Di scarpe, di vestiti e di nobili svestiti:
usi e costumi nella traduzione dei titoli di Andersen
By Bruno Berni (Istituto Italiano di Studi Germanici, Italy)
Abstract
English:
The translation of Hans Christian Andersen’s fairy tales is unique in the history of Danish-Italian mediation, for its long history and its extensive diffusion. This article focuses on an analysis of the titles, to demonstrate how certain anomalies – from reduction to relay translation, from the mistaken placement of the translations in series for children, to the selection of the translated texts – have influenced Italian translations of Andersen, with wrong choices in the rhematic titles and the whimsical translation of thematic titles.
Italian:
Per la sua lunga storia e l’enorme diffusione, la traduzione delle fiabe di Hans Christian Andersen è unica nella mediazione dal danese. All’interno del fenomeno, il contributo limita l’analisi ai titoli delle storie per dimostrare come le anomalie – dalla riduzione alla relay translation, dalla collocazione errata nel contesto editoriale per l’infanzia alla selezione dei testi tradotti – abbiano influenzato la traduzione, con scelte errate dei titoli rematici e traduzioni estrose dei titoli tematici.
Keywords: storia della traduzione, paratesti, paratexts, history of translation, relay translation
©inTRAlinea & Bruno Berni (2020).
"Di scarpe, di vestiti e di nobili svestiti: usi e costumi nella traduzione dei titoli di Andersen"
inTRAlinea Special Issue: La traduzione e i suoi paratesti
Edited by: Gabriella Catalano & Nicoletta Marcialis
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Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2483
Nel panorama della letteratura danese tradotta in italiano, e forse della letteratura tradotta in generale, Hans Christian Andersen rappresenta un’anomalia verosimilmente non ripetibile, che ha subito un destino singolare nel corso del tempo. Erroneamente relegate il più delle volte a un contesto editoriale per l’infanzia, anche in italiano le sue 156 fiabe e storie, nonostante fossero scritte in una lingua di così scarsa diffusione come il danese, sono state tradotte e pubblicate un gran numero di volte, almeno in edizioni parziali, subendo tuttavia ogni genere di trattamento, dalla traduzione indiretta alla riduzione, dall’adattamento alla versificazione e alla selezione[1]. Come per i contenuti, questo vale anche per i titoli delle raccolte e dei singoli testi che, come vedremo, nel corso del tempo sono stati modificati e adattati in funzione di un destinatario che non sempre coincide con quello previsto dall’autore.
Per quanto riguarda le raccolte nelle quali le fiabe e storie furono pubblicate a partire dal 1835, fu lo stesso Andersen a generare confusione al momento di attribuire i titoli. Un’iniziale intenzione di scrivere per i bambini trova riscontro nei titoli – rematici[2] – dei primi sei volumetti usciti a cadenza quasi annuale dal 1835 al 1842, cui l’autore attribuisce il titolo di Eventyr, fortalte for Børn, ovvero Fiabe narrate ai bambini. Che poi il titolo corrispondesse al contenuto non è sempre vero, perché se vi troviamo fiabe di sicuro effetto su un destinatario infantile, come L’acciarino – la prima – o Il tenace soldatino di stagno – pubblicata nel 1838 −, certo è che anche quei testi hanno una stratificazione tematica e linguistica che prevede due diversi destinatari, il bambino cui i testi potevano essere letti, ma anche l’adulto che glieli leggeva, mantenendo perciò fin dall’inizio un collegamento con due destinatari in diverse fasce d’età. Tale carattere evolve ulteriormente negli anni – in un totale di più di trenta raccolte contenenti un numero variabile di testi – verso uno stile del tutto personale e un destinatario molto spesso adulto.
