La bilancia del traduttore: leggendo una poesia di José Ángel Valente
By Valerio Nardoni (Università di Modena e Reggio Emilia, Italy)
Abstract
English:
This essay offers a comparative reading of three different Italian translations of the same emblematic text by José Ángel Valente: the reflection starts from the different editorial collocation of the three versions (an anthology dedicated to Spanish poetry of the second half of the 20th century; an anthology dedicated to the Generation of '50; and a monographic anthology) and goes on to deepen the nuances of meaning linked to the metrics, lexicon and intertextual of the original text.
Italian:
Il presente saggio propone una lettura comparata di tre diverse traduzioni italiane di uno stesso ed emblematico testo di José Ángel Valente: la riflessione prende le mosse dalla diversa collocazione editoriale delle tre versioni (antologia dedicata alla poesia spagnola del Secondo Novecento, antologia dedicata alla Generazione del '50, antologia monografica) ed approfondisce in seguito le sfumature di significato legate alla metrica, al lessico e ai riferimenti intertestuali del testo originale.
Keywords: traduzione letteraria, José Ángel Valente, poesia spagnola del Novecento, Teoria e pratica della traduzione, literary translation, 1900 Spanish poetry, theory and praxis of literary translation
©inTRAlinea & Valerio Nardoni (2019).
"La bilancia del traduttore: leggendo una poesia di José Ángel Valente"
inTRAlinea Special Issue: Le ragioni del tradurre
Edited by: Rafael Lozano Miralles, Pietro Taravacci, Antonella Cancellier & Pilar Capanaga
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José Ángel Valente è uno dei grandi nomi della poesia spagnola della Seconda metà del Novecento, arco di tempo che attraversa interamente, dal primo libro A modo de esperanza (Premio Adonais nel 1954) fino all'ultimo Fragmentos de un libro futuro, che ottenne – postumo – il Premio Nacional de Literatura nel 2001. Appartenente alla cosiddetta Generazione del '50,[1] si formò in quella speciale stagione del dopoguerra dove era forte il bisogno e la volontà di affrancare il linguaggio poetico dalla sudditanza al piano dei contenuti per proclamarlo di nuovo come strumento di conoscenza[2].
Negli ultimi anni,[3] a ragione, alla figura di questo poeta è stata dedicata grande attenzione da parte della critica, dagli studiosi più illustri (Andrés Sánchez Robayna ne ha curato l'edizione delle opere complete)[4] alle nuove generazioni poetiche,[5] fino alle traduzioni delle sue poesie, che ci interessano in particolare. Nel 2008, escono infatti in Italia tre diverse antologie contenenti dei testi di Valente, un dato rilevante, che conferma la centralità di questo autore nell'ambito della poesia spagnola (ed europea), nel momento in cui ci si trova a tirare le fila del secolo da poco concluso e senz'altro della sua seconda metà. Si tratta dei volumi:
- Francesco Luti 2008 (a cura di), Poesia spagnola del Secondo Novecento, Firenze: Vallecchi: 544.
- Gabriele Morelli 2008 (a cura di), Poesia spagnola del Novecento. La generazione del '50, Firenze: Le Lettere: 360.
- J. Á. Valente 2008, Per isole remote. Poesie 1953-2000, Saggio critico, traduzione e cura di Pietro Taravacci, Postfazione di Massimo Cacciari, Pesaro: Metauro Edizioni: 408.
Come si evince dai titoli, le tre proposte vanno in un certo senso dal generale al particolare: Luti include 12 poesie di Valente all'interno di un generico florilegio afferente a cinquant'anni di poesia spagnola, che comprende ventuno autori, da Ángel González a Vicente Gallego; Morelli, con impostazione più scientifica, approfondisce dieci figure di particolare rilievo della Generazione del '50 e affida a Lia Ogno la traduzione di 15 poesie di Valente; Taravacci, infine, dedica al poeta gallego un'ampia monografia con 134 testi tradotti[6].
Nei volumi di Morelli e Luti vi sono alcune poesie presenti anche nel libro curato da Taravacci (rispettivamente 6 e 2), ma soltanto una è presente nelle tre diverse proposte, «Serán ceniza...», dalla raccolta A modo de esperanza.
