Il traduttore e il suo lettore:

alcune riflessioni sul rapporto tra contrainte e censura

By Antonio Bibbò (University of Genova, Italy)

Abstract

English:

This article analyses censorship as a complex phenomenon, by tackling issues of translation history and practice in particular. With respect to other instances of creative writing, translations (made up of both a source and a target text) can be very helpful tools for the critic who intends to study the results of censorship practices (and sometimes their mechanism). Starting from the Oulipian notion of contrainte, I deal with instances of "productive censorship", which is considered here as naturally bound to any form of writing. Being aware of these intrinsic limitations, the translator might be able to manipulate them in order to emphasise his/her interpretation of the translated text. Therefore, these limitations cannot be naively considered as a disadvantage: it is on account of them that the text can actually be produced and shared. What I want to highlight in this article is that the mediators' unquestioning acceptance of these limitations may put at risk the intrinsic innovative and anti-hegemonic power of translations.

Italian:

Questo saggio analizza un fenomeno articolato come la censura prendendo come riferimento principale la storia e la pratica della traduzione. La traduzione permette al critico uno studio degli effetti (e talora dei meccanismi) della censura più chiaro di altre pratiche creative. Impiegando il concetto oulipiano di contrainte, questo intervento si propone di considerare gli aspetti produttivi della censura legata naturalmente a ogni espressione scritta. Una consapevolezza delle limitazioni espressive può portare il traduttore a sfruttarle per sottolineare la sua interpretazione del testo tradotto. Queste limitazioni, perciò, non vanno ingenuamente considerate in maniera negativa: sono esse stesse a permettere che il testo venga prodotto e circoli. Quello che tuttavia cerco di sottolineare in questo intervento è che la loro accettazione a-problematica da parte dei mediatori rischia di rendere la traduzione stessa priva di ogni carattere innovativo e anti-egemonico.

Keywords: censura, auto-censura, oulipo, lettura, letteratura irlandese, lingue non veicolari, norme, industria culturale, censorship, self-censorship, irish literature, norms, cultural industries

©inTRAlinea & Antonio Bibbò (2013).
"Il traduttore e il suo lettore: alcune riflessioni sul rapporto tra contrainte e censura"
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Secondo Richard Burt (1994), il discorso sulla censura nel mondo occidentale rischia di andare incontro a una serie di, forse inevitabili, generalizzazioni. Liberi da un’onnipresente censura di stato è facile illudersi di vivere in un momento storico post-censorio o, al contrario, si può rischiare di allargare il campo semantico della censura (soprattutto di quella preventiva) a dismisura, includendo tra i suoi agenti lo strapotere della televisione e del cinema commerciali, così come la riduzione dei finanziamenti per gli artisti e per le università: un calderone di atteggiamenti politici che di sicuro hanno molto a che vedere con la censura, ma che certamente non si esauriscono in essa. Per questo, Burt, pur non evitando del tutto il termine, preferisce parlare di “administration of aesthetics”. Una posizione simile è quella di Andrew Ross (1993), che non a caso ritiene il termine “censura” abusato e preferisce parlare di “regulation”. Burt e Ross non si sbagliano se si considera che l’utilizzo della parola “censura” fa pensare soprattutto a roghi di libri e di filosofi, e che l’atteggiamento degli intellettuali pronti a denunciare ogni negazione della libertà di parola rischia spesso di essere allarmista e di non considerare adeguatamente quanto un certo tipo di censura sia inestirpabile dalla sfera pubblica.

Bisogna perciò abbandonare il termine oppure contribuire a una sua migliore comprensione per definirne meglio lo spettro di utilizzo? L’abbandono completo (o una sua limitazione ai casi più eclatanti – nazista, fascista, stalinista, ecc) potrebbe sembrare perfino auspicabile in alcuni casi, ma finirebbe per “censurare” il continuum che esiste tra la censura di stato di un regime totalitario e quella in azione in qualunque stato democratico. Il termine finirebbe perciò per contribuire a un occultamento piuttosto che allo svelamento del quale dovrebbe farsi carico. Quel che è certo è che l’idea ingenua di una censura che agisce solo dall’alto verso il basso e l’immediata identificazione del censore come di un persecutore e del censurato come della povera vittima necessitano di una discussione ulteriore in modo da evitare semplificazioni e demonizzazioni eccessive che finirebbero per fare il gioco non di chi difende la libertà di espressione, ma di chi sfrutta i meccanismi del mercato (e quindi una censura forse più subdola e invisibile) per orientare i discorsi della società. Rinunciando al termine, si rischierebbe forse l’effetto opposto: minimizzare l’effetto di alcune pratiche di censura preventiva (che vanno dalla critica letteraria alla concessione di fondi pubblici) e accettare tutto come parte della dialettica dei discorsi in una società di libero mercato. Per quanto si possano comprendere le ragioni di Burt e Ross, il termine “censura” va forse conservato proprio perché, allarmistico in molti dei suoi usi, contribuisce proprio a tenerci all’erta. Del resto, questo sembra il parere anche di molti storici e teorici della censura (Bourdieu 2001, Jansen 1988, Holquist 1994, Patterson 1990), che pur prendendo in considerazione questo delicato aspetto terminologico, sembrano concordi sulla necessità di conservare la parola “censura”, a patto di non soprassedere sulle articolazioni interne del concetto. Prima di proseguire, vanno perciò chiariti due punti preliminari:

