Perché lasciar languire una teoria?
Sull'approccio filologico alla traduzione letteraria
By Roberto Menin (Università di Bologna, Italy)
Abstract
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Italian:
Questo articolo propone alcune considerazioni sulla teoria filologica della traduzione letteraria, così come è stata formulata originariamente da Schleiermacher e poi sviluppata dagli apporti di Benjamin e a seguire dalla scuola ermeneutica, Heidegger e Gadamer in primis. Tale teoria, nel contributo originale di Benjamin, è rimasta sostanzialmente intatta e soltanto variata nel tempo, e costituisce ancora oggi un corpus ideologico compatto che però ha ben poco a che fare con le condizioni in cui era nata. In termini elementari, quella teoria è sorta come il tentativo di dare valore al processo traduttivo in una situazione che da secoli era immutata, e cioè nel contesto degli scambi interlinguistici pre-novecenteschi, anteriori allo sviluppo delle comunicazioni di massa e delle teorie che lo accompagneranno, come ad esempio la teoria dell’informazione e quella della comunicazione. Oggi, quel contesto interlinguistico non esiste più, si è profondamente trasformato se non addirittura rovesciato, e quindi credere di poter creare ‘valore’ alla traduzione in quel modo non ha più alcun senso, se non per chi persiste nel conferire una statura assoluta a tale blocco teorico, snaturandolo dalle condizioni in cui esso è sorto.
Keywords: translation theory, teoria della traduzione, traduzione letteraria, literary translation, schleiermacher, friedrich, benjamin, walter
©inTRAlinea & Roberto Menin (2001).
"Perché lasciar languire una teoria? Sull'approccio filologico alla traduzione letteraria"
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0. Introduzione
L’ossequio all’approccio filologico della traduzione letteraria può anche non essere produttivo. Una riflessione didattica.
E’ noto che la validità di un patrimonio di idee non viene messa in discussione dal cattivo uso che se ne fa. Se così non fosse, Nietzsche potrebbe essere accusato di protonazismo, e ahimé qualcuno ci ha anche provato. Ma è altrettanto vero che quando un corpus teorico è fatto oggetto di un radicato ossequio che sfida gli anni e i cambiamenti strutturali persistendo in una relazione di indiscussa reverenza, i rischi che corrono e gli adepti e soprattutto la teoria-feticcio di riferimento sono molteplici. La lunga storia del marxismo ne è una prova tangibile e ciascuno può scegliersi l’esempio che vuole, tante sono le possibilità che si offrono. Nelle scienze umane, ogni teoria ha bisogno di nutrimento, di continua verifica, di emendamenti pena il suo decadere in una nicchia ambigua del patrimonio del sapere. Mi riferisco in particolare alla teoria filologica della traduzione letteraria, così come è stata formulata originariamente da Schleiermacher e poi sviluppata dagli apporti di Benjamin e a seguire dalla scuola ermeneutica, Heidegger e Gadamer in primis. Io ritengo che pur nel contributo originale di Benjamin, tale teoria sia rimasta sostanzialmente intatta e soltanto variata nel tempo, e costituisce ancora oggi un corpus ideologico compatto che però ha ben poco a che fare con le condizioni in cui era nata. In termini elementari, quella teoria è sorta come il tentativo di dare valore al processo traduttivo in una situazione che da secoli era immutata, e cioè nel contesto degli scambi interlinguistici pre-novecenteschi, anteriori allo sviluppo delle comunicazioni di massa e delle teorie che lo accompagneranno, come ad esempio la teoria dell’informazione e quella della comunicazione. Oggi, quel contesto interlinguistico non esiste più, si è profondamente trasformato se non addirittura rovesciato, e quindi credere di poter creare ‘valore’ alla traduzione in quel modo non ha più alcun senso, se non per chi persiste nel conferire una statura assoluta a tale blocco teorico, snaturandolo dalle condizioni in cui esso è sorto. Situare una teoria delle scienze umane in un limbo metafisico produce ossequio, non confronto.