Già nel sesto volumetto, uscito nel 1842, compaiono testi che poco hanno in comune con le fiabe per bambini, come L’elfo della rosa, testo dai tratti macabri che attinge a radici letterarie – una novella di Boccaccio[3] −, Il principe malvagio o Il grano saraceno, che ha origini bibliche[4]. L’autore doveva essersi reso conto di come la sua crescente sicurezza nella composizione e l’ampio ventaglio di generi esibito non permettessero più l’attribuzione di un titolo come Fiabe narrate ai bambini, e a partire dal 1844 al 1848 cambia la connotazione eliminando i bambini e pubblicando alcune raccolte di Nye Eventyr, ovvero Nuove fiabe.
L’evoluzione dei titoli rematici continua nelle raccolte successive e già nel 1850 scompare anche la definizione di Nuove: il volumetto di quell’anno ha, unico, il semplice titolo di Eventyr, Fiabe. Ma ancora più netta è la variazione che interviene a questo punto, poiché dal 1852 al 1855 Andersen cambia del tutto la connotazione e pubblica tre raccolte di Historier, Storie. Più tardi affermerà che:
Med dette Pragtbind var Eventyr-Samlingen afsluttet, men ikke min Virksomhed i denne Digtart; et nyt betegnende Navn maatte derfor tages til den nye Samling, og den kaldtes “Historier” – det Navn, jeg i vort Sprog anseer at være det bedst valgte for mine Eventyr i al deres Udstrækning og Natur. [...] Ammestuehistorien, Fabelen og Fortællingen, betegnes af Barnet, Bonden og Almuen, ved det korte Navn “Historier” (Andersen 1963-90: VI, 10)[5].
La mutazione del titolo non corrisponde a un cambiamento netto e improvviso nel tono, ma è piuttosto un modo per marcare la novità e l’originalità dei testi e sottolineare un’evidente evoluzione in atto. Il fatto non manca di stupire la critica che, se da un lato dichiara la sua sostanziale indifferenza rispetto a tali questioni nominali − “H.C. Andersen er en ypperlig Forfatter, hvad enten han kalder sine Frembringelser “Eventyr” eller “Historier”“ (Andersen 1963-90: VI, 163)[6] −, dall’altro ha difficoltà a comprendere la variazione, poiché fatica a comprendere la differenza nei testi.
Ma è solo a partire dal 1858 che nasce il titolo destinato – nelle intenzioni di Andersen – ad accompagnare il corpus da quel momento, con i volumetti di Nye Eventyr og Historier, Nuove fiabe e storie, alternati a quelli di Eventyr og Historier, Fiabe e storie, con un sistema che si ripete fino all’ultimo del 1872. Dal 1858 Eventyr og Historier diventa dunque il titolo generale imposto successivamente dall’autore (Genette 1987: 58-9; Genette 1989: 59-60). Va qui notato come Andersen avesse già fornito un’anticipazione della doppia definizione nel 1837, nell’introduzione − Til de ældre Læsere (Ai lettori più grandi), paratesto che non a caso identifica già il lettore adulto – alla raccolta dei primi volumetti, in cui afferma:
I min Barndom hørte jeg gjerne Eventyr og Historier, flere af disse staae endnu ret levende i min erindring; enkelte synes mig at være oprindelige danske, ganske udsprungne af Folket, jeg har hos ingen Fremmed fundet de samme (Andersen 1963-90: I, 19-20)[7].
Riguardo al destinatario infantile, che come si è visto è indicato esplicitamente solo nelle prime piccole raccolte, va notato come Andersen cerchi in seguito di allontanarsene sempre più e nel 1863, nell’introduzione a un volume che raccoglieva i testi pubblicati fino ad allora, riconosce la presenza di un doppio destinatario affermando che “der fortaltes for Børn, men også den Ældre skulde kunne høre derpaa” (Andersen 1963-90: VI, 4)[8].