Si tratta non a caso di un testo emblematico – un «poema-semilla» (Rodríguez-Refojo 2010) dell'opera di Valente – che può essere oggi letto come rappresentativo dell'intera Generazione del '50: l'immagine del «desierto» è simbolo di uno stato di aridità interiore della coscienza poetica, ma allo stesso tempo è specchio della situazione dell'epoca, come rimando alla desolazione del regime dittatoriale; l'ardore giovanile del poeta tuttavia non è affatto spento e col suo calore trasforma quel deserto in «ceniza», da cui la speranza possa riprendere il volo come la fenice.
José Ángel Valente è il sostenitore di una poesia sia distaccata dalla semplice cronaca della realtà, sia dalla riflessione filosofica, per costituirsi come esperienza primaria ed autonoma, che porta ad una specifica conoscenza; in questo senso, nella poesia di cui ci andiamo ad occupare, è particolarmente interessante il passaggio da «sin nombre» a «lo proclamo: ceniza». Quei due punti sanciscono la nascita, la proclamazione di una parola come se fosse detta per la prima volta. Come scrive Taravacci, la poesia di Valente è «esperienza dell'origine, del primo atto creatore» (Valente 2008a: 11). Siamo tra esperienza poetica e conoscenza di uno stato interiore: quella «ceniza» è la speranza colta nel suo stato germinale, che fa tornare a battere il cuore impietrito.
«Serán ceniza...»
Cruzo un desierto y su secreta
desolación sin nombre.
El corazón
tiene la sequedad de la piedra
y los estallidos nocturnos
de su materia o de su nada.
Hay una luz remota, sin embargo,
y sé que no estoy solo;
aunque después de tanto y tanto no haya
ni un solo pensamiento
capaz contra la muerte,
no estoy solo.
Toco esta mano al fin que comparte mi vida
y en ella me confirmo
y tiento cuanto amo,
o levanto hacia el cielo
y aunque sea ceniza lo proclamo: ceniza.
Aunque sea ceniza cuanto tengo hasta ahora,
cuanto se me ha tendido a modo de esperanza.
Naturalmente, è già sufficiente una diversa collocazione editoriale a determinare, da parte dei rispettivi traduttori, un diverso uso della propria bilancia. Nel caso di Luti, dato il suo intento più divulgativo che critico o didattico, l'attenzione principale sarà alla cordialità della lingua d'arrivo, per una lettura più immediata possibile (immediatezza, che in verità, comporta una certo grado di arbitrio da parte del traduttore, come vedremo più avanti); nel caso del volume curato da Morelli, che si rivolge ad un pubblico di studenti universitari, la versione tende invece ad avvicinarsi molto alla lettera dell'originale, «ben consapevole» – come il curatore dichiara – «che il lettore ha accanto la guida di riferimento del testo originale» (Morelli 2008: 36), e proponendo così una sorta di dizionario ragionato di testi antologizzati; infine, la versione di Taravacci deve fare i conti con una duplice esigenza: da una lato, la cordialità necessaria ad una collana di alta divulgazione; dall'altro, il rispetto del sistema globale dell'opera del poeta, dove stessi termini o stesse forme possono riproporsi in contesti differenti e stabilire un dialogo tra di loro.
Oltre all'importanza storica della poesia scelta e della molteplice diffusione che essa ha ricevuto in Italia, il motivo che rende interessante una lettura comparativa delle varie traduzioni è che si tratta di un testo rappresentativo della situazione nella quale spesso si ritrova il traduttore italiano di poesia spagnola: data la vicinanza linguistica e culturale dei due paesi, egli ha davanti a sé un testo abbastanza semplice da tradurre letteralmente; ma è proprio tale corrispondenza di termini a presentare talvolta un grande ostacolo ad una resa soddisfacente anche dal punto di vista del ritmo. Inevitabilmente, per mantenere le quantità sillabiche ci si trova spesso a dover cambiare un poco i termini dell'originale (percorrendo strade sinonimiche, cambiando categoria grammaticale, ecc), ma nel caso dello spagnolo tali cambiamenti sono più visibili che mai, fino a poter dare l'idea di un eccesso di arbitrio da parte del traduttore italiano.
Dato che tale problematica è implicita ad ogni traduzione spagnolo-italiano, il mio intento non sarà quello di decretare la traduzione migliore tra quelle che mi propongo di analizzare, quanto piuttosto di studiarle comparativamente per di misurare quanto, di volta in volta, i traduttori siano costretti a perdere o comunque a negoziare.