1. Le condizioni storiche della comunicazione interlinguistica sul finire dell’800
La teoria di Schleiermacher, riassumendo in termini brutalmente elementari, ruota attorno a due concetti, quello della Entfremdung e della Verfremdung. La radice ‘fremd’, ossia estraneo, straniero, non abituale sta a indicare il cuore del processo e le due direzioni in cui può procedere. La traduzione letteraria insomma è il tentativo di impossessarsi dell’altro, della cultura estranea e portarla in un alveo no-strano. Questo processo può verificarsi o spostando l’estraneità nel nuovo contesto e così naturalizzarla col conseguente rischio dell’adattamento (la Entfremdung) oppure straniando il lettore di arrivo e portarlo, attraverso un complesso e faticoso processo del linguaggio, nel contesto linguistico di partenza (la Verfremdung). Evidentemente, seguendo il primo procedimento, la ricchezza dell’altro viene depotenziata e quindi in ultima analisi sprecata in un procedimento di normalizzazione che elimina le differenze adattando la ricchezza dell’originale alle condizioni consolidate della cultura nazionale di arrivo. E solo il secondo processo garantisce, per quanto faticoso sia il cammino, un reale arricchimento del lettore e della cultura di arrivo che vengono invece parzialmente snazionalizzate, perché su di loro si innestano i semi prolifici dell’estraneo, pronti a dar nuovi frutti. A questa schematizzazione va aggiunta però una considerazione iniziale, che Schleiermacher pone come condizione di tale ragionamento. Tradurre in senso letterario (Übersetzen) è ben altra cosa dal traslare in senso funzionale (Dolmetschen), perché la traduzione funzionale, comunicativa serve a veicolare un mero contenuto e non a trasformare il sapere e il linguaggio come invece può fare la traduzione di opere letterarie. La comunicazione per scopi funzionali e quella per scopi estetici sono due mondi separati, non comunicanti e in fin dei conti incommensurabili. Se questi sono i dati teorici, qual era al tempo la condizione degli scambi interlinguistici? Porsi questa domanda equivale a ripensare il cambiamento storico che avviene con i mezzi di informazione di massa, e che sancisce la nascita della comunicazione globale nella storia dell’uomo, una condizione mai vissuta dalle molteplici culture nei secoli passati. In sintesi: le teorie di Schleiermacher chiudono una storia della comunicazione e se ne apre un’altra, quella moderna delle comunicazioni di massa, in cui tutto cambia. Proviamo a vedere in massima sintesi tale cambiamento. Per quanto esistessero ben prima del Novecento le lingue sovranazionali (il greco e il latino per i dotti e in particolare nelle scienze mediche, filosofiche, letterarie; il latino come riferimento ideale del linguaggio giuridico, il francese come lingua franca dell’aristocrazia ecc.), e per quanto lungo e tortuoso sia il formarsi delle varie lingue nazionali nella relazione con i dialetti e i linguaggi pre-esistenti, fino alla seconda metà dell’Ottocento la cultura nazionale e quella internazionale vivono una dicotomia secca in cui il pubblico nelle sue varie stratificazioni ha accesso soprattutto alla cultura della propria area linguistica (locale e/o nazionale). L’alterità è per eccellenza associata alla cultura e alla lingua straniera, mentre la cultura locale è un dato accessibile nelle forme e nei modi usuali della proprio destino sociale. Raro è il caso in cui il proprio affrancamento sociale e culturale significhi ad un tempo l’accesso alla cultura locale e a quella ‘internazionale’. Uno di questi, tanto più significativo proprio per