’argomento sia ancora attuale nel panorama scientifico contemporaneo.
[2] Si veda per esempio Hu 2003, nonostante il suo uso delle categorie darwiniane di selezione e adattamento appaia alquanto idiosincratico.
[3] Succederà talvolta, come in questo caso, che parlando di geni o di memi venga usato un lessico apparentemente teleologico: teniamo a sottolineare come simile teleologia sia, appunto, apparente. Ovviamente i replicatori (si veda infra in questo stesso paragrafo) non agiscono in vista di un qualche fine; essendo sottoposti all’algoritmo evolutivo, tuttavia, mostrano semplicemente – a posteriori – un adattamento progressivamente più preciso all’ambiente. Ci troviamo qui al cuore stesso della distinzione tra teleologia e finalità (assegnazione di una funzione ex ante o constatazione di questa funzione ex post).
[4] Il ruolo fondamentale attribuito all’imitazione da Blackmore ha ricevuto un’importante conferma qualche anno dopo la pubblicazione del suo libro grazie alla scoperta dei “neuroni specchio” (Rizzolatti et al. 2002), che si attivano allo stesso modo quando – per esempio – strappiamo un foglio di carta o quando sentiamo il rumore del foglio strappato. Questo fatto sembra suggerire che, dal punto di vista del funzionamento cerebrale, la rappresentazione mentale del movimento sia vissuta allo stesso modo del movimento reale. Questi neuroni, scoperti in alcune scimmie antropomorfe, sono particolarmente sviluppati nell’uomo.
[5] Questo perché, a parità di altre condizioni, replicatori più fedeli, più longevi o più fecondi avranno maggiori possibilità di lasciare dietro di sé una discendenza numerosa e dunque di aumentare la propria frequenza nel pool genico o memico con il susseguirsi delle generazioni. Per “pool” si intende l’insieme dei replicatori presenti in un ambiente dato in un certo momento.
[6] Un fatto vero anche a livello genetico: si veda l’imponente Burt e Trivers 2008[2006]. Appaiono interessanti e andrebbero esplorati, in questo contesto, anche i concetti di simbiosi, parassitismo e commensalismo.
[7] E per quanto anche in questo caso alcuni assunti di base dell’ipotesi memetica non sembrino essere pienamente compresi. Si veda il ripetersi dell’affermazione in base alla quale i memi che sopravvivono sono quelli che avvantaggiano il proprio portatore: “Bad ideas (at least in the long run) do not last; they are parasitic memes, because they eventually kill their host”, p. 6.
[8] Senza pretesa di esaustività, riportiamo alcune citazioni in merito, da vari capitoli: “What predictions can we make about the directions which translation research will take next? Two lines of development can perhaps be distinguished, two memes that seem to be getting stronger” (p. 46); “I have suggested that some memes of translation become norms. But there are other kinds of translation memes, too: translation strategies are also memes. They are memes, that is, insofar as they are widely used by translators and recognized to be standard conceptual tools of the trade” (p. 87); “Memes are conceptual tools. They are aids to thought. […] This book has discussed various kinds of memes. […] …translation norms are also kinds of memes, insofar as they are indeed recognized cross-culturally to be norms. Translation laws are also memes of a kind, to the extent that they are known. And so are widely-used translation strategies. All such memes constitute a pool of concepts at the disposal of translators who wish to improve their expertise” (p. 151). Come si vede, nel volume l’idea di meme viene spesso a “raddoppiare” concetti che sarebbero altrettanto efficaci in sua assenza (le linee di sviluppo future della teoria della traduzione, le norme e le leggi di cui parla Toury, le strategie traduttive…).
[9] E il suo articolo “A theoretical account of translation – without a translation theory” (Gutt 1990).
[10] Ammettiamo volentieri che il dato non sembra tuttavia essere suffragato dalle statistiche: una rapida ricerca, dal 1976 al 2008, dei termini “memetic”, “memetics” o “memes” sul Google Ngram Viewer (Michel et al. 2010) mostra una tendenza alla crescita più o meno costante nel numero di citazioni del concetto. Sarebbe tuttavia interessante filtrare i dati in base alla tipologia di pubblicazione, cosa che al momento non è possibile.
[11] Ovviamente, visibili solo ex post: si tenga sempre presente la nota n. 3.
[12] Concetto che, per quanto ci è dato capire da una lettura per forza di cose approssimativa a causa dell’ignoranza della lingua in cui è redatto l’articolo, sembra consistere in un allargamento della traduzione e della sua importanza anche al di fuori degli ambiti a cui è normalmente applicata (il rapporto tra traduzione e paratraduzione dovrebbe essere simile a quello che intercorre tra testo e paratesto). In questo senso, il meccanismo traduttivo sembra essere per Baltrusch uno dei meccanismi-base del pensiero e dell’azione umana a vari livelli (da qui l’interesse per i neuroni specchio, che “traducono” in un certo senso un pensiero in azione: riprendendo l’esempio della nota n. 4 il rumore del foglio strappato è, per i neuroni, uguale all’azione di strapparlo fisicamente; i due aspetti sono dunque in un certo senso equivalenti e si compie una traduzione dall’uno all’altro). La questione, che meriterebbe di essere approfondita, esula dagli obiettivi della nostra trattazione.
[13] Quello che riteniamo un primo tentativo in questa direzione, con un’analisi – decisamente superficiale, per il momento – del rapporto tra pratiche e teorie della traduzione sourcières o ciblistes (Ladmiral 1986), è stato recentemente effettuato da chi scrive (Regattin 2011).
©inTRAlinea & Fabio Regattin (2011).
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