Dublino Digitale: Tradurre la Cybercity
By Michael Cronin (Trinity College Dublin, Ireland)
Abstract
Keywords:
©inTRAlinea & Michael Cronin (2021).
"Dublino Digitale: Tradurre la Cybercity"
inTRAlinea Special Issue: Space in Translation
Edited by: Lucia Quaquarelli, Licia Reggiani & Marc Silver
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2579
So This is Dyoublong?
Hush! Caution! Echoland!
James Joyce Finnegans Wake
Nel 1848, anno meglio conosciuto come la primavera dei popoli e delle nazioni, duemila polacchi lasciarono la Polonia occupata dai russi per combattere a fianco degli ungheresi contro i dominatori austriaci. La rivolta fallì e molti dei polacchi sconfitti andarono in esilio in Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Ignazio, un personaggio nel romanzo di Bolesław Prus, La Bambola (1890), è uno di questi insorti erranti che, più avanti negli anni, tornato a Varsavia, riflette sul suo periodo di esilio:
Qualche giorno dopo la morte di Katz varcammo la frontiera della Turchia e poi, per due anni, io che ero ormai solo, vagabondai per tutta l’Europa; in Italia, in Francia, in Germania e perfino in Inghilterra. Ma dapertutto mi tormentava la miseria e mi divorava la nostalgia per il mio paese. Talvolta avevo l’impressione di perdere il senno tra quel diluviare di parole straniere, in mezzo a quella gente diversa dalla nostra, in quelle terre diverse da quella polacca. (Prus 1959: 215)
È la classica descrizione dell'esperienza dell'emigrante presentata come rottura, disorientamento e perdita brutale. Nell'elencare ciò che aveva lasciato, Ignazio menziona subito la lingua. Teme di annegare nel "diluviare di parole straniere", mentre la sua lingua nativa è portata via dalla risacca dello spaesamento. Costretto all'esilio da circostanze politiche, Ignazio si rende conto che una translatio nello spazio significa inevitabilmente, e nel suo caso tragicamente, una translatio nella lingua. In questo saggio, voglio avanzare l’ipotesi che il paradigma scismatico dell'esperienza della lingua migrante, implicito nelle riflessioni dell'ex esiliato polacco – e cioè l'abbandono radicale della lingua madre per una o più lingue diverse – sia oggetto di una trasformazione importante nel mondo digitale contemporaneo e questa trasformazione abbia implicazioni significative sul modo in cui pensiamo la città come zona di traduzione. Per illustrare le mie osservazioni, farò riferimento alla città di Dublino, che ha visto un notevole flusso migratorio nel primo decennio del XXI secolo. Nel valutare le variazioni del paradigma, tre elementi caratterizzeranno la mia analisi intesa a valutarne i cambiamenti: comunicazione, presencing e virtualità.
Comunicazione: Castells et al. in Mobile Communication and Society: A Global Perspective (2006) affermano che è fondamentale, per ciò che comunichiamo, il modo in cui lo comunichiamo:
Poiché la comunicazione è il processo fondamentale dell'attività umana, la modificazione dei processi di comunicazione mediante l'interazione tra le strutture sociali, la pratica sociale e una nuova gamma di tecnologie di comunicazione, determina di fatto una profonda trasformazione sociale. (Castells et al 2006: 246)[1]
La Comunicazione non può essere distinta dai modi con cui avviene. Ogni volta che cambiano le tecniche per veicolare un significato, cambia il significato stesso. In quanto forma di comunicazione, la traduzione non fa eccezione a questa regola e, come sostengo altrove, le tecnologie basate sul web hanno profondamente alterato sia la pratica che la ricezione della traduzione (Cronin 2013). Se la città è, tra le altre cose, un forum e un facilitatore della comunicazione, l'avvento negli spazi urbani di nuove forme di Information and Communications Technology (ICT) avrà un impatto sulla natura, l'ampiezza e l'intensità della comunicazione che vi ha luogo. Pertanto, qualsiasi tentativo di comprendere la natura della Migrant Communication e delle pratiche traduttive nella metropoli contemporanea deve tener conto dei cambiamenti delle tecnologie di comunicazione.