Ad esempio il titolo della poesia «Serán ceniza...», inequivocabilmente traducibile con la frase «Saranno cenere...», è stato reso dai tre traduttori in tre modi differenti. Ad ogni soluzione corrisponde una speciale postura del traduttore nei confronti del suo lavoro.
Le versioni sono: Sarà cenere (Luti, senza virgolette), «Saranno cenere...» (Ogno), e «Saranno polvere...» (Taravacci). Considerando le ristrette possibilità di variare questa frase nel passaggio dallo spagnolo all'italiano, trovarsi dinanzi a tre proposte diverse è davvero sorprendente: difatti, i motivi di tale trasformazione (a parte l'esatta letteralità della versione di Ogno, corretta e coerente con il suo atteggiamento globale), non risiedono all'interno del titolo, quanto, in primo luogo, nei versi finali della poesia che ripetono tale formula; e poi nel riferimento ipertestuale a cui il titolo della poesia (fra virgolette) rimanda in modo piuttosto esplicito, ovvero al noto sonetto di Quevedo Amor constante más allá de la muerte, i cui ultimi versi sono appunto:
Serán ceniza, mas tendrá sentido;
polvo serán, mas polvo enamorado.
Quevedo col chiasmo di questi due versi traccia una sorta di abbraccio tra amore e psiche: nel primo verso c'è la ragione di «sentido», e nel secondo la passione di «enamorado». Data anche la fama dell'ultimo verso di questo sonetto rispetto al componimento integrale, appare molto significativa la scelta di Valente di citare non l'ultima, ma la prima parte del distico: io credo che in tutta la poesia di Valente non vi sia tanto amore, quanto un'appassionata ricerca di «sentido», o meglio ricerca del «sentido», quel senso ultimo o primo dell'esistenza a cui il suo orecchio e la sua penna costantemente tendono.
Verrebbe naturale, una volta individuata la fonte di questo titolo, tradurre semplicemente «Saranno cenere...», ma il problema, in definitiva sta tutto qui: «serán» e «ceniza» non sono semplicemente due parole, ma, insieme, l'emistichio di un famoso verso al quale un giovane autore ricorre per affermare l'interno senso della sua poetica.
Per fare una riprova ulteriore della libertà che anima il variegato mondo della traduzione ho consultato la storica versione di Vittorio Bodini… e neppure lui ha tradotto «saranno cenere»!
anche in cenere, avranno un sentimento;
saran terra, ma terra innamorata.
Nel caso della traduzione di un sonetto, naturalmente, il sacrificio o la modifica di un significante nell'intento di rispettare l'endecasillabo non è un fatto arbitrario; nel caso della poesia di Valente non abbiamo un sonetto, tuttavia l'autore ci presenta un testo (ad eccezione di un unico verso) integralmente formato di versi dispari: si potrà, in questo caso, attenersi alla medesima atmosfera ritmica di versi dispari, sostituendo magari un endecasillabo con un novenario, o viceversa; ma non per questo sarà consigliabile escludere del tutto il peso della struttura metrica dalla propria bilancia.
I tre pesi coi quali il traduttore deve fare i conti nella traduzione del titolo di questa poesia sono dunque: il rimando a Quevedo («serán ceniza»); la riproposta della stessa formula – al singolare – all'interno del testo («será ceniza», riferito a «todo cuanto amo»); e il mantenimento dei versi alessandrini dove tale sintagma si ripete.
Il mondo della traduzione è fatto di sviste e di prodezze, dunque nessun problema qualora Luti – che ha compilato un'antologia piuttosto varia – non avesse tenuto di conto del rimando a Quevedo: nel titolo della sua traduzione, difatti, spariscono le virgolette che indicano la citazione, e insieme alle virgolette sparisce anche il verbo al plurale, riportando tutto alla forma singolare con cui il verbo appare all'interno del testo. Mentre in altri versi il traduttore sembra proporre degli aggiustamenti per il mantenimento della metrica, l'alessandrino non è qui percepito ed è dunque abbandonato (alla fine dello studio sono riportate le versioni integrali delle traduzioni esaminate).
Nel contesto di una traduzione divulgativa e senza impegno, ad ogni modo, può accettarsi il totale abbandono dei riferimenti intertestuali e metrici, anche perché i primi avrebbero costretto il curatore ad una nota che ricordasse il nome e il sonetto di Quevedo; e i secondi a dei cambiamenti sul testo che, se non inseriti in un progetto di traduzione globale e ponderato, possono apparire inopportuni e persino disorientare il lettore.