  1. Per una migliore comprensione dei meccanismi censori, è meglio distinguere tra una censura “regolatrice” e una censura “strutturale”[1]: la prima sarebbe quella esplicita dei regimi totalitari o democratici, mentre la seconda corrisponderebbe a forme di limitazione più pervasive come quelle non scritte della doxa, limitazioni linguistiche, morali, politiche, ideologiche.[2] Nonostante la necessità di distinguerle per ragioni di studio, è chiaro che le due rappresentano un continuum.
  2. Va ricordato inoltre che tra censura e autocensura c’è un rapporto di continuità, e di implicazione reciproca. Secondo Denise Merkle, ad esempio, la censura è davvero vincente solo nel momento in cui provoca meccanismi di autocensura[3]. Maria Tymoczko, considerando il problema della traduzione culturale e le limitazioni che tale processo impone, va ancora oltre e insiste sul pericolo dell’autocensura e della sua ubiquità[4].

Sia Merkle che Tymoczko parlano di censura in relazione alla traduzione. Se la censura e l’auto-censura regolano infatti, inevitabilmente, l’attività di traduzione, è vero che questo avviene non solo quando esse si presentano nella loro veste più nota ed esplicita (quella regolatrice), ma anche nella “quotidiana” attività di traduzione in quanto attività sottoposta a un insieme di norme più o meno scritte (Toury 1995: 53-69) e a un più o meno esplicito «patronage», l’insieme, cioè, dei «powers (persons, institutions) which help or hinder the writing, reading and rewriting of literature» (Lefevere 1985: 227)[5]. Questi meccanismi spingono il traduttore a ricercare nel rispetto della doxa la possibilità di essere ascoltato (pubblicato e letto) e perciò a interiorizzare quegli atteggiamenti traduttivi addomesticanti, per usare il lessico riduttivo e in parte fuorviante delle coppie oppositive che hanno fatto la storia della traduttologia. In questo breve saggio, perciò, mi propongo di sottolineare in che modo la pratica della traduzione possa insistere sui suoi stessi limiti e proporre una forma di scrittura tra le righe che in parte si opponga, dall’interno, alla naturale attività censoria legata alla traduzione stessa (Holman - Boase-Beier 1999: 11). Una traduzione di questo tipo chiaramente implica sia un atteggiamento diverso da parte del traduttore sia un ruolo nuovo, e più consapevole, per il lettore di traduzioni.