Presencing: un modo usuale di vedere i migranti è pensare a loro come nati in un luogo e aver scelto, intenzionalmente o meno, di vivere e lavorare in un altro. Il rapporto dialettico è tra presenza e assenza, presente in un luogo, assente in un altro. E tuttavia si potrebbe contestare questa opposizione e suggerire che la bipolarità di questa classificazione nasconda una forma più fluida dell'essere nel mondo contemporaneo, colta con il termine presencing. Con questo termine intendiamo forme di presenza che non implicano un effettivo spostamento spaziale o corporeo, ma che portano qualcuno o qualcosa nel raggio d’attenzione degli altri in un altro punto dello spazio e/o del tempo. Una caratteristica degna di nota delle tecnologie digitali, ad esempio, è l'uso estensivo di presencing, come la pratica diffusa di chiamare parenti lontani via Skype. Ragionando più complessivamente, possiamo concepire la traduzione stessa come una forma di presencing, un rendere presente in una lingua ciò che è stato assente da quella lingua perché inizialmente espresso o formulato in un'altra. In altre parole, ciò che la nozione di presencing mette in discussione è l'assolutismo dicotomico di presenza e assenza, suggerendo che ci sono modi di essere presenti che non sono riconducibili all’essere fisicamente o a casa o fuori casa.
Virtualità: uno degli sviluppi più importanti negli ultimi due decenni è stato il passaggio dai PC situati in postazioni di lavoro fisse, alla propagazione dell’informatica diffusa sotto forma di portatili, palmari senza fili, telefoni cellulari con connettività Internet e così via. Non sono in movimento solo gli esseri umani, ma anche le loro macchine. Come affermano i sociologi britannici Dennis e Urry, "Questo spostamento all’informatica diffusa sta portando a una svolta verso un sistema computerizzato ubiquo in cui le associazioni tra persone, luogo/spazio e tempo sono incorporate in una relazione sistemica tra una persona e il suo ambiente cinetico.” (Dennis e Urry 2007: 13). L'informatica onnipresente, a volte indicata come la "terza ondata del computer", è destinata a "superare quella del personal computer tra il 2005 e il 2020” e potrebbe vedere i computer "incorporati in muri, sedie, vestiti, interruttori della luce, automobili - in tutto” (Brown e Weiser 1996). Greenfield parla di everyware[2] in cui l'elaborazione delle informazioni è incorporata agli oggetti e alle superfici della vita quotidiana (Greenfield 2006: 18). Il probabile impatto sociale di everyware può essere paragonato all'elettricità che passa invisibile nelle pareti di ogni casa, ufficio e automobile. La transizione da postazioni di accesso fisse a una maggiore presenza di tecnologia wireless, insieme alla crescita esponenziale della capacità di Internet, significa che i sempre maggiori flussi di informazioni stanno diventando parte di un ambiente completamente saturo di informazioni.
Una conseguenza dell'emergere di questa ubiquità informatica è che la capacità computazionale si fonde con l'ambiente fisico, nelle architetture e nelle infrastrutture. Marcos Novak ha coniato il termine "transArchitettura" per indicare "un'architettura liquida trasmessa attraverso le reti di informazione globali; all'interno dello spazio fisico esiste come un doppio elettronico invisibile sovrapposto al nostro mondo materiale" (Novak 2010). Già negli anni ’90, William Mitchell aveva parlato di una "città di bit" dove l’insieme delle strutture fisiche negli spazi urbani e deli spazi elettronici e telematici sarebbe stata conosciuta come "architettura ricombinante" (Mitchell 1995: 46-105). Le città allora esistono a due livelli di realtà, il fisico e il virtuale. Quando si localizzano le esperienze dei migranti all'interno della zona di traduzione della città, questo duplice livello di realtà deve essere preso in considerazione se vogliamo comprendere appieno le molteplici modalità di abitare una città insite nel ricombinarsi del mondo fisico e di quello virtuale.