Non è questa la sede per approfondire il complesso problema del destinatario delle fiabe di Andersen, né le questioni della scarsa presenza di temi fantastici nella maggior parte dei suoi testi o dello sviluppo della sua scrittura. Ma è opportuno notare come i titoli delle raccolte corrispondano a un’evoluzione interna che da un primo progetto di fiabe adattate per un pubblico infantile, nelle quali il fantastico era più presente, portò l’autore a comporre testi di vario genere, che divenne sempre più arduo continuare a definire fiabe. Tuttavia tale connotazione non scomparve, ma fu affiancata da quella di storie nelle ultime raccolte e nella definizione dell’intero corpus.
Quello che qui interessa sottolineare è come di tale complessa attribuzione di titoli rematici alle varie raccolte nel corso del tempo, che pure è essenziale per comprendere il carattere a dir poco duplice del corpus, nelle traduzioni non vi sia traccia. Di norma il titolo generale appare una scelta del tutto casuale nelle raccolte italiane, che per lo più ignorano la volontà autoriale e non rispecchiano la reduplicazione generica − Eventyr og Historier −, mentre sottolineano anche troppo spesso sia il destinatario infantile, sia lo sporadico contenuto fantastico. Se il titolo è “le lieu privilégié de transactions interculturelles entre éditeurs, traducteurs et auteurs” (Risterucci-Roudnicky 2008: 30), non sorprende che la strategia editoriale non si limiti al testo, ma elabori anche il titolo secondo i suoi scopi.
Uno strumento di grande utilità – ancorché ormai datato – per ripercorrere la storia della traduzione delle fiabe di Andersen in italiano almeno fino al 1970 è la bibliografia di quasi seicento voci pubblicata dalla Biblioteca Reale di Copenaghen nel 1974 (Juel Møller 1974), nella quale sono enumerate tutte le edizioni a partire dalla prima del 1862[9]. Il volume elenca i titoli delle raccolte, specificandone il contenuto in base al codice numerico che identifica le fiabe nel corpus, ed è provvisto di indici dei titoli che catalogano le varie possibili variazioni e infine le occorrenze di ciascun titolo nelle raccolte.
Dall’inventario è chiaro che le traduzioni italiane attingono a una varietà di definizioni rematiche e di specificazioni che quasi mai sono affini al binomio fiabe e storie. Le raccolte, che contengono un numero variabile ma in genere non alto di testi, prendono spesso il titolo da uno di essi accompagnandolo con l’indicazione e altre fiabe/storie/novelle, oppure adottano un singolo titolo rematico che va dai Racconti fantastici alle Novelle fantastiche, dalle Favole[10] alle Fiabe alle numerose Novelle aggiungendovi talvolta una specificazione sul destinatario (“pei giovinetti”, “pei fanciulli”).
Ma anche in assenza della specificazione, il contesto editoriale è quello della letteratura per l’infanzia, né peraltro è un caso se nella quasi totalità delle edizioni – soprattutto nel corso dell’Ottocento, quando Andersen non era ancora noto in Italia – non compaiono paratesti adeguati a presentare l’autore, pure necessari
in particolar modo quando si tratta di opere di autori pressoché sconosciuti in Italia, oltre tutto provenienti da una cultura anche poco familiare, non solo per quanto riguarda la sua letteratura, ma anche rispetto alla sua lingua, la sua storia e la sua realtà sociale (Nergaard 2004: 54).
Per tornare ai titoli, i casi in cui, fino al 1970, il binomio è mantenuto sono molto pochi − in una bibliografia, come si è detto, di centinaia di edizioni −, come per esempio due versioni indirette la cui origine è facilmente riconducibile a traduzioni intermedie tedesche. La Germania è infatti tra le poche aree linguistiche in cui – complice forse la collaborazione di Andersen con gli editori delle prime traduzioni – la duplice definizione di Eventyr og Historier passa frequentemente in quella di Märchen und Geschichten fin dalle prime edizioni ottocentesche (Albrecht–Plack 2018: 303-5) e ancora in quella completa in due volumi del 1982 (Andersen 1982). La prima edizione italiana che porta il titolo di Fiabe e racconti è invece quella, con 28 testi, curata nel 1927 (Andersen 1927) da Rina Maranini Melli[11] − della quale sono note le competenze di lingua tedesca (Melli 1927) − ripubblicata con lo stesso titolo fino al 1963. Nel 1969 l’editore Bietti amplia il numero dei testi, aggiungendo nuove traduzioni di Carla Ferri, per poi pubblicare nello stesso anno un cofanetto con quattro volumi e circa 120 testi, che per l’ampiezza e il carattere della scelta avrebbe giustificato il duplice titolo, tuttavia la raccolta assume invece il titolo – ingannevole, del resto – di Tutte le fiabe (Andersen 1969)[12].