Contrainte e censura

Per chiarire il senso che qui si dà a “censura” credo sia utile ricordare il concetto di contrainte, di “limitazione”, così come sviluppato dal movimento letterario francese dell’Oulipo. Come hanno recentemente sottolineato Jan Baetens e Jean-Jacques Poucel (2009), le contrainte letterarie possono essere tanto formali quanto tematiche e caratterizzano ogni espressione letteraria, nonostante siano più facilmente osservabili negli esperimenti (più o meno) ludici dell’Oulipo. Difatti, non solo ogni opera detta le proprie regole man mano che viene scritta, aderendo o meno a paradigmi generici e formali (Corti 1976: 51-52; 121-125), ma ogni espressione risponde a criteri di accettabilità. Così come è impossibile immaginare una società totalmente priva di censura[6], un atto linguistico senza contrainte di alcun tipo non è neanche concepibile e si avvicina pericolosamente al mutismo, come dimostra molta letteratura del primo Novecento figlia a vario titolo della Lettera di Lord Chandos (1902) di von Hofmannsthal, da Pirandello a Beckett. Si può perciò considerare, in questo senso, la contrainte esplicita dell’Oulipo come equivalente alla censura di stato, mentre le limitazioni causate dalla interiorizzazione delle norme come corrispondenti alla censura strutturale e all’auto-censura più o meno consapevole. Quest’ultima in particolare si manifesta necessariamente nell’opera di traduzione. La traduzione è infatti legata a operazioni di self-binding o precommitment (Elster 2000) in diversi stadi della sua vita. Quando si sceglie di tradurre un testo, il mediatore – dallo scout letterario alla casa editrice al traduttore vero e proprio – impone a se stesso una serie di limitazioni perché si “lega” al testo di partenza, che ne “regola” le possibilità espressive. Inoltre, la traduzione deve rispondere, in questo non troppo diversamente dall’originale, al contesto di arrivo[7]. È in questo senso che molti teorici parlano di rispetto delle norme da parte del traduttore (Toury 1995) oppure della volontà di accettare le modalità espressive delle classi egemoniche. Tymoczko, ad esempio, cita Antonio Gramsci, e ricorda che i gruppi subalterni non sono «forced to consent but will do so in the belief that their interests are to some extent included in the dominant culture». (2007: 256)[8] In maniera simile, «through such mechanisms translators introject and promote dominant interests by means of their translations as a result of believing, for example, that their way of translating will benefit themselves personally [...] or that it is the only way that their source texts can find an audience in a dominant receiving culture»[9]. (ibid.: 257) Non siamo molto lontani dall’idea bourdieusiana (e larga) di censura: l’auto-censura è qui ciò che il produttore di testi[10] accetta per evitare l’“illeggibilità” e partecipare allo scambio di informazioni e di idee. Queste limitazioni, perciò, è il caso di ricordarlo, non vanno ingenuamente considerate in maniera negativa: sono esse stesse a permettere che il testo venga prodotto e circoli. Quello che però cerco di sottolineare in questo intervento è che la loro accettazione a-problematica da parte dei mediatori rischia di rendere la traduzione stessa priva di ogni carattere innovativo e anti-egemonico. D’altronde, la dominante del testo viene individuata in maniera soggettiva; la sua scelta perciò è spesso frutto di una strategia politica ben precisa e traduzioni non integrali, ad esempio, possono essere prodotte allo scopo di presentare una certa immagine di un popolo o di una cultura. Questo avviene più facilmente in ambito postcoloniale e in generale tra i popoli, come quello irlandese, che hanno più di una lingua madre. Un esempio a riguardo lo forniscono le traduzioni dei classici irlandesi come quelle di Lady Augusta Gregory. Queste traduzioni erano veri e propri atti politici di auto-rappresentazione dell’élite culturale irlandese che cercava di sfuggire allo stereotipo dello stage Irishman propagandato in Inghilterra (Kiberd 2005: 21-41). Si trattava perciò di traduzioni spesso non integrali, nelle quali i passi più imbarazzanti, quelli che avrebbero confermato lo stereotipo anti-irlandese, erano spesso espunti o resi meno offensivi. I tagli effettuati da Lady Gregory nelle sue pionieristiche traduzioni dei classici irlandesi non possono però essere considerati come frutto di una censura imposta, ma come una dinamica complessa di editing accorto e auto-censura volti a fornire un’immagine non stereotipica che aiutasse, invece di azzoppare, la causa irlandese di emancipazione dal Regno Unito.

How can we make sense of this translation movement that seems to produce cognitive dissonance? It is a highly effective and mobilized translation movement and yet a highly censored and self-censored one as well. The translation of early Irish literature into English involves resistance to and simultaneously submission to and collusion with oppressive cultural norms and restraints. In certain situations it even involves subordination of Irish culture to dominant English norms, a sort of ‘sell out’ from a purist perspective. (Tymoczko 2008: 36)[11]

Non è un caso che nel 1922, anno della proclamazione dello Stato Libero d’Irlanda, venga istituita anche la censura per le traduzioni dall’irlandese. Fornire rappresentazioni frammentarie di una cultura fonte può essere perciò una forma di strategia (artistica, ideologica o commerciale) da parte del traduttore:

In such cases the balance between selection and suppression of cultural information might be viewed as a form of strategic self-censorship, a form of self-censorship in which some cultural elements of a source text are given zero translation because of goal-driven decision-making procedures consciously chosen by the translator. (Tymoczko 2007: 257).[12]

Da un esempio del genere è chiaro come ogni visione ingenua e “purista” della censura in traduzione sia, se non altro, da complicare. Non solo c’è da considerare la censura strutturale che determina più o meno sottilmente alcune scelte espressive, ma anche la risposta cosciente che i traduttori, qui sempre più mediatori, danno. Sembra sempre più chiaro che la funzione della censura non sia solo quella di impedire l’espressione quanto quella di favorirne un tipo rispetto a un altro: una funzione “amministrativa” per riprendere l’espressione di Richard Burt citata in apertura.

