Per una grammatica dello spazio
Montréal, L’Aquila, Venezia: tre città in traduzione
By Giuseppe Sofo (Università Ca' Foscari Venezia, Italia)
Abstract
English:
The concept of “cities in translation”, derived from the work of Canadian researcher Sherry Simon (2008; 2013), opens the way to a perception of languages as active forces in the transformation of the cities we inhabit. If Simon focuses on bilingual cities, and in particular on Montréal, analysing the continuous transitions from one language to another, it would be even more interesting to analyse the space between languages, moving in the direction of a study of the heterolinguism inherent in each space, that is, the intrinsic plurality of each space and of its voices. This article will place the case of Montreal alongside that of two Italian cities, L’Aquila and Venice, in an attempt to broaden the concept of the translational or “post-translational” city, thanks to the reading of the different but complementary ways of living in translation that these cities show us, in a physical and metaphorical sense. These pages cannot, of course, fulfil the task of outlining a real method of analysis of the city in translation, but rather aspire to open up a field, that of translation studies, to a true and profound encounter with the reality of contemporary urban spaces. The intention is therefore to contribute to a “linguistique d’intervention” that can act where languages are used and where languages influence our ways of living, that is, on what Gaffuri (2019) calls the “imaginaires de la vi(ll)e”, because space is not alone but is “consubstantial” to the languages that inhabit it and contribute to its formation.
Italian:
Il concetto di “città in traduzione” derivato dall’opera della ricercatrice canadese Sherry Simon (2008; 2013), apre la strada a una percezione delle lingue come forze attive nella trasformazione delle città che abitiamo. Se Simon si concentra sulle città bilingue, e in particolare su Montréal, analizzando i continui passaggi da una lingua all’altra, mi sembra sia ancora più interessante analizzare lo spazio tra le lingue, muovendosi nella direzione dello studio dell’eterolinguismo inerente a ogni spazio, cioè della pluralità intrinseca di ogni spazio e delle sue voci. Questo articolo affiancherà al caso di Montréal quello di due città italiane, L’Aquila e Venezia, nel tentativo di ampliare il concetto di città traduttiva o “post-traduttiva”, grazie alla lettura dei modi diversi ma complementari di vivere in traduzione che queste città ci mostrano, in senso fisico e metaforico. Queste pagine non possono ovviamente assolvere il compito di delineare un vero e proprio metodo di analisi della città in traduzione, ma aspirano piuttosto ad aprire un campo, quello degli studi sulla traduzione, a un incontro vero e profondo con la realtà degli spazi urbani contemporanei. L’intento è quindi quello di contribuire a una “linguistique d’intervention” che possa agire laddove le lingue si usano e laddove le lingue influenzano il nostro modo di vivere, ovvero su quelli che Gaffuri (2019) definisce gli “imaginaires de la vi(ll)e”, perché lo spazio non è solo ma è “consustanziale” alle lingue che lo abitano e contribuiscono a formarlo.
Keywords: città, spazio, eterolinguismo, post-translation studies, space, heterolinguism, cities
©inTRAlinea & Giuseppe Sofo (2021).
"Per una grammatica dello spazio Montréal, L’Aquila, Venezia: tre città in traduzione"
inTRAlinea Special Issue: Space in Translation
Edited by: Lucia Quaquarelli, Licia Reggiani & Marc Silver
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2575
La città come palinsesto
Per parlare di città in traduzione è necessario partire da una visione della città come testo, come scrittura di uno spazio. Come scrive Luigi Gaffuri, “diventa importante interrogare il territorio come testo, interpretarlo come tessitura di segni” (2018: 62). Questa tessitura dà ovviamente origine a un testo che non è mai semplice, ma sempre una complessa rete di più testi che si intersecano e sono scritti nello stesso luogo, come in un palinsesto. Anche Settis parla di tessitura e palinsesto, quando scrive che “le città italiane sono un prodigioso palinsesto” e che “la tessitura delle città sopravvive mutando” (2014: 54) e lo fa, significativamente, in un’opera dedicata a Venezia nella quale riserva però un discreto spazio alla discussione della trasformazione dell’Aquila nel post-terremoto.