La seconda edizione di fiabe del danese pubblicata con un titolo che rispetta l’originale è quella pubblicata da Ervino Pocar[13] per UTET (Andersen 1931). Tradotta certamente dal tedesco, l’edizione Pocar è peraltro il primo tentativo di collocare i testi di Andersen in un contesto editoriale diverso, in una collana non riservata all’infanzia – in questo caso la collana “I grandi scrittori stranieri” diretta da Arturo Farinelli per la casa editrice torinese – e non illustrata, dove il danese affianca altri classici delle letterature straniere, una collocazione che da quel momento, fino ai nostri giorni, è stata tentata a più riprese parallelamente a quella all’interno di volumi illustrati per bambini, che sono la larga maggioranza. Del 1954 è per esempio la traduzione di Alda Manghi e Marcella Rinaldi che, pur con il semplice titolo di Fiabe, raccoglie 107 testi in una collana prestigiosa come i “Millenni” Einaudi (Andersen 1954).
L’ultima raccolta a utilizzare il duplice titolo – molto oltre l’arco di tempo compreso nella bibliografia citata – recuperando quello voluto dall’autore, è quella pubblicata da Donzelli nel 2001 (Andersen 2001), che per la prima volta contiene in un’unica edizione l’intero corpus in traduzione diretta dal danese e in un contesto editoriale non riservato esclusivamente al pubblico infantile. La collana “Fiabe e storie” di Donzelli − che prende il nome proprio dalla raccolta anderseniana – si pone infatti l’obiettivo di riproporre a un doppio destinatario − in nuove traduzioni integrali − soprattutto testi tradizionalmente soggetti a riduzioni e adattamenti per l’infanzia, come Le mille e una notte e le fiabe di Perrault, Grimm, Brentano, o i romanzi di Dumas, Rice Burroughs, Kipling.
Ma se complessa è la situazione dei titoli attribuiti in traduzione alle raccolte, ancora più complesse sono le scelte per i titoli dei singoli testi. Nella loro forma originale, i titoli delle fiabe e storie di Andersen hanno in genere una relazione tematica diretta con il contenuto: per la maggior parte si tratta di titoli tematici “letterali” (Genette 1987: 78-9; Genette 1989: 81-2) che richiamano il tema o il protagonista, tipicamente con una costruzione semplice con articolo determinativo-sostantivo-(attributo e/o specificazione)[14]. Si tratta di titoli del tipo Fyrtøiet (L’acciarino), De vilde Svaner (I cigni selvatici), Prindsessen paa Ærten (La principessa sul pisello). Mai compaiono sottotitoli e in rari casi le “indicazioni generiche” sono integrate nel titolo (Genette 1987: 56-7; Genette 1989: 57-8), come in Historie om en Moder (Storia di una madre) – pubblicata peraltro, nonostante il titolo, in un fascicolo di Nuove fiabe − o En Historie fra Klitterne (Una storia dalle dune). Nell’originale danese sono estremamente rari i diminutivi, sempre composti – vista l’assenza nella lingua di una forma con suffisso – con l’aggiunta dell’aggettivo lille, in forme come Den Lille Havfrue (La sirenetta), Den lille Pige med Svovlstikkerne (La piccola fiammiferaia) o Lille Tuk (Il piccolo Tuk), con un esito che in traduzione non richiede – e talvolta infatti non ha – un diminutivo con suffisso. Il diminutivo italiano con suffisso – come del resto il vezzeggiativo − è una scelta possibile che riveste sempre una particolare funzione comunicativa, mentre nella lingua danese – contrariamente al tedesco, per esempio – una forma analoga non è possibile e i rari diminutivi con suffisso esistono solo in forme lessicalizzate.