La traduzione metonimica e l’era del sospetto

Possiamo dunque considerare la traduzione sempre oggetto di limitazioni provocate dai meccanismi della censura e al tempo stesso come atti di resistenza ad essa. Questo non solo perché ogni traduzione è un atto linguistico che, in quanto tale, deve rispondere a criteri normativi, ma anche a causa di un aspetto noto a ogni traduttore: il processo traduttivo impone sempre una scelta. Ogni traduzione è una scommessa interpretativa, un metastatement (cfr. Lefevere 1985 e 1992, e più recentemente Tymoczko 2007) su un testo “precedente”, che in quanto tale attiva alcune delle dominanti di un testo mentre ne tralascia altre. Sia la censura che abbiamo chiamato “regolatrice” che quella “strutturale” agiscono sulla traduzione così come sul testo “originale”, ma ciò che rende la traduzione un ambito privilegiato in questo tipo di analisi è la possibilità effettiva di confrontare i testi, di partenza e di arrivo, e valutare l’atteggiamento dell’emittente del testo in maniera più chiara, e così sondare gli ambiti di indicibilità di una data lingua d’arrivo.[13] Per lo studioso di traduzione il confronto tra una traduzione e il suo originale è uno strumento cruciale per individuare i modelli interpretativi alla base dell’operazione di “trasporto”. Se un’analisi stilistica di un’opera è sempre possibile, meno facile è stabilire i percorsi dell’autore nella scelta di determinati registri, sintagmi, lemmi e perciò provare a valutarne i pretesti. Se vogliamo anche solo limitarci all’analisi del lessico, nello studio della traduzione il confronto (tra testo di partenza e testo di arrivo, così come tra versioni differenti) spesso produce un’apprezzabile immagine delle “passeggiate sull’asse sinonimico”[14] che il traduttore ha effettuato e che lo hanno portato a scegliere una dominante invece di un’altra e a dare vita a quella unica traduzione. Lo spazio della traduzione è infatti quello della cosiddetta in-betweenness (Bartoloni 2003) non solo perché essa avviene nell’interstizio tra due culture, ma anche, e forse soprattutto, perché essa non è mai fissa, ma sempre in bilico tra diverse possibilità realizzative. Non esiste una traduzione definitiva. Come nei testi dell’Oulipo, perciò, il lettore di traduzioni è portato a leggere anche il testo che c’è dietro. Come ricorda Simona Mambrini (2012), infatti, la contrainte, soprattutto nella sua versione oulipiana, ha un ruolo fondamentale dal punto di vista storico-letterario: con le sue tendenze enigmistiche essa invita il lettore ad assumere un ruolo (ancora più) attivo. Egli è sfidato a leggere tra le righe, a tematizzare la componente di detection presente in ogni atto di lettura. Il lettore di traduzioni raccoglie perciò una doppia sfida.[15] Nel caso delle traduzioni censurate da un regime dittatoriale, per esempio, assistiamo a un meccanismo ben chiaro: una limitazione esterna impedisce, almeno in parte[16], che un testo venga tradotto integralmente, ma può essere relativamente facile per il lettore che conosce le norme della società intuire il testo che c’è dietro, il testo censurato (Tomaszkiewicz 2002).

Il testo tradotto sottoposto alla censura di tipo strutturale è invece meno visibile, così come lo è la stessa operazione di traduzione (la traduzione “scorrevole” delle recensioni pigre). Le norme alle quali esso si sottomette sono spesso percepite come “naturali” – basta pensare all’italianizzazione dei nomi di battesimo stranieri nelle traduzioni fino ad almeno la metà del Novecento – e così risulta più arduo riconoscere i loro effetti.[17] Il compito del lettore di traduzioni che qui si vuole abbozzare consiste perciò nel non dimenticare di essere il destinatario di un metastatement che può essere compreso solo se viene riconosciuto e se, quindi, viene attivata la componente di detection presente nella lettura delle traduzioni. Parlando del poeta e traduttore irlandese John M. Synge, Declan Kiberd ci ricorda l’errore di molti traduttori dall’irlandese: «they kept turning Irish into English, rather than remodel English as Irish» (Kiberd 1996: 628)[18]. L’atteggiamento auto-censorio che avrebbe potuto spingere Synge a scegliere un inglese “puro” per le proprie traduzioni venne da lui riconosciuto e combattuto.[19] Per Synge, la dominante del testo era l’impronta irlandese e il suo obiettivo conservarla nella traduzione, in modo da elevare la dignità culturale dell’inglese d’Irlanda. La scelta di una dominante, come accennato più su, è essenzialmente soggettiva. Essa può avvenire a più livelli, attraverso un’analisi tematica o stilistica (grazie perciò a un’analisi delle isotopie del testo)[20], ma guida sempre l’attività del traduttore, che sceglie una strada interpretativa e commenta più o meno implicitamente il testo stesso: nella traduzione si può “portare” solo qualcosa e il rischio è che quel qualcosa possa essere determinato dall’impeto omologante di una violenza etnocentrica (Venuti 1995) che anestetizzi il testo (non solo rendendolo più familiare, ma anche arricchendolo, nobilitandolo: Berman 1999) e lo faccia portatore di valori egemonici e normativi. Il traduttore, perciò, non può fare altro che “censurare” il testo – la scelta della dominante è essa stessa egemonizzante e potenzialmente censoria – eppure la consapevolezza dell’inevitabilità di questo processo può rivelarsi uno strumento fondamentale, come nel caso di Synge. In questo senso, il rapporto privilegiato tra censura e traduzione viene letto in maniera illuminante da Michael Holquist. Questi identifica tra censura e traduzione

an unsettling filiation […]: for is it not the primordial undecidability of language as such, the heteroglossia feared by censors, that is also the source of the translator’s anxiety? Are not all translations […] acts of censorship in that they, too, are fated to readings performed between the lines? Both censorship and translation are strategies to control meaning that are unavoidably insufficient: the interlinearity characterizing both guarantees in each that something will –always– be left out» (Holquist 1994: 18)[21]