In una città, come in ogni palinsesto, presente e passato convivono e interagiscono tra loro. Se è vero che “il y a du palimpseste dans la traduction” (Meschonnic 1990: 1), perché è un testo che si fa sopra un altro testo e ne tiene traccia, nel quale si vede dunque “un texte se superposer à un autre qu’il ne dissimule pas tout à fait, mais qu’il laisse voir par transparence” (Genette 1982: 556), anche le città traduttive o post-traduttive sono sempre palinsesti, perché “ogni città ne contiene altre: le città che essa è stata, e che vi hanno lasciato impronte più o meno marcate, ma anche le città che essa avrebbe potuto essere, e non fu” (Settis 2014: 8).
Come ogni testo, la città ha una propria sintassi e una grammatica che regola le possibilità di creazione e comprensione. Per capire un luogo, è quindi necessario conoscere questa “grammatica dello spazio” e saper leggere la lingua della città. Gaffuri ci dice a proposito dello spazio e della sua trasformazione in territorio:
Partendo dall’ambiente, chiamato convenzionalmente spazio, intendendo con questo termine un’estensione dotata di meri attributi e qualificazioni naturali, la formazione del territorio e la sua evoluzione si realizzano attraverso il processo di territorializzazione, cioè l’insieme di procedure mediante le quali gli uomini e le società da essi create esercitano una serie di atti sulla realtà materiale nella quale vivono, abitandola e facendone il proprio luogo di vita. (Gaffuri 2018: 67)
La distinzione tra ambiente (o spazio) e territorio è quindi la stessa distinzione che esiste tra langue e parole, tra un’entità a disposizione della comunità e gli atti individuali che concretizzano la sua esistenza. Lo spazio è la langue che condividiamo, i modi in cui territorializziamo lo spazio sono i nostri atti individuali di parole, e dobbiamo studiare questi due aspetti insieme per capire come contribuire ad una vera lettura dello spazio.
Il corpus di una ricerca di questo tipo è il corpo stesso della città, ma il problema vero è come leggere questo corpo, e come si possa definire una grammatica dello spazio urbano. Settis propone delle piste possibili, quando scrive:
Proviamo a pensare che la città abbia un corpo (fatto di mura, edifici, di piazze e strade…), ma anche un’anima. E che l’anima non siano solo i suoi abitanti, donne e uomini, ma anche una viva tessitura di racconti e di storie, di memorie e di principî, di linguaggi e desideri, di istituzioni e progetti che ne hanno determinato la forma attuale e che guideranno il suo sviluppo futuro. (Settis 2014: 14)
È all’incontro tra la città fisica e questa “città di parole”, per usare un’espressione coniata da Portelli (2006) per Centocelle, che bisogna guardare per avvicinarsi a una lettura della città nel punto in cui il suo corpo fisico incontra il suo corpus testuale, costituito dai racconti della città che ne costruiscono l’immagine e la memoria. Anche perché, come ha detto Gaffuri: “il senso del luogo risiede nella sua materialità, fisicità e concretezza, ma anche nel modo in cui conferiamo significato all’ambiente, utilizzandolo e costruendolo come soggetti individuali e collettivi” (2019). E lo spazio è una costruzione anche linguistica, se è vero, come scrive Lefebvre che “tout langage se situe dans un espace (des lieux ou ensembles de lieux)” e che “tout discours parle d’un espace” (2000: 155), e che “il luogo autentico in cui il senso delle cose si genera e si trasforma è il mondo naturale, a partir dal quale si aprono le formali articolazioni del linguaggio, della cognizione individuale e del comportamento sociale” (Gaffuri 2018: 59-60). Lo spazio non è mai privato del suo discorso, e il linguaggio non è mai privato di uno spazio: è dunque al crocevia di parole e mura che bisogna cercare e studiare la grammatica dello spazio.