la sua rarità, è il caso di Karl Philipp Moritz, insigne scrittore e saggista contemporaneo di Goethe. Le strade per accedere alle culture e alle lingue straniere sono riservate a un’elite, e praticarle significa sottoporsi a costosi studi preparatori e a impegnativi e disagevoli viaggi di istruzione che iniziavano non prima di aver stilato il testamento. Le barriere linguistiche erano tanto più alte in quanto non esistevano ancora dei media nazionali o sovranazionali che le superassero, anche solo in senso passivo. Le scoperte tecnico-scientifiche e l’introduzione del telegrafo prima, della radio e del telefono poi immergono il mondo in una nuova dimensione, ossia il vivere in una complessa contemporaneità sovranazionale e in una ubiquità mediatica. Ma nelle condizioni anteriori alla società di massa, è evidente come soprattutto in ambito letterario la conquista delle culture estranee significasse, in senso diacronico e poi via via sincronico, un enorme arricchimento degli orizzonti culturali rispetto alle proprie certezze locali. Il legame con la cultura classica, la sua riscoperta nei secoli a ondate successive, la conquista di spazi culturali inesplorati come il vicino e l’estremo Oriente, il mondo slavo e balcanico, l’area mediterranea e il patrimonio artistico italiano, tutto ciò era paragonabile in Europa a uno svezzamento delle elite culturali e della stessa produzione letteraria e artistica locale. Confrontarsi con l’altro significava allargare le basi delle proprie fondamenta conoscitive e creative, e quindi estendere e rafforzare il dato certo del proprio linguaggio e della propria cultura. L’esotico andava inoculato nella propria dimensione. Basti pensare che il Faust, l’opera di una intera vita poetica, altro non è che il tentativo di fondere indissolubilmente il passato medioevale del mondo germanico e l’orizzonte dell’antichità greca. Non possiamo certo affermare che la ‘cultura nazionale’ fosse, in un panorama così dinamico, una realtà certa e irrevocabile non passibile di incrementi e stratificazioni. Fatto è però che fosse l’unico riferimento delle proprie coordinate linguistiche e culturali. Chi poteva avere accesso alle lingue straniere? Quanti potevano permettersi un mentore di francese e italiano? E quanto avrebbe giovato a un figlio di commercianti, a un capomastro, a un giardiniere la conoscenza del francese, dell’italiano, del russo se mai si fosse sottoposto a un lungo apprendistato linguistico e a conseguenti viaggi di istruzione? Non solo la regionalizzazione linguistica e politica, ma anche quella economica bloccava ogni fruttuoso interscambio linguistico. Solo pochi specialisti, notariamente in ambito culturale, fungevano da mediatori nei processi interculturali, e a loro, e tra di loro, erano indirizzate le complesse riflessioni sull’appropriazione dell’alterità, sullo studio delle culture straniere, sullo svecchiamento delle culture nazionali grazie a benefiche immersioni in dimensioni sovranazionali. Senza dilungarci oltre, dovrebbe essere abbastanza chiaro che il quadro di riferimento della teoria filologica della traduzione, ossia dell’interscambio linguistico-culturale, guidi l’intellettuale-esperto a mettere a frutto per la cultura ‘nazionale’ (ormai si diceva così) lo studio dell’alterità sovra-nazionale. E in questo quadro, Schleiermacher sceglie la prospettiva di maggiore arricchimento: evitare ogni tensione all’adattamento dell’altro al noto col rischio di una sua normalizzazione; e decisa ricerca di una trasformazione in senso sovra-nazionale della propria cultura e addirittura della propria lingua.