La riflessione di Holquist sottolinea il ruolo centrale del lettore di traduzioni avvertito e pronto a rintracciare le ambiguità e le indeterminatezze del testo, tutto ciò che sfugge dal “controllo del significato”, tutti i preziosi sottoprodotti dell’opera di negoziazione. Il compito del traduttore non è infatti aprire artificiosamente il testo all’ambiguità, ma individuare una dominante che rispetti le ambiguità già iscritte nel testo e così facilitare quest’opera di “contrabbando” culturale forzando le “limitazioni” del proprio sistema. In questo senso, esempi di aggiramento della censura “politica” sono frequenti nella storia della traduzione, e negli ultimi anni cominciano a costituire un ricco campo di studi (Cfr. almeno Billiani 2007, Bonsaver 2007, Merkle 2002, Ó Cuilleanáin 2008, Rundle 2010, Sturge 2004, Talbot 2007). In molti casi, alcuni dei quali ricordati più su, o analizzati nei libri e nelle raccolte appena citate, i traduttori non si limitano a evitare la censura di stato espurgando i propri testi, ma arrivano perfino a sfruttarla. È il caso, ad esempio, dei traduttori polacchi di Sean O’Casey studiati da Robert Looby, che riescono a trasformare gli accettabili riferimenti anti-britannici presenti nell’opera dell’autore irlandese in altrettante critiche al potere sovietico (Looby 2008).

Esempi di resistenza più generale alle norme espressive strutturali, come nel caso di Synge sopra ricordato, sono più frequenti e rappresentano probabilmente il marchio di ogni traduzione leale (Buffoni 2005: cxxxiii). Sembra perciò opportuno chiudere con un riferimento proprio a uno di questi casi perché sia chiaro come un atteggiamento traduttivo del genere possa servire a riconoscere la funzione interpretativa della traduzione e la sua intrinseca possibilità di allentare ulteriormente le maglie di quel “controllo del significato” di cui parla Holquist. Un commento di Daniele Petruccioli alla sua traduzione di O livro dos rios di José Luandino Vieira (2010) ci permetterà di analizzare il processo con una conoscenza dei processi traduttivi che spesso è negata a chi deve limitarsi a una semplice comparazione di testo di partenza e testo di arrivo. Petruccioli scrive:

L’autore, per descrivere un certo fiume, usa la seguente frase: Rio cego, rio lento depois, ambaquizado, cheio de cavalos-do-rio… In questa frase ci sono due parole che non si trovano nei dizionari. La prima, ambaquizado, è spiegata in glossario dall’autore stesso: ambaquizar è un regionalismo angolano, viene da una delle lingue nazionali africane dell’Angola, il kimbundo, parlato nella regione della capitale Luanda, e vuol dire: tornar gongórico, retórico. L’altra è cavalos-do-rio, letteralmente “cavalli di fiume”. Ma che roba è? […] Cerca che ti ricerca, a un certo punto, su un sito angolano, trovo l’espressione in questione messa come didascalia a una bella foto di due ippopotami. Non potevo credere di essere stato così idiota. Ma certo, era ovvio! Ippopotamo vuol dire esattamente quello: cavallo di fiume. Ma se in Angola l’espressione è abbastanza comune da essere messa in didascalia alle foto pubblicate su internet, una traduzione letterale sarebbe stata altrettanto comprensibile al lettore italiano? […] E poi come tradurre quel sostrato appunto barocco, quella commistione di neologismo e modo di dire, di radici greche e kimbundo? La soluzione è arrivata dall’altro termine, ambaquizar, quel “rendere barocco”, come spiega l’autore stesso. L’orizzonte del brano era epico, lo stile barocco… Forse si potevano unire le due cose inserendo due neologismi, magari provando a profumarne uno con qualcosa del linguaggio parlato e l’altro con un grecismo smaccato, appunto barocco. Alla fine il risultato è stato questo: Fiume cieco e poi lento, imbarocchito, potamo pieno d’ippi…[22]