L’iniziale equivoco che i testi fossero diretti esclusivamente a un pubblico infantile influenza però il contesto editoriale, che come si è detto rimane a lungo quello della letteratura per l’infanzia, con effetti positivi sulla loro ampia diffusione, ma anche con evidenti ricadute negative sulla loro selezione. I testi tradotti sono solo una parte del corpus e anche quando vengono scelti testi originariamente pensati per un pubblico più maturo, la tendenza all’edulcorazione dei contenuti influenza pesantemente la mediazione.
Tutto ciò si ripercuote inevitabilmente sulla traduzione dei titoli. Come i titoli rematici delle raccolte, così i titoli tematici dei singoli testi denotano la scelta di un preciso destinatario, ma a volte forniscono anche elementi per identificare la fonte della traduzione intermedia. Inoltre il contesto editoriale errato danneggia il testo e questo problema si riflette anche nel titolo. È vero infatti che alcuni titoli dei testi anderseniani sono riusciti ad assumere forma proverbiale, ma è vero anche che la tendenza a rielaborare gli originali ha investito anche i titoli in funzione di un adattamento al pubblico infantile, rivelando una precisa intenzione editoriale (Genette 1987: 15-6; Genette 1989: 12). Si verifica dunque, con tutta evidenza, “la propensione dell’editore a considerare anzitutto il valore pragmatico del titolo” (Elefante 2012: 76) per orientarlo secondo un contesto di arrivo che non coincide con quello di origine.
È per questo che molti titoli assumono un carattere prolettico che manca all’originale, anticipando elementi dell’azione, talvolta anche la fine. Così L’acciarino si trasforma in Da soldato a re, mentre “È proprio vero” (“Det er ganske vist”) diventa Le cinque galline o La bocca della verità. In alcuni casi invece manifestano una relazione tematica ambigua con il soggetto (Genette 1987: 80-1; Genette 1989: 83-4), come in I vestiti nuovi dell’imperatore (Keiserens nye Klæder) che cambia in Il vestito invisibile: il vestito non è invisibile come credono i personaggi, ma non c’è, come alla fine è chiaro al lettore. Del resto esiste almeno un caso in cui l’autore stesso sceglie l’ambiguità nella relazione tematica del titolo con il soggetto, portando consapevolmente il lettore fuori strada: si tratta del Brutto anatroccolo (Den grimme Ælling), che notoriamente – come il lettore scoprirà solo alla fine del testo − non è brutto né è un anatroccolo.
La fiaba L’acciarino, il cui titolo definisce un oggetto che qualche decennio dopo la sua pubblicazione è evidentemente desueto, subisce anche casi di adattamento alla vita quotidiana di un bambino del Novecento, in direzione di una semplificazione, cosicché in alcune traduzioni diviene persino La meravigliosa scatola di fiammiferi: l’editore sceglie il titolo in base alle – presunte – competenze del lettore (Cadioli 2007: 205). L’adattamento al lettore bambino è dunque all’origine di variazioni da parte del destinatore – traduttore o editore – cosicché in molte storie – e di conseguenza anche nei titoli – fiorisce inoltre un uso di diminutivi e vezzeggiativi privi di giustificazione filologica, ovvero anche in assenza dell’aggettivo danese lille: si va dalla principessina della Principessa sul pisello (Prindsessen paa Ærten) alla Fatina o Mammina o Nonnina del sambuco (Hyldemoer) all’Uccellino del canto popolare (Folkesangens Fugl). A causa del già citato problema del destinatario, quando nelle raccolte non si verifica l’esclusione delle storie non composte per i bambini, si assiste alla comparsa di diminutivi anche in testi in cui il contenuto dovrebbe scoraggiare l’avvicinamento forzato al pubblico infantile, come nel caso dell’Elfo della rosa (Rosenalfen), spesso trasformato in genietto o spiritello a dispetto dell’atmosfera della “fiaba” (che come si è già accennato proviene da una novella di Boccaccio), o come nelle Scarpe rosse (De røde Skoe), dove il diminutivo scarpette non ha riscontro nell’originale e appare fuorviante rispetto alla trama per molti aspetti tragica della storia, ma è praticamente la norma anche nelle edizioni più attente al testo di partenza.