Montréal e la terza lingua
Se ogni città è un luogo di incontro linguistico, è anche vero che “chaque ville impose ses propres configurations d’interaction” (Simon 2013: 23), e una città doppia dal nome doppio come Montréal/Montreal è sicuramente l’esempio ideale di “ville traductionnelle”, secondo la definizione che ne dà Simon:
Le caractère spécial de ces villes tient à la présence de deux communautés linguistiques enracinées historiquement, qui revendiquent un droit sur le même territoire. Chaque communauté linguistique est soutenue par des institutions exerçant une autorité similaire […]. Ces villes-là ne sont pas bilingues : elles sont traductionnelles. Ce terme exprime plus adéquatement la gamme des relations qui nourrissent l’imagination urbaine – des relations d’indifférence et de négation autant que d’engagement et d’interférence créative. Le mouvement d’une langue à l’autre est marqué par une intensité spéciale qui tient à une histoire commune, à un territoire commun et à la situation des droits parallèles. (Simon 2013: 24)
La storia di Montréal, “traversée par une faille linguistique” (Simon 2013: 17), ovvero da quell’asse nord-sud rappresentato dal Boulevard Saint-Laurent che divide la città francofona da quella anglofona, è stata per oltre tre secoli “dominée par cette ligne de partage” (Simon 2008: 24) che sembra dividere due mondi. In una città come questa, la traduzione assume ovviamente un ruolo centrale, che non regola solo gli scambi linguistici veri e propri, ma che in qualche modo modella la città, o come scrive Simon, “façonne la réalité urbaine” (2013: 228), anche fisicamente, perché le lingue fanno costantemente parte dello spazio urbano.
Montréal ci offre infatti immagini molto evidenti della città come palinsesto, con i suoi manifesti scritti in inglese, poi coperti da nuovi testi scritti in francese dopo l’approvazione della Charte de la Langue Française du Québec nel 1977, che cominciano ormai a sbiadire, rivelando il testo inglese nascosto. Questi palinsesti veri e propri, in cui le lingue si sovrappongono, non sono però che piccoli esempi suggestivi di un processo che si verifica per l’intera città. Leggere Montréal, vivere questa città appieno, significa infatti riuscire a rivelarne tutte le iscrizioni nascoste, la presenza di tutte le lingue che hanno contribuito a creare la città così come la si conosce oggi. Perché nella città, come in ogni palinsesto, presente e passato convivono nello stesso spazio e interagiscono tra loro, senza cancellarsi l’un altro, ma contribuendo piuttosto ad una maggiore complessità.
L’immagine abituale di Montréal è quella di una città di “due solitudini”, come suggerisce il titolo del romanzo di Hugh MacLennan (1992), e Simon sembra confermare questa prospettiva facendo più volte riferimento a una città “doppia”. Eppure, in questa dualità tra la città anglofona e la città francofona, questa “géométrie rassurante” grazie alla quale “deux cultures cohérentes et autonomes (anglaise, française) occupaient des espaces symétriques” (Simon 1994: 94), un ruolo fondamentale viene coperto da un terzo polo, quello di una zona intermedia, una “zone tampon” (Simon 1994: 95), che dà luogo a un terzo spazio. Questo spazio, che non appartiene né alla città francofona né a quella anglofona, offre uno spazio di negoziazione per entrambe e rende la realtà di Montréal più complessa. Andando oltre l’originaria faglia linguistica, Montréal si scopre quindi non più città doppia, ma porta aperta a una trasformazione nella quale altre lingue giocano un ruolo ben più importante di quello che i documenti ufficiali parrebbero attribuire loro.
Se si parla di un terzo spazio, questo presuppone però anche una “terza lingua”, perché questi spazi “résistent à la dualité – introduisant des langues mixtes qui troublent les régimes normatifs de la traduction” (Simon 2013: 36). Il confronto linguistico dei due spazi della città con una terza realtà avviene quindi attraverso un confronto con le lingue terze, quelle di abitanti né francofoni né anglofoni di Montréal che introducono altre lingue (o forse sarebbe più giusto dire lingue “altre”) negli interstizi delle due lingue principali della città.