Il “potamo pieno d’ippi”, un’agudeza tipicamente barocca esprime esattamente quello che, credo, una traduzione debba fare, cioè far riflettere il lettore sulla traduzione stessa (in quanto traduzione) lasciando intra-sentire quel rumore di fondo provocato dal passaggio, che sia straniante senza cedere al “letteralismo”[23]. Non traducendo “ippopotami”, Petruccioli intende forse sottolineare la particolarità dell’espressione (tipica in Angola, ma evidentemente non in altre varianti di portoghese) e allo stesso tempo confermare l’isotopia stilistica barocca che ha individuato nel testo e che ha deciso di trasferire nella traduzione. In questo modo, non solo trova una soluzione brillante, ma anche va contro la norma auto-censoria e omologante che gli avrebbe suggerito di tradurre semplicemente “ippopotami”. La particolare fortuna che abbiamo nel poter ascoltare una ricostruzione dei processi interpretativi del traduttore in azione non deve farci credere che questo tipo di studi sia riservato solo ai casi in cui c’è la possibilità di interpellare il diretto interessato. Le analisi di Venuti e Bettelheim sulle traduzioni di Freud in inglese dimostrano il contrario (Venuti 1995: 25-28). Piuttosto questo deve farci riflettere sulla possibilità per un lettore di sospettare, dalla semplice lettura della traduzione, la presenza di un altro testo (per comodità chiamato originale) e così apprezzare il passaggio avvenuto. Una traduzione del genere non mente presentandosi come la “copia” di un “originale”, ma come un altro testo anch’esso dotato di «dignità artistica» (Buffoni 2007, 12), entra a far parte del contesto di arrivo forzandone in parte i confini, deformandone impercettibilmente gli argini. E pone implicitamente la domanda: chi può permettersi questo tipo di “contrabbando”? Nonostante i diritti morali sulla traduzione, almeno in Italia, siano inalienabili dal traduttore, nella realtà dei fatti anche le scelte più coraggiose devono passare il vaglio della redazione. In un sistema culturale dominato da un’editoria imprenditoriale, l’operazione di negoziazione coinvolge anche altre cruciali figure di mediazione – ad esempio i revisori – e dovrebbe perciò essere analizzata facendo ben attenzione alle dinamiche economiche, sociali ed estetiche del sistema all’interno del quale la traduzione stessa viene commissionata, fatta e pubblicata. Si è voluto accennare a questo parlando delle norme interiorizzate dai traduttori e dall’intera filiera del libro, ed è chiaro a chi scrive che il traduttore rappresenta solo un passaggio – benché cruciale – nel processo di mediazione. Di conseguenza, anche la stessa autocensura addomesticante andrà sempre ripartita tra i diversi agenti in gioco. La traduzione di Petruccioli citata in precedenza non avrebbe visto la luce se l’editore non avesse autorizzato la scelta.[24]

Nonostante queste necessarie precisazioni, sembra comunque giusto assegnare al traduttore un ruolo centrale. A tal proposito, Itamar Even Zohar affermava, con una visione forse eccessivamente progressiva della storia letteraria, che le traduzioni innovative, di opere cioè che rappresentano un’evoluzione all’interno del sistema letterario, contribuiscono a forzare i limiti espressivi dello stesso e a validare i mutamenti di poetica: «Periods of great change in the home system are in fact the only ones when a translator is prepared to go far beyond the options offered to him by his established home repertoire and is willing to attempt a different treatment of text making»[25] (Even Zohar 2000: 196-7). I primi censori che l’umanità abbia conosciuto erano quelli della Roma antica. Allora, i censori non erano solo quelli che stabilivano i costumi tollerati, ma anche coloro che stabilivano chi avesse diritto alla cittadinanza. Questa pratica ha un lungo corso: anche Karl Marx venne privato della cittadinanza prussiana dopo i primi guai con la censura (Jansen 1988). Ma i censori avevano anche la possibilità di “includere”, di concedere la cittadinanza. Allo stesso modo perciò si potranno comportare anche quei censori particolari che sono i traduttori, che si trovano a dover concedere l’ingresso all’interno del sistema letterario alle parole. La censura non è perciò solo un atto di potere repressivo, ma anche, di conseguenza, un azione “positiva”, che delimita i confini del dicibile e dell’ascoltabile (Bourdieu 2001) e perciò include e dà diritto di cittadinanza a potami e ippi anche in sistemi linguistici che non li hanno ancora mai visti o che non li vedono da un po’.

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Venuti, Lawrence, The Translator’s Invisibility: A History of Translation, London, Routledge, 1995.

Vieira, José Luandino, Il libro dei fiumi, trad. it. Daniele Petruccioli, Viterbo, Gruppo Albatros Il Filo, 2010

Note

[1] La coppia è “constitutive/regulative” per Jansen (1988) e “intrinsic/imposed” per Elster (2000).

[2] «Censorship may be seen, then, not only in terms of repressed and free discourse, but also in terms of the receivable and the unreceivable–what cannot be heard or spoken without risk of being delegitimated as beyond the pale of discourse, doxa.» (Burt 1994: xvii). Già così Bourdieu (2001), secondo il quale la scelta è fra accettare le norme e il silenzio. Il discorso eterodosso infatti è “compreso” nella doxa, nel dicibile.