Migrazione Irlandese
L’Irlanda è un paese ben conosciuto per la migrazione ma di solito in una sola direzione, verso l'esterno. All'inizio del diciannovesimo secolo l'Irlanda aveva una popolazione di circa otto milioni di persone, ma nel 1861 la popolazione si era quasi dimezzata a 4,4 milioni, a causa dei decessi e delle malattie causate dalla Grande Carestia (1845-1848) e della consistente migrazione verso altre regioni del mondo anglofono. Nel 1961, la popolazione della Repubblica d'Irlanda era scesa a 2,8 milioni. La situazione non è cambiata molto con l'adesione dell'Irlanda all'Unione Europea nel 1973 e anche all'inizio degli anni '90 l'Irlanda è stata l'unico Stato membro dell'UE ad avere un tasso di migrazione netto in uscita (Ruhs e Quinn 2009: 1-2). Il boom economico iniziato alla fine degli anni '90 e continuato fino al drammatico crollo del settore bancario nel 2008, ha portato a un netto cambiamento nelle fortune migratorie dell'Irlanda. Per la prima volta dalle piantagioni coloniali di popolazioni stanziali nel XVII secolo, si sono visti flussi significativi di persone provenienti da altri paesi verso l’Irlanda. Nel 2007, con 14,5 migranti in arrivo ogni 1.000 abitanti, l'Irlanda aveva il più alto tasso di immigrazione netta dopo la Spagna e Cipro. Si è giunti al massimo dei flussi nel 2006 e nel 2007 con circa 100.000 migranti in arrivo ogni anno. Tuttavia, nonostante la prolungata recessione che ha accompagnato il salvataggio dell'economia irlandese da parte dell'UE/FMI, il numero complessivo di migranti è di poco diminuito. Tra il 2008 e il 2012, 172.000 migranti hanno lasciato l'Irlanda, a fronte di 140.000 nuovi ingressi (Crosbie 2013: 3). Le persone nate all'estero rappresentavano solo il 6% della popolazione nel 1991, la percentuale è salita al 10% nel 2002, al 15% nel 2006 e al 17% nel 2013 (Ruhs 2009; Crosbie 2013: 3). Accanto all'aumento del numero di migranti in Irlanda, c'è stata una notevole diversificazione linguistica fra immigranti: ora ci sono più di cento lingue parlate nell'area metropolitana di Dublino. Dei 544.357 cittadini non irlandesi che vivevano nella Repubblica nel 2013, 122.585 erano polacchi, 112.259 britannici, 36.683 lituani, 20.593 lettoni e 17.642 nigeriani (Crosbie 2013: 3). Dato il recente e drammatico cambiamento nelle dimensioni e nella natura della popolazione migrante in Irlanda, in che modo i fattori di comunicazione, presencing e virtualità hanno influito nelle esperienze delle comunità di migranti a Dublino e cosa può dirci questo impatto sulla natura contemporanea della città come zona di traduzione?
De-materializzazione
Uno dei modi più comuni di rendersi conto della presenza dei migranti nelle città è attraverso la nozione di enclave etniche (denominate in senso peggiorativo "ghetti") che costituiscono il paesaggio etnico della città. Si tratta di zone dove ci sono di solito elevate concentrazioni di particolari gruppi etnici, spesso caratterizzate dalla presenza di scuole, negozi, edifici religiosi funzionali alle diverse esigenze della comunità. La segnaletica pubblica e privata nella lingua della comunità di migranti è la prova visibile più immediata dell'esistenza della differenza. L'esempio più citato è "Chinatown" in varie città del mondo, ma in molte città, queste comunità tendono a essere associate ad aree specifiche della città (vedi Simon 2006; Simon 2012). Tuttavia, se si comincia a guardare la città considerando le forme diverse di comunicazione e la crescente incidenza della virtualità, allora il modo di concettualizzare o visualizzare il paesaggio etnico è destinato a cambiare.
Lee Komito, in uno studio dettagliato del 2011 sull'uso delle nuove tecnologie da parte di un gruppo rappresentativo di cittadini stranieri che vive in Irlanda, con sede prevalentemente a Dublino e dintorni, ha scoperto che la maggior parte dei migranti tendeva a socializzare con connazionali o altri migranti. Tuttavia, il modo in cui avveniva questa comunicazione stava cambiando, in quanto una buona parte della comunicazione avveniva tramite il telefono cellulare o gli SMS:
Ovviamente, il telefono cellulare e gli SMS sono un mezzo diffuso per coordinare la vita sociale di quasi tutti noi, ma, nel contesto dei migranti, consente alle persone che sono geograficamente disperse di incontrarsi ancora faccia a faccia. Una vita sociale così circoscritta è ciò che molti migranti hanno affermato di desiderare. Questo non era possibile prima ad un costo così favorevole; in precedenza, richiedeva la stretta vicinanza residenziale, caratteristica delle comunità enclave etniche. Ora, i telefoni cellulari consentono ai migranti di organizzare una vita sociale che può includere solo i loro connazionali, anche quando questi sono dispersi in tutta la città. (Komito 2011: 1080)