Questo può portare a configurazioni di tipo diverso, e la più interessante mi sembra quella che vede questa terza lingua come base della definizione di una “identité qui déstabilise les certitudes anciennes, et fait état de l’hybridité et du plurilinguisme croissants de la ville dans son ensemble” (Simon 2013: 37). Si può infatti in questo senso aprire a una diversa comprensione del concetto di terza lingua, rispetto a quella proposta da Simon (2013). La terza lingua non è solo una lingua “altra” rispetto al francese e all’inglese, ma piuttosto la risultante dall'incontro tra le lingue (e non solo tra queste due), come effetto del processo di traduzione. Secondo William Hanks, “the target language may be altered in the process of translation. It may be incremented by neologisms, newly coined uses for existing forms, proper names, or portions of the source text left untranslated in the target” (2014: 29), e questo ci porta non più ad una semplice relazione binaria tra le lingue, ma piuttosto a una relazione a tre parti tra la lingua di partenza, la lingua di arrivo e la versione “neologizzata”, per usare il termine scelto da Hanks (2014: 29) della lingua di arrivo, una lingua generata dalla traduzione stessa e che senza di essa non esisterebbe. L’incontro, il conflitto, e persino le inevitabili incomprensioni che si producono nello scambio, danno così origine a una nuova lingua, che ci offre una nuova comprensione della città, che non vive mai in uno spazio monolinguistico, se non temporaneamente, né in uno spazio bilingue, ma sempre in quella zona di contatto, conflitto e negoziazione che è generata dall’incontro tra lingue.
L’Aquila tradotta e tradita
La faglia che divide L’Aquila è una faglia fisica e temporale. Quel terremoto del 6 aprile 2009 che non è solo un evento naturale catastrofico, ma è anche il momento zero che segna un prima e un dopo. “Prima del terremoto” e “dopo il terremoto” hanno assunto nei discorsi quotidiani degli aquilani e delle aquilane il ruolo di una demarcazione temporale che divide tra un mondo e un altro, tra una città e un’altra. E questo presuppone anche un rischio piuttosto alto: il fatto che “dopo” niente più possa essere come “prima”, in termini esclusivamente negativi.
Il terremoto è una traduzione che smuove il senso, che toglie qualsiasi certezza, e chi subisce un terremoto è abitato dallo stesso paradosso della traduzione, perché è costretto a tradursi, a diventare altro pur restando sé stesso, a vivere “(quasi)” allo stesso modo, come in traduzione si può dire solo “(quasi)” la stessa cosa (Eco 2003). Qui l’annoso proverbio “traduttore traditore” non solo non è valido, ma è addirittura ribaltato, perché è il tradimento subito dalla città a costringerla a tradursi. Per ribaltare il paradigma è però necessario comprendere che una città in frantumi non è solo il risultato di un evento catastrofico, ma al tempo stesso anche un luogo di possibilità. Molti anni e diversi milioni di euro sono stati persi nella ricerca di “new towns” che nulla avevano di “nuovo”, e in nulla assomigliavano a una “città”, andando contro la stessa storia di questa entità geografica ma soprattutto umana, nata dall’unione e non dalla disgregazione. Come sottolinea Settis, infatti, L’Aquila fu il “massimo esempio di sinecismo del Medio Evo italiano” (2014: 89), ovvero della formazione di una città attraverso l’aggregazione di abitati già esistenti che scelsero di unirsi invece di vivere nell’isolamento e nella dispersione. Secondo tradimento, dell’uomo, dopo quello della terra.