Nei confronti del titolo, abbiamo dunque da parte di Luti una sorta di rettifica, motivata su una ragione interna al testo stesso (alla forma singolare che il verbo assume dentro la poesia); mentre da parte di Taravacci («Polvere saranno...») abbiamo uno spostamento indotto da ragioni esterne, cioè dal richiamo a Quevedo.
D'altro canto, per un lettore italiano, la frase «Saranno cenere...» (come nella pur corretta e condivisibile versione di Ogno), se priva di una nota, ben difficilmente rimanda al sonetto quevedesco; mentre l'idea di Taravacci appare coraggiosa ed efficace. Ovvero: se, da un lato, lo spostamento di «ceniza» su «polvere» può aiutare anche un ispanista a ricordare il famoso sonetto di Quevedo (di cui il verso celebre è appunto l'ultimo: «polvo serán, mas polvo enamorado»), allo stesso tempo, aiuta qualunque lettore italiano a risalire alla fonte originaria di Quevedo stesso, quella biblica, dando veramente un impulso extratestuale al titolo della versione tradotta.
Anche in questo caso, non vedrei nessun demerito per il traduttore – anzi – qualora egli avesse fatto questa scelta inconsapevolmente, per una sorta di lapsus di memoria, in quanto è proprio tale lapsus a costituirsi come elemento vincente della traduzione di un riferimento mnemonico esterno che era presente nel testo di partenza.
In modo un po' provocatorio, e con l'unica intenzione di ribadire che la traduzione perfetta non esiste (ognuna è portatrice del proprio piccolo contributo alla lettura e la diffusione di un certo testo), ho voluto iniziare difendendo la traduzione letterale del testo. Apparentemente, parlando del titolo, solo la traduzione di Ogno sembrava accettabile. In definitiva, potremmo chiederci molto semplicemente: ma in poesia conta di più che cosa si dice o come lo si dice?
Questi sono due piatti della bilancia del traduttore di poesia, e non c'è bisogno di insistere troppo sul fatto che, se dimentichiamo del tutto l'aspetto della forma, o meglio, del «ritmo» come direbbe Franco Buffoni, quello che si traduce non è letteratura.
Nel caso del volume curato da Gabriele Morelli, come accennato, la traduzione ha un chiaro intento strumentale, quale supporto ad una lettura autonoma del testo originale, coadiuvata anche dall'ampio saggio introduttivo. Nell'Avvertenza lo studioso dichiara: «Cosciente che ogni versione resta pur sempre un tentativo di avvicinarsi alla verità assoluta contenuta nella lingua di partenza, ho rifiutato la concezione di una traduzione intesa come appropriazione dell'originale, così come volevano i rappresentanti dell'ermetismo fiorentino […] spinti da un inconscio moto di invidia […] seguendo invece un percorso di fedeltà filologica e optando – nei casi dove ciò fosse a detrimento della resa poetica – per una versione più libera, ben consapevole che il lettore ha accanto a sé la guida di riferimento del testo originale».
È molto complicato stabilire quando sia il caso di non agire a «detrimento della resa poetica» e quando invece attenersi ad una più rigida «fedeltà filologica» e anche Morelli in fin dei conti si colloca nel mezzo. Infatti, se la poesia potesse definirsi come il senso che acquista un frase nell'essere detta in un certo modo, è pur vero che, qualora se ne traduca solo il senso o solo la forma, l'unica cosa di cui si può star certi è di aver tradotto altro. Difatti, i traduttori esperti adottano lo stesso atteggiamento anche nei confronti della prosa dei grandi autori, come dice Franca Cavagnoli riguardo alla «dominante» del racconto I morti di James Joyce: «In questo caso è difficile individuare una dominante assoluta del testo perché la dominante sul piano semantico è importante quanto lo è quella sul piano espressivo: le scelte stilistiche di Joyce, il modo in cui sceglie di far provare al lettore lo stato d'animo suscitato dal suono e dall'immagine della neve che cade, sono importanti quanto lo è il tema della morte al centro della storia» (Cavagnoli 2012: 27).
Dati alcuni esempi sulla base del titolo, passiamo adesso alla lettura dei primi due versi, che sono più che sufficienti a mostrare con profitto la differenza sostanziale fra le tre versioni.