Quindi, uno degli effetti del passaggio a forme di comunicazione virtuali non è tanto l'eliminazione della comunicazione diretta, quanto piuttosto la rimozione di uno dei fattori alla base della "stretta vicinanza residenziale caratteristica delle comunità di enclave etniche". Lo studio di Komito del 2011 rileva inoltre come la comunicazione virtuale a buon mercato significa che la logistica dell'interazione non dipende più dalla prossimità spaziale; in questo modo viene indebolita la logica comunicativa della vicinanza fisica agglomerata. In un certo senso, si può sostenere che si è di fronte a un'operazione di un triplo spostamento logico, vale a dire il passaggio da una logica di disgiunzione a una logica di dispersione, il passaggio da una logica di traccia a una logica di collegamento e il passaggio da una logica della fissità a una logica di nomadismo. In altre parole, i soggetti nello studio di Komito non abitano più spazi distintivi e disgiunti cioè specifici o caratterizzanti e separati, nei paraggi, ad esempio, della comunità filippina o polacca. Ormai sono dispersi in tutta la città, ma possono rimanere in costante contatto grazie alle ICT a basso costo. A questo proposito, è il collegamento virtuale ad avere sempre più la precedenza sulla traccia fisica. Sebbene nelle città ci siano insegne e avvisi (tracce) di negozi in polacco, sono in numero estremamente ridotto rispetto all'importanza relativa della comunità polacca nella città e nel paese in generale. Infine, il passaggio dal computer fisso a quello ubiquitario, che abbiamo notato in precedenza, si manifesta nell'abbandono degli Internet cafè e dei call center (fissità), portali obbligatori della connettività negli spazi urbani, per ricorrere all’uso più diffuso di smartphone, tablet, portatili (nomadismo) come mezzo per accedere a Internet e ad altri membri di una comunità linguistica o etnica (Komito 2004). In un certo senso, ciò che sta accadendo è un graduale spostamento dei significanti dell'alterità linguistica dallo spazio fisico della città allo spazio virtuale del mondo online. Komito osserva, ad esempio, per quanto riguarda i social media, che “i siti della rete sociale erano rilevanti per la maggior parte dei migranti: il 30% degli intervistati polacchi utilizza un sito di social networking (SNS) una volta al giorno e ne utilizza un secondo 26% più volte a settimana, mentre il 37% dei filippini utilizza quotidianamente un sito di social networking e un secondo 26% più volte alla settimana” (Komito 2011: 1079).
Tra le forme di comunicazione virtuale diverse dal telefono cellulare e dai messaggi di testo utilizzati dai migranti polacchi e filippini, ci sono Skype, Instant Messaging (solitamente Yahoo Messenger), Gadu-Gadu (Instant Messaging polacco), Nasza Klasa (sito social polacco), e-mail, webcam e Facebook. In altre parole, mentre la rappresentazione per eccellenza della città come zona di traduzione o centro cosmopolita presenta un seducente collage di insegne, personaggi e vetrine di negozi diversi, è ipotizzabile che nell'era digitale ci sia un nuovo tipo di transarchitettura linguistica in cui le reti di connettività del linguaggio virtuale avvolgono gli spazi fisici della metropoli. Una delle sfide, infatti, nel visualizzare la città contemporanea, è quella di immaginare o catturare questa moltitudine di connessioni linguistiche che non sono soggette ad assetti di visibilità più convenzionali o del passato. È inoltre la natura nascosta di queste forme di associazione linguistica che non si concretizzano in tracce fisiche che può rendere meno visibile di quanto potrebbe essere il vero lavoro di traduzione del migrante. Nella prossima sezione vedremo come questa dematerializzazione della differenza linguistica abbia un impatto sulle forme di presenza che stanno riconfigurando la città come luogo di traduzione.
Presencing
Dana Diminescu in "The connected migrant: an epistemological manifesto" è estremamente critica nei confronti di ciò che considera la fissazione degli studi sulla migrazione con il concetto di fissità. Diminescu considera infatti imprecisa e inutile la tendenza a stabilire rigide delimitazioni tra presenza e assenza, stanziale e nomade e tra mobilità dei migranti e mobilità sedentaria e, partendo dalle ricerche che ha condotto in Francia, sostiene che i ricercatori devono essere molto più consapevoli di come i migranti, attraverso le ICT, rinnovino continuamente il loro legame con il luogo o la comunità che hanno lasciato:
Questo legame "virtuale" - via telefono o e-mail - rende più facile di prima stare vicino alla propria famiglia, agli altri, a ciò che accade loro, a casa o altrove, e permette persino di farlo meglio. La figura paradigmatica del migrante sradicato lascia il posto a un'altra figura: ancora mal definita ma che corrisponde a quella del migrante in movimento che fa affidamento ad alleanze esterne al proprio gruppo di appartenenza senza tagliare i legami con la rete sociale di casa. (Diminescu 2008: 567)