Al di là dell’adattamento indebito, anche la traduzione indiretta – come talvolta è inevitabile − crea ingiustificate variazioni nei titoli: la mancata conoscenza del testo originale da parte dei mediatori riporta nella traduzione errori e variazioni introdotti nella lingua intermedia. Come non riconoscere, infatti, nella traduzione dal titolo La piccola Poucette a partire da Tommelise (Pollicina), l’uso di un testo intermedio francese? Ma se in simili casi il titolo fornisce informazioni sulla lingua intermedia, esiste almeno un caso di variazione a causa della traduzione indiretta che fornisce precise informazioni non solo sulla lingua del testo intermedio, ma anche sul suo contesto storico. Si tratta della fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore, in cui il titolo permette di ricostruire l’intera storia di un testo nel suo passaggio da traduzioni intermedie e infine all’italiano.
Nella fiaba originale compare un imperatore invece di un re per motivi di opportunità politica, perché Andersen, che viveva sotto la monarchia danese, evidentemente aveva preferito non rappresentare un re in una situazione così imbarazzante. Si tratta degli stessi motivi, del resto, a causa dei quali la stessa fiaba in Giappone ha sempre avuto come protagonista un re. Nelle edizioni italiane i sovrani si alternano (imperatore/re), ma tra le prime traduzioni fa la sua comparsa anche il titolo Gli abiti nuovi del granduca, attestato per la prima volta in italiano almeno nel 1864 (Andersen 1864), poi nel 1884 in un’edizione illustrata nel volumetto numero 22 della collana “Biblioteca illustrata dei fanciulli” dell’editore Sonzogno (D’Angella 2008: 11) e presente ancora oggi in alcune raccolte. È possibile risalire facilmente all’origine del titolo anomalo grazie ad altri aspetti paratestuali che forniscono indicazioni utili. All’epoca delle due raccolte italiane le fiabe di Andersen non erano ancora molto note in Italia (D’Angella 2008: 10), ma le illustrazioni di quella del 1864 e quelle del volumetto di Sonzogno del 1884 sono di Bertall[15], sebbene le prime siano firmate “Baldi” (ma “a imitazione di Bertall”). L’illustratore francese aveva lavorato all’edizione più diffusa in Europa nell’Ottocento, quella di Hachette tradotta da David Soldi (Andersen 1856): le due edizioni italiane sono dunque, senza dubbio, traduzioni indirette che hanno come testo intermedio l’edizione Hachette. Infatti il testo di tali versioni riporta come titolo Les habits neufs du grand-duc (Andersen 1856: 9-17). È evidente che il traduttore David Soldi, in un paese come la Francia che dal 1852 al 1870 ebbe un imperatore, nel 1856 doveva essersi trovato di fronte al medesimo problema di Andersen. Lo aveva risolto con una correzione – inserendo dunque un granduca in luogo dell’imperatore −, forse suggerita dalla censura ed eseguita evidentemente a ridosso della pubblicazione, visto che nello stesso volume l’indice riporta invece il titolo Les habits neufs de l’empereur (Andersen 1856: 333). Perciò nelle prime edizioni italiane, complice l’assenza di contatti con l’originale da parte di editori e traduttori, il titolo è passato – senza motivo − nella forma modificata da un traduttore francese, che talvolta riaffiora ancora oggi.