Cruzo un desierto y su secreta
desolación sin nombre.
Il verbo «cruzo» è uno dei molti nemici dei traduttori italiani di poesia spagnola, infatti le sue due sillabe, per via semantica, sono direttamente corrispondenti alle quattro di «attraverso», come nella prevedibile versione di Ogno:
Attraverso un deserto e la sua segreta
desolazione senza nome.
I versi originali sono un novenario e un eptasillabo. Sia Luti sia Taravacci, in modo diverso, optano per il mantenimento di un ritmo dispari così:
Attraverso un deserto e la segreta
desolazione senza nome. (Luti)
Passo un deserto e la segreta
desolazione senza nome. (Taravacci)
Il secondo verso è uguale nelle tre versioni. Il primo, a meno del piccolo sacrificio del possessivo «sua» è reso appunto da Luti con un endecasillabo: un buon esempio di come le ragioni metriche possano dialogare con quelle semantiche. Questo tipo di taglio è anzi piuttosto frequente nelle traduzioni dallo spagnolo all'italiano, anche in virtù dell'uso abbondante del possessivo che si fa in spagnolo, dove talvolta sostituisce l'articolo. Tuttavia, è innegabile che qui tale opzione rende poco chiaro il verso italiano, nel quale la «desolazione» non è più quella del deserto, ma acquista una dimensione assoluta. Sono sfumature, ma il senso cambia molto: in traduzione il deserto è un deserto qualsiasi, mentre nell'originale abbiamo un deserto che rappresenta l'incapacità di dare alla propria desolazione un nome, una ragione (...un «sentido»).
Taravacci è ancora più spinto e, per un perfetto mantenimento delle quantità foniche del primo verso (Luti comunque passa da 9 a 11 sillabe), oltre alla soppressione del possessivo propone la suggestiva e non scontata soluzione di «passo» per «cruzo».
La soluzione letterale adottata da Ogno («Attraverso un deserto e la sua segreta») evita dunque di addentrarsi nei problemi del ritmo, ma oltre a questo deve anche fare i conti con un eccesso di sibilanti (ben quattro) che la rende poco gradevole all'orecchio (specialmente «la sua segreta» suona un po' cacofonico).
Nel caso di poesie più prosastiche, la traduzione letterale influisce meno negativamente sulla resa; in questo specifico caso, invece, la perdita della tensione ritmica e l'introduzione di dissonanze foniche comporta un impoverimento piuttosto vistoso. Gli altri due traduttori, dati i diversi intenti, non potevano permetterselo.
La riflessione su questi versi iniziali potrebbe naturalmente proseguire anche oltre rispetto ai tre singoli esempi, ed è anzi probabile che un giorno ne venga pubblicata una quarta versione, magari contenuta nella traduzione completa del singolo libro A modo de esperanza ad opera di qualcuno che senza dubbio potrà trovare molti spunti e suggerimenti dallo studio di queste traduzioni preesistenti.
Da Luti e Taravacci apprendiamo per esempio che la struttura della poesia originale – gestita su un'irregolare alternanza di versi dispari – può essere opportunamente variata senza per questo venire meno alla fedeltà nei confronti del ritmo. Il 9 + 7 originale è tradotto con un 11 + 9 da Luti e con un 9 + 9 da Taravacci. Altri potrebbe proporre un 11 + 11, per esempio in questo modo: «Attraverso il segreto del deserto / la sua desolazione senza nome». Oppure, per evitare l'eccesso di sibilanti in «sua segreta» – ispirandosi alla brillante variante di «Passo» per «cruzo» – si potrebbe lavorare su «secreta», con una proposta di questo tipo (11 + 9): «Attraverso un deserto e la sua ignota / desolazione senza nome». Il testo originale propone di volta in volta problemi differenti, al traduttore la libertà di saperli risolvere secondo un proprio sistema di scelte motivato e coerente, che è l'unica vera garanzia di lealtà, anziché di una impossibile fedeltà.
Per completezza, proponiamo in chiusura le tre versione integrali delle traduzioni commentate per uno sguardo d'insieme. Partiamo dalla versione letterale di Lia Ogno, che – consapevolmente libera da problemi di natura metrica – è a suo modo ineccepibile:
«Saranno cenere...» (Morelli 2008: 235)
Attraverso un deserto e la sua segreta
desolazione senza nome.