Non solo è cambiata la dialettica tra presenza e assenza, ma si è modificata la natura stessa di "presenza":
L'idea di “presenza” è […] diventata meno fisica, meno “topologica” e più attiva e affettiva, così come l'idea di assenza è implicitamente alterata da queste pratiche di comunicazione e co-presenza. (572)
Questa nozione alterata di presenza si lega al passaggio dai modi di conversare in cui la comunicazione compensa l'assenza, principalmente centrata sullo scambio di conoscenze, a modalità connesse in cui i servizi ICT mantengono ''una forma di presenza continua nonostante la distanza'' (572). Come ha sottolineato Christian Licoppe, sempre più spesso gli utenti, quando ricorrono a forme di comunicazione digitale, "parlano di un sentimento, di un'emozione immediata, dello stato in cui ci si trova" (2004: 141). Ciò che colpisce è che queste forme di presenza connessa sono molto sensibili alle modalità di presenza remota, cambiano la loro "natura cognitiva ed emotiva secondo la ricchezza dell'interazione" (142). Più complesse sono le interazioni consentite dalle tecnologie digitali (suono, visione, testo, bi-direzionalità e contenuti generati dagli utenti del Web 2.0), maggiore è l'enfasi sulle forme di comunicazione fàtica, dove la 'presenza' emotiva è importante quanto la trasmissione di conoscenze strumentali. Queste affermazioni sono state confermate da uno studio di Carla De Tona e Andrew Whelan sull'uso di Internet e dei telefoni cellulari nelle organizzazioni di donne migranti in Irlanda. Nel loro studio, che si è basato in gran parte sull'esperienza delle donne migranti nell'area metropolitana di Dublino, hanno notato che messaggiare (SMS) era la modalità di comunicazione preferita perché favoriva la rapidità, la spontaneità e un senso di maggiore vicinanza al destinatario in tempo reale. Le espressioni di sostegno emotivo erano importanti quanto le risposte pragmatiche alle richieste di informazioni. Come sostengono De Tona e Whelan, "l'emergere di reti sociali mediate" porta a una "riconfigurazione della rottura esperienziale della migrazione" (in corsivo nel testo) e proseguono affermando:
la ri-mediazione implica che le donne migranti agiscano collettivamente per creare spazio per sé stesse nel loro nuovo paese di destinazione, per rimediare alle dislocazioni e alle fratture della traslocazione, creando uno spazio istituzionale per l'auto-rappresentazione e l’azione. (2009: 14).
Se De Tona e Whelan mettono in evidenza la logica della dispersione nell'immaginare nuove reti di solidarietà per le donne migranti negli spazi urbani, quella stessa logica, naturalmente, per il migrante “connesso” significa la possibilità di monitorare costantemente, anche se in modo approssimativo, quanto avviene nel luogo di provenienza che ha lasciato. Una maggiore ricchezza nella natura dei contenuti che possono essere comunicati (foto e altri materiali visivi sulle pagine Facebook), velocità più elevate e costi inferiori, facilitano per i migranti partiti forme di presenza ambientale o presencing che Lee Komito paragona “alle conoscenze di base che esistono nelle comunità reali, dove le persone vedono chi sta parlando con chi in un luogo di incontro del villaggio, sia esso un pub, un bar, un mercato o un ufficio postale” (Komito 2011: 1083). Quali sono le implicazioni per la traduzione di queste forme di presencing che accompagnano l'ascesa delle tecnologie digitali negli ambienti dei migranti?
In primo luogo, l’idea del migrante connesso e presencing implica contatti frequenti o continui con la sua lingua materna, sia attraverso la comunicazione virtuale con altri membri del suo gruppo linguistico sparsi per la città, sia attraverso frequenti interazioni con individui o gruppi dal suo luogo di origine. Così, piuttosto che il modello dicotomico e scismatico del ‘melting pot’ che comporta la rottura brutale con una lingua e l'assimilazione di un'altra (vedi Cronin 2006: 52-56), gli sviluppi attuali puntano a una più acuta consapevolezza del migrante della traduzione non tanto come stato quanto come processo. Ciò implica che la mutevole compressione spazio-temporale del digitale comporta un aumento notevole delle possibilità di sperimentare la posizione liminare dell’oscillazione fra due o più lingue, che diventano parte della tua vita virtuale quotidiana. La traduzione diventa sempre meno uno stato di assimilazione nel quale la lingua materna tende ad allontanarsi sia come memoria sia come esperienza, e diventa sempre più un processo in cui il migrante negli spazi reali e virtuali della città è in un costante stato di movimento o negoziazione tra lingue e culture.