In Italia peraltro, nonostante la variazione acquisita, lo stesso testo ha una lunga tradizione, radicata ormai nella lingua, come riprova la locuzione “il re è nudo”, che usa il re in luogo dell’imperatore originale e viene fatta derivare – erroneamente − dal successo avuto in Europa dal testo teatrale omonimo (Golyj Korol’) di Evgenij L’vovič Švarč (spesso: Schwarz; 1896-1958), del 1934, che riprende – come spesso accadeva nelle sue opere − il tema di alcune fiabe di Andersen. Questo passaggio potrebbe giustificare l’attestazione della locuzione anche in tedesco, dove il titolo tradotto non riporta mai un re, ma sempre un imperatore, tuttavia i due atti di Švarč non sono mai stati pubblicati né messi in scena prima del 1960. In italiano invece il titolo è frequente già a inizio Novecento e la locuzione pare attestata molto precocemente, come dimostra un uso della scena già nel 1915 (Einaudi 1915: 193): è dunque evidente che ben prima di Švarč la variante che comprendeva il re doveva aver già avuto ampia diffusione in Italia a danno di quella con l’imperatore.
Al di là delle notizie storiche sulla genesi delle traduzioni, le informazioni editoriali fornite dai titoli di Andersen sono dunque illuminanti sulla metamorfosi avvenuta nel corso del tempo in traduzione. In Italia i titoli rematici generali delle raccolte hanno subito “una vera e propria erosione” (Genette 1987: 67-8; Genette 1989: 70), e in quelli tematici dei singoli testi la forzatura insita nella ricerca di un destinatario infantile ha portato i destinatori – in questo caso editore e traduttore – ad allontanarsi in qualche modo dalle intenzioni del destinatore dell’originale operando, oltre a una selezione dei testi, una modifica dei titoli in una “reintitolazione postuma” (Genette 1987: 71; Genette 1989: 73) guidata da un ampio sforzo di domesticazione, parallelo a quello avvenuto nell’adattamento all’interno dei testi.
Nonostante le fantasiose variazioni avvenute per forzare l’inserimento in un contesto editoriale per l’infanzia di uno scrittore che non sempre era adatto allo scopo, e che dunque interessavano anche il titolo − uno degli elementi che più contribuiscono a indirizzare il messaggio del testo al destinatario delle fiabe −, una tradizione anderseniana si è stabilita abbastanza presto e ancora oggi alcuni titoli delle fiabe, con l’eccezione di un topos come il “re nudo” − che come si è visto ha avuto un percorso più lungo − hanno assunto una forma stabile nella lingua italiana in una veste estremamente vicina alla loro forma originaria: La principessa sul pisello, La piccola fiammiferaia, Il brutto anatroccolo e La sirenetta sono locuzioni entrate nell’immaginario comune, che evocano – sia pure in modo spesso imperfetto e mediato – un contesto riconosciuto dai più grazie all’enorme penetrazione delle fiabe e storie di Andersen nella nostra cultura.
Resta da vedere quanto un moderno rispetto dell’originale nelle traduzioni di oggi, eseguite direttamente dal danese − con la ricostituzione della forma filologicamente corretta dei titoli e dei testi −, una collocazione in un contesto editoriale non rivolto esclusivamente a un destinatario infantile, e di conseguenza la possibilità di consegnare alla lettura l’intero corpus in tutte le sue sfumature, siano in grado di mutare almeno in parte il destino di un’opera così composita ampliando il numero dei lettori, nel rispetto di quella che in fondo era la volontà dell’autore.
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Note
[1] Per una breve storia delle traduzioni di Andersen in Italia si vedano Badini 2005; Berni 2009, 2016.