Il cuore
ha la secchezza della pietra
e gli scoppi notturni
della sua materia o del suo niente.
C'è una luce remota, tuttavia,
e so che non sono solo;
malgrado dopo tanto e tanto non vi sia
neppure un solo pensiero
capace contro la morte,
non sono solo.
Tocco questa mano infine che condivide la mia vita
e in essa mi confermo
e tasto quanto amo,
lo innalzo verso il cielo
e malgrado sia cenere lo proclamo: cenere.
Malgrado sia cenere quant'ho finora,
quanto mi è stato teso a modo di speranza.
Passando alla versione di Luti, al contrario, si possono invece rilevare dei momenti in cui il rispetto della metrica (sebbene non coerente in tutto il testo), giunga a delle proposte un po' forzate, come l'eptasillabo «capaz contra la muerte» reso con «contro la morte abile». Questo «abile» non è una scelta del tutto felice, anche per la sua forma sdrucciola, che è poi ciò che rende manifesta la scelta operata in direzione del mantenimento dell'accento di sesta, ma rendendo ambiguo se «abile» sia riferito a «pensiero» o a «morte».
Sarà cenere... (Luti 2008: 163)
Attraverso un deserto e la segreta
desolazione anonima.
Il cuore
reca l'asciuttezza della pietra
e le esplosioni della notte
della sua materia o del nulla.
C'è una luce remota, tuttavia,
e so che non sono solo;
sebbene dopo tanto e non c'è tanto
né soltanto un pensiero
contro la morte abile,
non son solo.
Tocco la mano alfine che della vita è parte
e in essa mi confermo
e tento quanto amo,
lo alzo verso il cielo
e anche se è cenere lo proclamo: cenere.
Anche se è cenere quanto ho finora,
quanto mi si è offerto a modo di speranza.
Anche Taravacci traduce il verso «capaz contra la muerte» con la stessa intenzione di mantenere le quantità sillabiche, ma in questo caso la scelta è convincente («forte contro la morte»), in quanto la rima interna non solo non disturba ma rafforza l'unità del verso, rendendolo peraltro molto italiano per il chiaro eco del primo canto dantesco.
«Saranno polvere...» (Valente 2008a: 63)
Passo un deserto e la segreta
desolazione senza nome.
Il cuore
ha la secchezza della pietra
gli stessi crepiti notturni
della sua sostanza o del suo nulla.
Remota c'è una luce, tuttavia,
e so che non sono solo;
se dopo tanto andare non ci fosse
né un semplice pensiero
forte contro la morte,
oggi non sono solo.
Tocco la mano accanto che qui con me vive
e in lei mi rassicuro
e tasto ciò che amo,
lo alzo verso il cielo
e pur essendo polvere, grido il suo nome.
Pur essendo polvere quanto ho raccolto,
quanto mi è stato offerto, così, perché io speri.
Quest'ultima versione rispetto alle altre ha un maggior grado di confidenza fra traduttore e poeta, risulta in qualche modo più coraggiosa e naturale, più disinvolta, una qualità intrinseca decisiva, in quanto il testo tradotto si presenta come portatore di una propria autonomia. Certo, anche questo ha il suo prezzo da pagare. Parrebbe inspiegabile, per esempio, che a un certo punto compaia la parola «oggi» («no estoy solo» > «oggi non sono solo»), ma la zeppa collabora attivamente a dare scioltezza alla sequenza di versi settenari ed è pertanto perfettamente integrata nei criteri traduttori adottati. Per contrario, c'è invece una parola che scompare: nella nuova armonia che il traduttore ha dato al testo tradotto è sparita una ripetizione importante. Il verso alessandrino «y aunque sea ceniza lo proclamo: ceniza» diventa «e pur essendo polvere, grido il suo nome».
Tornando all'inizio di questo studio, proprio in quei due punti collocati tra «proclamo» e «ceniza» stava tutto il senso della poesia; non solo, da un punto di vista metrico, se la aggiungessimo alla versione di Taravacci otterremmo un alessandrino corretto («e pur essendo polvere, / grido il suo nome: polvere»), ma con tutta questa geometria, finiremo con l'alterare la coerente lettura del traduttore, che aveva ben colto l'energia della ripetizione di quella parola, spostandola sul verbo «proclamar», che in traduzione era appunto diventato il più forte «gridare».