In secondo luogo, presencing suggerisce che è necessaria una nozione più comprensiva di traduzione per cogliere la natura stessa della traduzione così come essa si configura oggi nella zona urbana di traduzione. Tradizionalmente, la discussione su traduzione e migrazione si è svolta nell'ambito della traduzione interlinguistica, cioè il passaggio dalla lingua del migrante alla lingua diversa ed estranea dell'ospite. Tuttavia, se assistiamo a una continua interazione linguistica tra i membri di una comunità e coloro che se ne sono andati, in che modo l'uso della lingua di coloro che se ne sono andati influenzerà la lingua di coloro che sono rimasti? Può esserci allora la possibilità che all’interno delle lingue e non solo tra due lingue ci siano processi di cambiamento, di alterazione, di mediazione che posso essere individuati meglio nella categoria della traduzione intralinguistica? Inoltre, riconsiderare il ruolo della traduzione intralinguistica nell'era digitale potrebbe aprire linee di indagine sui periodi precedenti di migrazione in cui i parlanti di una lingua specifica (ad esempio, migranti inglesi in Australia o anglofoni irlandesi in Gran Bretagna) hanno sperimentato una serie di problemi di traduzione centrati intorno alla differenza intralinguistica. Una nozione più inclusiva di traduzione aiuta anche a cogliere le diverse forme di capitale sociale che operano all’interno degli ambienti di traduzione. Robert Putnam fa una distinzione tra "bonding capital", che si concentra sul rafforzamento dell'appartenenza collettiva all'interno di un gruppo, e "bridging capital", che collega diversi gruppi (Putnam 2000). Probabilmente, quello che vediamo nelle forme di presencing che alimentano la traduzione intralinguistica, sono esempi di bonding capital, mentre le forme di traduzione interlinguistica che consentono a diversi gruppi linguistici di comunicare in città illustrano il potenziale di bridging capital.
In terzo luogo, è possibile sostenere che presencing sottolinea il ruolo della traduzione in quello che Diminescu chiama "insediamento relazionale"; con questo intende "il dispositivo sociale con il quale il migrante organizza la propria vita di mobilità" (Diminescu 2008: 571). Il modo in cui i migranti organizzano la partenza e/o il ritorno, come si orientano nello spazio, come pianificano incontri proficui, come evitano molestie, discriminazioni o peggio, fanno tutti parte dell'insediamento relazionale. Il ruolo svolto dalla traduzione nell'insediamento relazionale diventa ancora più cruciale in un periodo in cui ci sono notevoli cambiamenti nei flussi migratori. Uno di questi è l'emergere della "migrazione circolare". Piyasiri Wickramasekara, in un paper preparato per l'Ufficio internazionale del lavoro, definisce la migrazione circolare come segue:
la migrazione circolare si riferisce a ripetuti attraversamenti temporanei dei confini, dichiarati o no, solitamente per lavoro, da parte degli stessi migranti. Sebbene possa essere distinto dalla migrazione permanente (per l'insediamento) e dalla migrazione di ritorno (unico viaggio di migrazione e ritorno), ci sono tuttavia relazioni fra queste e la migrazione circolare che in alcuni casi porta alla migrazione permanente o a un ritorno definitivo. Per definizione, tutta la migrazione circolare è una migrazione temporanea. (Wickramasekara 2011: 1)
La migrazione circolare è costellata molte questioni relative ai diritti e alle condizioni dei lavoratori, alla negazione della cittadinanza e dell'integrazione, e allo sfruttamento strumentale di esseri umani vulnerabili a scopo di lucro. Tuttavia, a causa della natura mutevole dei mercati internazionali del lavoro, è certo che la migrazione temporanea della manodopera o la migrazione circolare sono in aumento (Wickramasekara 2011: 58-64) e che ‘l’integrazione intermittente' (Diminescu 2008: 571) che rinforza, ingenera maggiore pressione a favore di insediamenti relazionali appropriati. In altre parole, in mercati del lavoro sempre più dirompenti e flessibili, i migranti sono costretti a considerare la traduzione come uno stato permanente piuttosto che temporaneo.
Accesso
Le città sono definite in termini di accesso. Se si sviluppano in luoghi particolari e in momenti particolari, è perché da lì puoi arrivare (a risorse) o essere raggiunto (dai commercianti). Gran parte dello sviluppo infrastrutturale delle città si preoccupa di facilitarne l'accesso via terra (strade), mare (porti) o aria (aeroporti). Tuttavia, nel corso dei secoli le città si sono anche preoccupate di bloccare l'accesso. Sono stati tirati su ponti levatoi, scavati fossati, erette mura cittadine, tutto nel tentativo di fermare o limitare l'accesso. La traduzione nel corso della sua lunga storia si è ugualmente occupata della questione dell'accesso. Un principio centrale dell'insegnamento della Riforma è stato che la Vulgata latina, essa stessa una traduzione, era diventata inaccessibile alla maggior parte dei credenti nell'Occidente cristiano e doveva essere resa nuovamente accessibile attraverso traduzioni vernacolari. Le infrastrutture e strategie di accesso, che sono alla base sia della costruzione delle città che della pratica della traduzione, devono essere ripensate nella fase del digitale. In particolare, ciò che caratterizza le nozioni di appartenenza in un'epoca di tecnologie mobili sono proprio le condizioni e le possibilità di accesso. Come sottolinea Dana Diminescu:
Che si tratti di comunicazione, informazione o accesso, questi terminali che indossiamo su noi stessi ci interconnettono, dandoci accesso a diversi servizi (trasporti, banche, traffico, monitoraggio) e a diversi spazi. Sono il supporto materiale del nostro legame con le nostre sfere di appartenenza: urbano, nazionale, bancario, sociale, familiare e così via. La portabilità delle reti di appartenenza è una caratteristica di tutte le nostre vite. Migranti o non migranti, praticamente tutti si trovano soggetti a una logica di accesso: possibilità di spostarsi, prelevare denaro dalla banca, ottenere cure mediche, entrare in casa, chiamare ecc. (Diminescu 2008: 573).