[3] «[T]he ultimate aim of censorship being that each individual become his own censor, since self-censorship assures indirect pressure to social conformity.» (Merkle 2002, p. 9.). Merkle basa le sue considerazioni su un contributo molto importante di Jean-Paul Valabréga: «Le but dernier de la censure en est une pratique généralisée. Que chacun devienne son propre censeur! Ceci est l'aboutissant de tout système, quel qu'il soit, qui exerce la censure, ou seulement l'admet, ce qui est, au fond, la même chose.» (1967: 115).

[4] «Cultural translation is not only an important expression of the translator’s ideological agency, it is also a prime locus of censorship and self-censorship in translation. Censorship and self-censorship can be exerted at any of the levels at which ideology enters the process of translation.» (Tymoczko 2007: 255)

[5] «poteri (persone, istituzioni) che aiutano oppure impediscono che la letteratura venga scritta, letta e riscritta». [Dove non è indicato il nome del traduttore, le traduzioni sono di chi scrive].

[6] Che questa non sia altro che una delle “belle bugie” dell’Illuminismo lo dimostra molto bene Sue Curry Jansen (1988), in particolare nei capitoli dedicati a Milton e a Diderot.

[7] «The translator fulfils a function specified by the community and has to do so in a way that is considered appropriate in that community. Acquiring a set of norms for determining what is appropriate translational behaviour in a given community is a prerequisite for becoming a translator within that community.» (Baker 2001: 164). Ma per un approfondimento di questi concetti, si veda anche il più recente Baker 2006.

[8] «obbligati a dare il proprio consenso, ma lo fanno nella convinzione che i loro interessi siano in qualche modo inclusi nella cultura dominante».

[9] «attraverso questi meccanismi, con le loro traduzioni i traduttori introiettano e promuovono gli interessi dominanti perché convinti, ad esempio, che tradurre in questo modo li avvantaggerà personalmente […] o che è quello l'unico modo in cui il testo fonte possa trovare un pubblico nella cultura dominante che lo riceve». L’unico aspetto che appare in parte discutibile in un’affermazione del genere è il considerare il traduttore o la cultura straniera come “subordinata” rispetto alla cultura di arrivo.

[10] Al centro del discorso c’è qui il traduttore, ma non va certamente sottovalutato il ruolo che hanno le altre figure del mondo editoriale (in particolare il revisore) in questi processi di passaggio del testo in una cultura straniera.

[11] «Come si può interpretare un movimento di traduttori come questo, che sembra produrre una dissonanza cognitiva? Si tratta di un movimento molto efficace e impegnato eppure esso è anche sottoposto a una forte censura e auto-censura. La traduzione in inglese di letteratura irlandese delle origini implica una resistenza ma al tempo stesso una sottomissione e una collusione con norme e restrizioni culturali oppressive. In alcune situazioni implica perfino una subordinazione della cultura irlandese alle norme dominanti inglesi, praticamente un "vendersi" nell'ottica dei puristi.».

[12] «In questi casi l'equilibrio tra selezione e soppressione delle informazioni culturali può essere visto come una forma di auto-censura strategica, una forma di auto-censura nella quale alcuni elementi culturali del testo fonte non vengono tradotti in base a decisioni consapevolmente volte a raggiungere il risultato scelto dal traduttore». Talbot chiama «productive» questo tipo di censura (2007: 15).

[13] Su questo, e più in generale sui rapporti tra censura e traduzione cfr. Billiani 2007, 2009.

[14] Riccardo Duranti, conversazione privata, settembre 2011.

[15] Mambrini (2012) chiarisce molto bene il rapporto che c’è tra intertestualità e traduzione, analizzando la lingua di La disparition di Georges Perec: «La lingua della Disparition si costruisce "intorno" e a lato delle parole impronunciabili, e una circumnavigazione intorno alla lingua impronunciabile. Ma il testo esibito, scritto nella lingua "riformata" ammicca di continuo all’altro testo impronunciabile: questa lingua alternativa, straniante senza essere straniera, scava un solco nella lingua ufficiale, si insinua al suo interno, corrodendone la stabilita istituzionale. Dietro ogni parola si nasconde la parola che viene taciuta, presa in ostaggio dalla sostituta che fa scudo con il suo corpo affinché la prima non esca allo scoperto.»

[16] Valabréga nega questo assunto sulla base di una concezione della censura di stato in cui il testo “caviardé” (letteralmente perciò puntellato di freghi neri) viene sostituito dal testo ripulito da ogni riferimento problematico e perciò invisibile (1967, 120). Se è vero però che la censura nel Novecento si è fatta meno manifesta (e non compare ad esempio, all’interno del libro come imprimatur), è pur vero che la conoscenza da parte del lettore delle norme espressive della propria società permette una lettura “sospettosa” come quella che qui si suggerisce.