Questa città completamente tradotta nella geografia urbana dal terremoto è però anche una città che sta raccogliendo la sfida di tradursi, di diventare altro pur restando sé stessa, e che sta lentamente cominciando ad accettare di dover abbandonare alcuni pezzi del suo corpo, oramai irrecuperabili, per riscoprirsi nuova. Oggi, più di dieci anni dopo il terremoto, il panorama è sensibilmente diverso, e se la città non è tornata quella del 2008, non è sicuramente neanche il corpo abbandonato senza vita dei primi anni post-terremoto. Come scrive Giovanni Baiocchetti su La Stampa con parole suggestive: “visitare L’Aquila è accarezzare un tempo sospeso tra passato e futuro, dove ogni giorno l’orchestra di rumori suona il sogno della città che verrà” (2018). E questo perché L’Aquila ha saputo fare tesoro della possibilità di riscriversi, di tradursi:
Visitare L’Aquila è vedere come una piccola città di montagna abbia colto la drammatica occasione per trasformarsi in un centro tecnologicamente avanzato, dove sotto terra si lavora a 12 chilometri di tunnel intelligente che porterà la fibra ottica direttamente nelle abitazioni e negli uffici, dove sotto ai portici Ottocenteschi score il 5G, l’ultima velocità di internet, dove vicino alla tristemente nota via Campo di Fossa, è nata una scuola di dottorato internazionale in fisica, matematica e computer science, dove una scuola elementare, una media e una superiore, hanno attivato cicli di studio interamente in inglese, dove le auto elettriche possono ricaricarsi in una delle nuove colonnine sparse per la città, dove le ville liberty poggiano ora su dei pilastri antisismici incavati nel terreno, dove affianco a un palazzo ancora malconcio ne brilla un altro appena ritinteggiato, pronto a riaccogliere la vita. (Baiocchetti 2018)
Ogni traduzione del territorio passa ovviamente da una traduzione di chi lo abita, perché come ha detto Gaffuri: “la ridefinizione del luogo ha a che fare col modo in cui il soggetto procede alla propria ricostruzione” (2019). Harish Trivedi, uno dei padri dell’incontro tra gli studi sulla traduzione e gli studi postcoloniali, durante il suo discorso di apertura della nuova laurea magistrale in lingue del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila ha detto che non dovremmo preoccuparci delle lingue che muoiono, perché le lingue che sopravvivono sono “the languages you can make a living in” (2019). Per quanto in parte provocatoria, l’affermazione di Trivedi è sicuramente interessante e forse premonitrice: L’Aquila non può più parlare la lingua del “prima”, perché in quel “prima” non si può più vivere, non ci si può più costruire una vita. Preoccuparsi di una lingua che sta morendo, in questo caso, significherebbe tralasciare quella nuova lingua che può invece dare da vivere, non solo economicamente ma anche mentalmente, alle nuove generazioni di ragazzi e ragazze che potrebbero finalmente decidere di smetterla di scappare da questa città.
Nello stesso dipartimento, il progetto dell’InterMedia Video Lab, diretto da Massimo Fusillo, si propone di ridisegnare la città virtualmente con la collaborazione diretta degli studenti dell’ateneo, basandosi su una forma di ricostruzione virtuale dei monumenti dell’Aquila che intende fornire “gli strumenti tecnico-visuali per svolgere un’indagine sul territorio aquilano, con il fine di individuare dei siti archeologici ed edifici storico-monumentali i cui vuoti filologici possono essere colmati da una ricostruzione virtuale proiettata direttamente sulla superficie architettonica in questione” (Lino 2018a), divenendo così “una vera e propria opera di restauro virtuale” (DSU 2018). Un altro esperimento dell’InterMedia Video Lab, intitolato Cthulhu: An Investigation on Very Low Frequencies in L’Aquila, può servire da esempio per una ricostruzione della città che passa anche da un incontro col virtuale, sviluppato da KOMPLEX – Live cinema group in collaborazione con Mirko Lino che lo descrive così:
I luoghi emblematici del centro storico del capoluogo abruzzese, assieme ad alcune facciate di edifici ancora sotto sicurezza, sono stati trasmutati nel palcoscenico per l’apparizione digitale di Cthulhu, il celebre mostro mitologico dei romanzi di H.P. Lovecraft. Puntando lo smartphone su alcune facciate e monumenti e usando il pointer della app HP Reveal, l’utente vedrà apparire lentamente il mostro lovecraftiano da dietro le mura del Forte Spagnolo del sedicesimo secolo, mentre tra le colonne del portico all’altezza di Piazza del Duomo compaiono i suoi famigerati tentacoli. (…) Le apparizioni sono accompagnate da musiche elettroniche gravi e a bassa frequenza: un sound design che lavora suggestivamente sulle cosiddette Very Low Frequencies (bassissime frequenze che secondo alcuni scienziati faciliterebbero le previsioni di movimenti tellurici rilevanti), stabilendo un nesso tematico tra l’immaginario letterario, la speculazione scientifica e la tragedia del sisma del 2009. (Lino 2018b)
La trasformazione della città vive dunque sul confine tra il visibile e l’invisibile, tra il virtuale e il reale, e permette, come scrive Lino, di “risemantizzare gli spazi urbani e le superfici della città, offrendo all’utente un percorso aumentato” (2018b), o meglio ancora, di “rimediare” (Lino 2019), dove il verbo indica al contempo una trasformazione del luogo attraverso i nuovi media e un rimedio alle ferite subite dalla città. La realtà aumentata diventa così un mezzo di traduzione della città, per ridisegnarla a proprio piacimento senza toccare una sola pietra, creando così “suggestive commistioni interattive tra elementi reali e digitali in uno spazio che diviene ibrido, dove il virtuale non sospende il reale, bensì lo arricchisce di informazioni e dati” (Lino 2018b). Ancora una volta, il presente e il futuro si iscrivono sul palinsesto del passato, senza cancellarlo, ma aggiungendo livelli di significato.
L’Aquila potrà rinascere solo cogliendo la possibilità di incorporare in sé tutte le città possibili generate dalla necessità di ricostruirsi, di reinventarsi, di ridisegnare una mappa geografica e affettiva della città, scegliendo nuove parole e nuove lingue, reali e virtuali. È così che quel “prima” e quel “dopo” potranno lasciare lo spazio a una città inedita e imprevista, una “ville cible”. E sebbene questa non potrà mai essere la “ville source”, gli studi sulla traduzione ci hanno ormai insegnato ad accettare queste versioni alternative degli originali come altrettanto valide e altrettanto degne di essere lette e vissute.
Venezia tra eterolinguismo e necessità di traduzione
Se si decide di indagare un campo eterolingue, Venezia è forse in assoluto l’esempio più adeguato. L’onnipresenza di decine, forse centinaia di lingue nella città ci rivela che non si può attraversare Venezia senza essere influenzati dalla lingua in cui la si attraversa. E questo ovviamente costringe a chiedersi che ruolo giochi la lingua che parliamo nel modo in cui viviamo uno spazio.
Venezia non è esattamente Venice, e non è Venise, Venedig, Venecia, o 威尼斯. Non si tratta solo di denominazioni diverse dello stesso luogo in diverse lingue, ma piuttosto della coesistenza di diverse immagini e immaginari alla base della comprensione della città. Il modo in cui una città è stata descritta, scritta, sognata nella storia di ogni cultura ne influenza profondamente l’identità. L’immagine della città si costruisce così attraverso le sue presentazioni e rappresentazioni, come traduzione di traduzioni, ed è forse in queste interpretazioni che dobbiamo cercare di leggere la città come testo originale, e al contempo in trasformazione. Non si deve dimenticare che se pensiamo al caso specifico di Venezia e della lingua francese, alla base del racconto in francese di Venise ci sono anche le opere di veneziani come Goldoni, Marco Polo e Casanova, che hanno tradotto la loro città nella lingua d’oltralpe nelle loro opere.
Non esiste poi luogo migliore per parlare della città come palinsesto e traduzione di una città che è essa stessa il risultato della traduzione di uno spazio. Questa terra strappata al mare è infatti forse il miglior esempio di una traduzione riuscita dello spazio, per quanto del tutto infedele alla sua origine, o al suo originale. Come scrive Franco Mancuso, Venezia è nata da una conquista dell’acqua che ha trasformato l’arcipelago da una laguna a una città:
La Venezia delle origini si sviluppa da un insieme di nuclei arroccati su indefinite terre insulari stentatamente emergenti dalla compagine lagunare, separate fra loro da canali e da ampie superfici acquee. È una sorta di arcipelago, nel quale le terre emerse sono sicuramente meno estese nel loro insieme delle superfici acquee che le separano. (Mancuso 2011: 8).