Essenziale in questa logica di accesso è il possesso dei codici che permettono di accedere al computer al lavoro o al conto bancario online o all'ingresso del condominio. Nel pensare quindi alla città come zona di traduzione virtuale dobbiamo riflettere su come la traduzione diventi parte di una specifica logica di accesso per nativi e nuovi arrivati. In che modo la traduzione facilita od ostacola l'accesso al migrante connesso? Nel considerare una risposta a questa domanda, potremmo menzionare tre elementi: traduzione interiorizzata, traduzione esternalizzata e tracciabilità.
La traduzione interiorizzata è il ripiegamento della funzione di traduzione in dispositivi o siti digitali che agiscono come una sorta di protesi del linguaggio. L'uso di dizionari o app di traduzione sui cellulari da parte dei migranti è un esempio di questa traduzione interiorizzata, ma lo sono anche la documentazione multilingue disponibile attraverso i siti web dei servizi sanitari, quelli educativi, o delle autorità per l'immigrazione. (McAreavy 2009: 1-22). Quello che la tecnologia consente in questi casi è una forma di accesso mediato alle informazioni in un ambiente specifico, ma in cui il migrante non deve reclutare attivamente o coinvolgere un agente esterno che faccia per lui le traduzioni. Per il linguista Nicholas Ostler nel suo lavoro, The Last Lingua Franca: The Rise and Fall of World Languages (2011), è una traduzione interiorizzata digitalmente abilitata che offre un possibile scenario per le città del futuro come zone di traduzione linguisticamente diverse. Attingendo alle cifre per la crescita esponenziale dell'uso di Internet da parte dai non parlanti di inglese, Ostler afferma che “la tendenza a lungo termine è che gli sviluppi della tecnologia dell'informazione riducano l'inaccessibilità delle lingue del mondo per abbattere le barriere linguistiche, ma senza abolire le lingue che le creano." (Ostler 2011: 263) In questa prospettiva, la disponibilità di tecnologia digitale economica e onnipresente eliminerebbe la necessità di una lingua franca globale poiché le "frustrazioni della barriera linguistica possono essere superate senza alcun medium universale condiviso al di là del software compatibile" (261). Fondamentale per questa concezione della scomparsa di una lingua franca globale è l’acceso di tutti a un modello di traduzione automatica. Il passaggio da approcci di traduzione automatica basati su regole a una maggiore dipendenza dall'intelligenza artificiale, consentendo ai motori di inferenza di derivare le proprie regole dal contatto con grandi quantità di dati di equivalenza della traduzione e il maggiore uso dell’accoppiamento statistico, ha effettivamente significato una crescita esponenziale della traduzione automatica nella nostra epoca (Wilks 2008; Koehn 2009). Centrale, naturalmente, a qualsiasi dibattito sul futuro della traduzione interiorizzata come forma di accesso linguistico è chi ha accesso all'accesso? Ci saranno ghetti digitali di esproprio man mano che i gruppi economicamente e/o etnicamente dominanti diventeranno i guardiani della nuova Città dei Bit, sollevando i ponti levatoi digitali quando il loro status o i loro interessi saranno minacciati?