[2] Si adottano qui per i titoli le categorie proposte da Gérard Genette, che pure nella titolazione non contempla una relazione diversa da quella tra editore e autore, ovvero non prende in esame il problema delle variazioni del titolo in traduzione. Per le definizioni di titoli rematici e titoli tematici cf. Genette (1987: 75-6; 78-85), Genette (1989: 78-9; 81-8).
[3] La novella di Elisabetta da Messina, il quinto racconto della quarta giornata del Decameron.
[4] Esodo, 33,18-20.
[5] “Con questo volume di lusso si era conclusa la raccolta di fiabe, ma non la mia attività in questo genere; perciò era necessario adottare un nuovo nome appropriato per la nuova raccolta, e fu chiamata “Storie” – il nome che nella nostra lingua è considerato la migliore scelta per le mie fiabe in tutta la loro estensione e la loro natura. [...] La storia per bambini, la favola e il racconto sono definite dal bambino, dal contadino e dal popolo col breve nome di “Storie”“. Quando non diversamente indicato, la traduzione delle citazioni è di chi scrive.
[6] “H.C. Andersen è un eccellente narratore, che chiami i suoi prodotti “Fiabe” o “Storie”“.
[7] “Durante l’infanzia ascoltavo volentieri Fiabe e storie, molte di esse sono ancora vive nella mia memoria; alcune mi sembrano originali danesi, nate proprio dal popolo, in nessun altro paese ne ho trovate di uguali”. Corsivo mio.
[8] “[...] erano raccontate per i bambini, ma anche l’adulto doveva poterle ascoltare”.
[9] In realtà l’edizione Gnocchi del 1862, citata da Juel Møller e da altri – ma tutti dichiarano di non averla visionata –, non è mai stata localizzata. La raccolta più antica di cui si abbia sicuro riscontro è quella del 1864 (Andersen 1864). Sull’argomento: Vagliani 2005: 13.
[10] Trattando qui il binomio fiaba/storia (o racconto) all’interno della produzione narrativa di Andersen, non vale la pena soffermarsi sull’attribuzione di altre definizioni, come quella di favola, che solo nella lingua italiana, forse per affinità fonetica, conserva nell’uso un errato valore sinonimico con fiaba, contrariamente a quanto accade in tutte le lingue occidentali che mantengono distinta l’opposizione dei termini: cf. ted. Märchen/Fabel, ingl. fairy tale/fable, fr. conte (de fées)/fable), sp. cuento/fábula.
[11] Rina Melli (1882-1958), giornalista e sindacalista, moglie di Paolo Maranini − tra l’altro direttore della Bietti − tradusse già nel 1927 per la casa editrice diretta dal marito una raccolta di ventotto fiabe (e racconti) firmandola con entrambi i cognomi. Pubblicato a più riprese fino ai primi anni Sessanta, a partire dall’edizione del 1941 il volume riporta (forse a causa delle leggi razziali del 1938 e dell’origine ebraica di Rina Melli) solo il cognome Maranini.
[12] La raccolta contiene, oltre a testi di Andersen anche di non facile reperimento in italiano, quattro testi che non possono essere ricollegati all’autore danese.
[13] Ervino Pocar (1892-1981), pur avendo tradotto – soprattutto a partire dagli anni Trenta – autori nordici quali Bjørnson, Andersen, Jacobsen, Hamsun, Ibsen e Lie, fu traduttore dal tedesco tra i più noti del Novecento e le sue versioni da lingue nordiche sono sicuramente indirette, eseguite partendo da un testo intermedio tedesco.
[14] Per l’articolo nei titoli cf. Weinrich 2001: 60.
[15] Charles Constant Albert Nicolas d’Arnoux de Limoges Saint-Saëns, detto Bertall (1820-82), era un prolifico illustratore francese.
©inTRAlinea & Bruno Berni (2020).
"Di scarpe, di vestiti e di nobili svestiti: usi e costumi nella traduzione dei titoli di Andersen"
inTRAlinea Special Issue: La traduzione e i suoi paratesti
Edited by: Gabriella Catalano & Nicoletta Marcialis
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