2. Dov’è finita l’alterità nella comunicazione globale?
E’ strano come le teorie dell’informazione, quella di Luhmann per citare solo un esempio, non abbiano inciso nella traduttologia, se non un generale riferimento alla semiotica intesa però come disciplina capace di spiegare in senso ‘tecnico’ i fenomeni traduttivi. Non è il caso ora di riprendere in mano tali riferimenti, mi accontento di poche riflessioni ad hoc. Di fatto sembra che, a un primo esame, la comunicazione globale ci abbia sottratto ogni forma di alterità e di estraneità, catapultando le culture nazionali in un alveo di sapere condiviso a livello internazionale e fornendo, nel rapidissimo sviluppo economico prima occidentale e ormai mondiale, gli strumenti economici e linguistici per gestirlo. La situazione è radicalmente cambiata nel livello di istruzione, nell’apprendimento (quasi) di massa delle lingue straniere, nelle possibilità di acqusire agilmente per vastissimi strati sociali qualsiasi cultura altra. Oggi, ad esempio, non si tende più a definire una lingua non nazionale unicamente come ‘straniera’ ma la si può etichettare come Lingua 2. L’inglese è diventato una sorta di jargon veicolare a livello internazionale e anche gli idiomi delle più lontane e minoritarie comunità linguistiche sono alla portata di molti. L’accesso all’altro è un fatto ormai normale, pur nella fatica che sempre comporta. I nuovi programmi di ricerca nell’insegnamento delle lingue a livello di Comunità europea tendono a superare la stessa tradizione di apprendimento della Lingua 2 proponendo un insegnamento bilingue nei primi cicli scolastici in diversi istituti sperimentali europei. Insomma, nulla ci è più stabilmente estraneo, ma solo ‘incidentalmente ignoto’ e tutto può essere acquisito. Risparmio ogni ulteriore ragionamento sullo sviluppo della mondializzazione economica, sul lungo dibattito negli anni passati attorno al concetto di ‘villaggio globale’, sulla omogeneizzazione delle culture nazionali, ecc. Sono fenomeni noti. Ciò che forse non è ancora del tutto presente è la consapevolezza che questo processo di internalizzazione della cultura e di inevitabile dominio di una lingua veicolare in svariati ambiti porti a una ‘compressione’ fin qui sconosciuta delle lingue cosiddette nazionali. Il processo di unificazione europea ha fatto emergere ormai la consapevolezza che ogni lingua locale assume lo status di idioma protetto, da sostenere e da coltivare nel prossimo futuro. Lo stato dei rapporti interlinguistici ci porta a sostenere pur con una certa dose di approssimazione che ormai, in questa condizione di formale equità tra tutte le lingue, è in gioco la sopravvivenza storica di ciascuna di esse e per paradossale che possa sembrare, l’estraneità va cercata proprio là dove non ce l’aspetteremmo, in casa nostra, nella nostra madrelingua. Proviamo a porci la stessa domanda che evidentemente si ponevano i filologi della fine Ottocento: cosa possiamo fare per arricchire la nostra lingua e la nostra cultura nel nuovo quadro? Come dar valore a un processo interculturale per eccellenza come quello della traduzione? Quanto ci serve oggi la snazionalizzazione della nostra lingua e la sua apertura alla diversità non-nazionale? Esiste ancora una diversità al di fuori della nostra cultura e della nostra lingua o la nostra stessa lingua e la nostra stessa cultura non sono anch’esse una diversità, una alterità tra tante? Tra tutte le risposte che possiamno dare, una mi sembra abbastanza sensata, e cioè considerare la sopravvivenza storica della nostra lingua come uno dei compiti essenziali nel lavoro del traduttore. Sopravvivenza che va intesa in senso letterale: permettere alla nostra lingua di esistere significa fare in modo che esse possa ‘dire’ in senso contemporaneo tutto ciò che si dice nel mondo, con tutta la sua complessità, la sua ricchiezza, la sua espressività. E’ una tensione ben lontana da ogni illusione aulica, dalla difesa per decreto del nostro idioma, anche se tali tendenze esisteranno. Permettere la sopravvivenza della nostra lingua significa fare in modo che si possa esprimere la complessità del presente con i nostri strumenti linguistici. Ed ecco che, di tutte le riflessioni sulla traduzione quelle che ci portano nel cuore del problema sono proprio quelle che pongono come prospettiva centrale il livello linguistico nella lingua di arrivo, come del resto ormai avviene da anni nella traduttologia di area germanica e in parte anglo-sassone.