La traduzione esternalizzata è la delega della traduzione a una persona che è esterna al migrante ma le cui attività sono parzialmente o totalmente mediate dalla tecnologia. Un esempio in cui l'attività è interamente mediata dalla tecnologia è l’interprete telefonica, largamente diffusa nell'area metropolitana di Dublino, in particolare in campo medico (Zimányi 2005). Qui i telefoni cellulari, Skype o l'App Viber, vengono utilizzati dagli interpreti nella comunità per tradurre o mediare tra pazienti e operatori sanitari che non parlano la stessa lingua. Un'altra forma di traduzione esternalizzata è quella che potrebbe essere definita ‘blended’, in cui un individuo traduce oralmente mentre interagisce con un sito web. Nello studio di De Tona e Whelan sulle organizzazioni di donne migranti in Irlanda, riferiscono di forme di interazione in cui il leader migrante funge da mediatore / traduttore tra le informazioni online ("opuscolo") e i non-parlanti di inglese nelle comunità di migranti. Un leader migrante nella comunità africana nell'area di Dublino, ad esempio, avrebbe detto:
Le donne con cui ho lavorato hanno un pessimo inglese, se dai loro un volantino da leggere non funziona [...] può essere un po' pauroso se ci sono barriere linguistiche [...] A volte è solo il passaparola che funziona […] Così il passaparola funziona molto bene e l'integrazione consiste davvero solo nel fornire informazioni. (citato in De Tona e Whelan 2007: 13)
Questo "passaparola" viene spesso trasmesso dal cellulare che è un'ulteriore integrazione di una forma di traduzione esternalizzata con le ICT. La traduzione esternalizzata, come la traduzione interiorizzata, è soggetta a un'etica di accesso con domande relative a chi fa la traduzione (spesso membri della famiglia) alla forma che l'interpretazione assume (quale riservatezza c'è quando si interpreta su un cellulare utilizzando un mezzo pubblico), a chi può permettersi di pagarla (vedi Pöchhacker e Shlesinger 2007). Significativo è che il tipo di accesso offerto dalla traduzione è legato a strumenti che consentono o impediscono che la traduzione venga offerta ai potenziali utenti.
Per tracciabilità nel contesto di questo articolo si intende l'uso della traduzione e della tecnologia digitale per tracciare i movimenti, lo stato e/o le opinioni di una persona. La tracciabilità ha avuto origine nel mondo degli affari dove il software è stato progettato per misurare le merci mentre si muovevano lungo una catena di distribuzione, raccogliendo informazioni sulle merci e tenendo conto di diversi input di informazioni (consegna, trasporto, distribuzione, vendita). Nel nostro mondo contemporaneo, la tracciabilità è diventata una componente chiave nel dispiegamento di tecnologie di sicurezza nazionali e transnazionali (Cehan 2004). La tracciabilità è diventata parte integrante della logica extraterritoriale dello stato-nazione contemporaneo in cui il confine è ovunque. Vale a dire, un ufficiale dell'immigrazione o un funzionario doganale con un computer portatile e una connessione wireless è ora un posto di frontiera. La tracciabilità è legata all'accesso poiché la giustificazione sta nel poter rintracciare e quindi decidere chi ha accesso legittimo alla società e chi no. Non ha molto senso, tuttavia, rintracciare ciò che non si può capire (vedi Cronin 2013: 126-7), così la traduzione diventa parte integrante dell'apparato di sorveglianza che traccia il movimento delle persone e delle opinioni nelle città multilingue. Se in un'epoca precedente il dibattito era incentrato sull'idea di Traduzione e Identità, è forse più appropriato nella nostra era mobile e digitale parlare di Traduzione e Tracciabilità. Questa nuova configurazione coglie sia la capacità di sorveglianza della traduzione assorbita nelle nuove tecnologie sia il senso in cui un abitante nomade della città contemporanea lascia più tracce digitali (telefonate mobili, sms, messaggi di posta elettronica, chiamate Skype) che devono essere capiti e archiviati in qualsiasi tentativo di cogliere la mutevole configurazione della lingua e della cultura nelle nostre città contemporanee.
Dematerializzazione, presencing, accesso, questi sono tre parametri che stanno contribuendo a definire i nuovi tipi di zone di traduzione che stanno emergendo non solo a Dublino ma in tutto il pianeta. Come l'impiegato polacco Ignazio, dobbiamo essere sempre consapevoli di come il "diluviare di parole straniere" porti non tanto a nuovi Noè quanto a nuove Arche, nuovi vascelli di comunicazione di traduzione nei nostri mondi mutati.
Traduzione di Marc Silver
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Note
[1]Il saggio qui tradotto è stato pubblicato per la prima volta in inglese con il titolo Digital Dublin: Translating the Cybercity » nel volume curato da Sherry Simon Speaking Memory: How Translation Shapes City Life (McGill-Queen's University Press, Montréal 2016, pp. 103-116). Ringraziamo l’autore e l’editore che hanno permesso la traduzione italiana.
[2] Le traduzioni dei testi citati sono dall’inglese e sono tutte a cura del traduttore.
[3] Il termine everyware in inglese è un neologismo che richiama l'insieme dei programmi [software] e le componenti fisiche non modificabili [hardware] in un sistema di elaborazione dati, [‘ogniware’], ma anche la dislocazione ‘ovunque’ [everywhere] per omofonia.
©inTRAlinea & Michael Cronin (2021).
"Dublino Digitale: Tradurre la Cybercity"
inTRAlinea Special Issue: Space in Translation
Edited by: Lucia Quaquarelli, Licia Reggiani & Marc Silver
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