Bibliografia
Cavagnoli, Franca (2012) La voce del testo. L'arte e il mestiere di tradurre, Milano: Feltrinelli.
Campo de Agramante. Revista de literatura (XVII) primavera-verano 2012.
Crespo, Ángel (2011) Occupazione del fuoco, edizione di V. Nardoni, Firenze: Passigli Editori.
Luti, Francesco (2008) (ed) Poesia spagnola del Secondo Novecento, Firenze: Vallecchi.
Morelli, Gabriele (ed) (2008) Poesia spagnola del Novecento. La generazione del '50, Firenze: Le Lettere.
Nardoni, Valerio (2008) [Recensione a:] “Poesia spagnola del secondo Novecento, Francesco Luti (ed) Vallecchi, Firenze (2008)”, in Poesia (n. 232) p. 62.
Nardoni, Valerio (2009) [Recensione a:] “José Ángel Valente, Per isole remote. Poesie (1953-2000) saggio critico, traduzione e cura di Pietro Taravacci, postfazione di Massimo Cacciari, Pesaro, Metauro Edizioni, (2008)”, in Poesia (n. 234): 66-67.
Nardoni, Valerio (2009) [Recensione a:] “Poesia spagnola del Novecento. La generazione del ’50, Gabriele Morelli(ed) Firenze, Le Lettere, (2008)” in Poesia (n. 237): 48-49.
Nardoni, Valerio (2012) “Un viaje al origen del sentido”, in Campo de Agramante. Revista de literatura (XVII): 119-123.
Sánchez Robayna, Andrés (2010) (ed) Presencia de José Ángel Valente. Jóvenes poetas y críticos ante la obra de José Ángel Valente, Santiago de Compostela: Universidad de Santiago de Compostela.
Rodríguez-Refojo, Alejandro (2010) El poema primero, in Sánchez Robayna (2010): 97-101.
Valente, José Ángel (2006) Poesía y prosa, edición de Andrés Sánchez Robayna, Barcelona: Galaxia Gutemberg – Círculo de Lectores.
Valente, José Ángel (2008) Ensayos, edición de Andrés Sánchez Robayna, recopilación e introducción de Claudio Rodríguez Fer, Barcelona: Galaxia Gutemberg – Círculo de Lectores.
Valente, José Ángel (2008a) Per isole remote. Poesie (1953-(2000) Saggio critico, traduzione e cura di Pietro Taravacci, Postfazione di Massimo Cacciari, Pesaro: Metauro Edizioni.
Valente, José Ángel (2016) Non si desta il cantore, Studio critico e cura di Pietro Taravacci - Traduzione e nota traduttiva di Stefano Pradel, Alessandria: Edizioni dell'Orso.
Zabaleta, Alejandro (2011) “No podemos dejarnos engañar por la industria cultural”, in La Provincia, suplemento Cultura (20 de enero de 2011): 30-II.
Note
[1] Sulla questione cfr. l'Introduzione a Morelli 2008 e la Prefazione a Crespo 2011.
[2] Tale contrasto si è protratto nei decenni è può considerarsi oggi come una sorta di archetipo della poesia del secondo Novecento, che, pur fatte salve tutte le sfumature e le naturali eccezioni, ha proseguito nella sua doppia strada fra chi ha sostenuto la necessità di una poesia fortemente compromessa con la quotidianità e chi l'ha invece difesa come dimensione autonoma del sapere, dei quali poeti Valente è uno dei maestri indiscussi. Come ha per esempio dichiarato A. S. Robayna in un'intervista «le nostre società devono capire prima di tutto che l'esperienza artistica non può essere vista come una forma di svago, l'esperienza artistica è una forma di conoscenza» (Zabaleta 2011).
[3] Il presente intervento è relativo a una conferenza tenuta nel 2012. Tra le uscite successive si segnala il volume Valente 2016.
[4] Cfr. Valente 2006 e Valente 2008.
[5] Si segnala in particolare il numero monografico della rivista Campo de Agramante. Revista de literatura (XVII), dedicato a Valente nel 2012; sulla lettura di Valente da parte delle nuove generazioni poetiche cfr. anche Sánchez Robayna 2010.
[6] Ho recensito successivamente i tre volumi sulla rivista Poesia di Milano, riferimenti in bibliografia.
©inTRAlinea & Valerio Nardoni (2019).
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