[17] In quest’ottica credo vadano lette anche le pagine che Antoine Berman dedica alle tendenze deformanti della traduzione (Berman 1999). Cfr. anche Ben-Ari 2010

[18] «questi facevano diventare inglese l’irlandese, invece di rimodellare l’inglese sulla base dell’irlandese».

[19] Nelle ultime battute di questo articolo si proverà a chiarire come questo non significhi una predilezione per traduzioni che mimino le lingue straniere, quanto per traduzioni coraggiose che non si presentino ingannevolmente come “copie conformi” degli originali stranieri.

[20] Lo studio delle isotopie si rivela una delle fasi fondamentali della traduzione. Cfr. Binelli (2007, 161): «Queste sono relazioni semantiche che legano parole o sintagmi dispersi nel testo, influenzandone il ritmo narrativo, le associazioni stimolate a livello immaginifico, e, soprattutto, pilotando i campi semantici ricorrenti nel testo stesso. Le isotopie sono di quanto più emblematico dello stile di un autore.»

[21] «una filiazione inquietante […]: non è forse l'indeterminatezza primordiale del linguaggio in quanto tale, l'eteroglossia temuta dai censori, la fonte stessa dell'ansia dei traduttori? Le traduzioni non sono forse tutte […] atti di censura poiché anch'esse sono destinate a essere oggetto di letture tra le righe? Censura e traduzione sono entrambe strategie di controllo del significato inevitabilmente insufficienti: il carattere interlineare di entrambe garantisce che in ognuna qualcosa sarà -sempre- lasciato fuori». Holquist conclude citando Benjamin: «In all language and linguistic creations there remains in addition to what can be conveyed something that cannot be communicated […]». («Rimane, in ogni lingua e nelle sue creazioni, oltre il comunicabile un non-comunicabile […].» Benjamin 1963: 50)

[22] Questo esempio non è “politico” (se non in senso lato), ma non vanno sottovalutate le implicazioni politiche di questo tipo di traduzione. «The ironist is a logical insurrectionist» (Holquist, 1994: 16). Ma ancora più importante in questo senso è l’idea del double reading legato all’ironia, l’unico modo di vedere i gaps «in established explanatory systems». Se l’ironia è un discorso che ne nasconde un altro, allora è tipico di ogni espressione che cerca di sfuggire al censore, e ancora di più della traduzione (censurata o meno). Nella traduzione, infatti, un testo “originale corrotto” è nascosto sempre e comunque al di sotto. Questo vuol dire che il lettore della traduzione deve essere in grado di “riconoscere” il testo grattato via, altrimenti rischia di leggere, allora sì, un testo “impoverito”.

Mi sembra importante ricordare, inoltre, come una simile riflessione sia possibile in questo caso anche grazie alla nuova visibilità che il ruolo del traduttore sta assumendo nel sistema culturale. Il commento qui riportato è infatti apparso nella rubrica “La parola al traduttore” ideata e curata da Simona Mambrini e ospitata dal sito dei dizionari Zanichelli: http://dizionari.zanichelli.it/la-parola-al-traduttore/2011/11/08/daniele-petruccioli/

[23] Le posizioni foreignizing di Venuti non vanno fraintese: Venuti ha sempre specificato di non puntare a traduzioni in cui si senta il cigolio del traduttese, ma che: «What I am advocating is not an indiscriminate valorization of every foreign culture or a metaphysical concept of foreignness as an essential value; indeed, the foreign text is privileged in a foreignizing translation only in so far as it enables a disruption of target-language values, so that its value is always strategic, depending on the cultural formation into which it is translated.» (Venuti 1995: 41-42)

[24] In questo senso, è giusto ricordare le parole di una traduttrice e studiosa di traduzione come Franca Cavagnoli: «[…] [C]hi ha tradotto dovrebbe riuscire a mettere in gioco le proprie convinzioni profonde per combattere la battaglia forse più aspra, quella contro il censore interiore. La traduzione prima e la revisione poi dovrebbero costringere a fare i conti con la propria lingua in modo più puntuale. Quando si scrive, pensiero e parola sono più uniti: quando si scrive in italiano la parola d’altri, la responsabilità è così grande che si dovrebbe soppesare ogni scelta con cura – questo vale per i traduttori, per i revisori, per gli editor, ma anche per i portavoce e i giornalisti […].» (2012: 175-6).

[25] «I periodi di grande cambiamento del sistema nazionale sono gli unici in cui un traduttore è pronto ad andare ben oltre le possibilità che gli sono offerte dai repertori nazionali fissi ed è disposto ad azzardare un trattamento diverso nella costruzione del testo».

 

©inTRAlinea & Antonio Bibbò (2013).
"Il traduttore e il suo lettore: alcune riflessioni sul rapporto tra contrainte e censura"
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