3. Quale divario esiste ancora tra comunicazione funzionale e universi estetici?
Resta da discutere la condizione necessaria delle riflessioni di Schleiermacher, ossia la dicotomia quasi assoluta tra comunicazione funzionale e espressione estetica. Già Schleiermacher identificava la differenza, che è un dato assestato nelle elite culturali europee, tra una comunicazione volta alla trasmissione di un messaggio (che cattura tutta l’attenzione del destinatario) e quella invece complessa degli universi estetici che coinvolge strati di destinatari ben più ampi, che non si risolvono nella semplice effettuazione dell’atto comunicativo. Tale dicotomia diventa sempre più marcata proprio con la diffusione dei mass-media, se Benjamin mette in apertura del suo saggio Il compito del traduttore, l’affermazione “Mai, di fronte a un’opera d’arte o a una forma artistica, si rivela fecondo per la sua conoscenza il riguardo a chi la riceve”. In altre parole, la comunicazione estetica non può essere commisurata all’effetto che ottiene sul ‘suo’ pubblico, perché è per definizione trans-storica, ha pubblici che si stratificano nel tempo (nello spazio e nelle classi sociali), ha una esistenza continua e la traduzione ne è proprio la riprova. Se ci contentassimo di questo spartiacque, in fondo, nulla sarebbe cambiato anche nell’universo della comunicazione globale dai tempi di Schleiermacher, perché la letteratura, la scrittura saggistica, ecc. sfuggirebbero all’universo di uno scambio linguistico mercificato che si concentra sull’oggetto del messaggio, sul contentuto informativo. La letteratura e la scrittura alta godrebbero quindi di uno splendido isolamento, oggi si direbbe di una posizione di nicchia, in cui alla estensione della comunicazione internazionale si contrapporrebbe l’intensione di una scrittura che attinge a tutta la ricchezza espressiva del passato. Ma l’espressione del presente e nel presente a chi la affideremmo? Ed è auspicabile e possibile una letteratura che si esprima in una lingua che rischia letteralmente di non ‘esistere più’, e con una profondità tutta radicata nel passato? E’ evidente che lo stato di salute della nostra lingua non può essere ignorato da chi voglia esprimere le passioni e le speranze dell’uomo contemporaneo in ambito estetico. E costui in che lingua si esprimerebbe, in inglese? O in una somma di linguaggi contaminati tra loro, in una mescolanza impenetrabile di dialetti che assumono da tutte le lingue del mondo? Ancora domande.
4. Versione interlineare e incapacità espressiva
Se la teoria della traduzione deve dar senso e valore a un atto del linguagggio, mi sembra chiaro che il modello filologico è tutto orientato a un passato che non tornerà più e a una visione dell’universo estetico che non considera il presente e la sua complessità. L’idea della ‘fedeltà’ all’alterità dell’originale e tutto il complesso delle teorie estranianti non riesce a comprendere i grandi fenomeni linguistici del presente proprio perché il dato della propria lingua autoctona è entrato in crisi, e si crea di converso una nebulosa confusione attorno al valore che si vuole difendere. Una confusione che ha qualche ripercussione anche a livello didattico. La fedeltà alla ‘parola’ dell’autore e alle specificità della sua ‘lingua’ diventa un feticcio poco rassicurante. Il rischio è che si scambi tutta la grande attenzione della filologia tedesca per la scoperta dell’alterità linguistica con l’incapacità espressiva. Proviamo a mettere in relazione la nota tesi di Benjamin sulla traduzione ideale con l’attualità. Possiamo forse riproporre oggi la versione interlineare e tutto il grande tema della ‘fedeltà’ all’originale come un percorso fecondo anche a livello didattico alto? O al contrario non è invece necessario far brillare anzitutto le differenze, e farle brillare nella lingua di arrivo che, dialetto tra i dialetti, deve uscire dalla sua condizione di alterità e offrire le sue potenzialità espressive anche all’esperienza estetica? Quale commistione impenetrabile di incapacità espressiva diventa la versione interlineare in un mondo globalizzato in cui la ricchezza espressiva è in via di estinzione? Sono queste le considerazioni che mi sono balzate a mente nel leggere un lavoro di traduzione in cui si faceva bella mostra nel commento delle teorie dell’Ottocento tedesco e della scuola heideggeriana e poi, nella traduzione, di sequenze poco rassicuranti di calchi ed espressioni infelici. Se c’è un linguaggio ‘altro’ da valorizzare bisognerebbe sapere a cosa serve e soprattutto come si articola. A condizione che si parta sempre da un linguaggio dato. Ma il dato, oggi, è una comunicazione universale di contenuti che non hanno più una lingua, e l’estraneità è ormai a casa nostra.
©inTRAlinea & Roberto Menin (2001).
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