Costruire sull’acqua, come si è fatto a Venezia, significa trasformare uno spazio di movimento, l’acqua, in uno spazio di vita sedentaria. È una vera e propria traduzione fisica, un cambiamento linguistico estremo, ed è per questo che Paul Preciado definisce Venezia addirittura una “ville travestie” (Preciado 2019), perché caratterizzata da un corpo in costante transizione, che esiste grazie a una sfida lanciata alla stessa natura: “Venise émerge, comme le corps trans, du désir de vivre et d’exister face au diagnostic architectural, médical et religieux selon lesquels ‘ce lieu n’était pas approprié pour la construction d’une ville’” (Preciado 2019). Venezia è dunque una città in un corpo che non le appartiene, o meglio: una città che non ha avuto paura di trovare il proprio corpo altrove, di esplorare la propria identità in tutta la sua pluralità. E Venezia è portatrice di un paradosso, che deriva direttamente dalla sua identità palinsestuale, perché oggi Venezia è “quella che era all’origine, e anche contemporaneamente tutto il suo diverso”, in quanto “la città si costruisce in un tempo relativamente contratto, dagli ultimi secoli del primo millennio, e dentro il XIV secolo dispone già di tutte le strutture, campi, chiese, canali, calli, edifici, abitazioni, palazzi” (Mancuso 2011: 11), ma allo stesso tempo si trasforma costantemente. Non solo i confini, dunque, ma anche i punti chiave, gli snodi della città rimangono essenzialmente gli stessi, ma cambiano così tanto da poter dire “che non vi è edificio, chiesa, palazzo, che non sia oggi il risultato delle trasformazioni succedutesi nel tempo” (Mancuso 2011: 11).
E Venezia non viene tradotta solo al suo interno, ma anche oltre la laguna, nelle innumerevoli imitazioni e copie che esistono nel mondo, dalle ricostruzioni quasi da parco giochi di Las Vegas e Macao ai quartieri e alle città che vengono chiamate “Venezia del Nord”, “Venezia dell’Est” o semplicemente “Venezia”, per via di una qualsiasi minima caratteristica in comune con la città lagunare.
Questa città tradotta è però al contempo anche una città da tradurre, sebbene in maniera diversa da L’Aquila. La vera e propria invasione quotidiana di turisti subita da Venezia ha portato con il tempo la città a svuotarsi di abitanti, con la perdita di più di due terzi della propria popolazione in poco più di sessant’anni (dai 174.808 abitanti del 1951 ai 56.684 del giugno 2014, per scendere addirittura sotto i 51.000 abitanti nel aprile 2021). E a svuotarsi non sono ovviamente tanto le abitazioni, adibite ad alloggi per affitto turistico, spesso di breve durata, ma soprattutto l’identità stessa di Venezia in quanto luogo vivo. Non parlo dunque di identità di un luogo nel senso folcloristico e nostalgico di chi pretende di difendere una presunta immutabile “anima” della città, ma nel senso di una vita propria al luogo.
Questa città tradotta è dunque alla ricerca di una nuova traduzione, di una nuova riscrittura che si faccia portatrice del suo “senso”, del suo messaggio, più di quell’originale ormai consumato da troppe cattive letture. Piuttosto che diventare la destinazione finale della nuova “Via della seta”, Venezia ha dunque bisogno di trovare una nuova “via del sé”, una strada che le permetta di riscoprirsi, tradotta ma non tradita.
La lezione dei luoghi
La città tradotta è la città che fa della pluralità e dell’incoerenza un vantaggio piuttosto che una perdita. Sarebbe quindi necessario andare un po’ oltre la definizione di “città traduttiva” di Simon per parlare di “città post-traduttiva”, utilizzando il concetto di “effetto post-traduttivo” introdotto da Gentzler (2017: 3), che ci parla della necessità di guardare “oltre” la traduzione per capire “le ripercussioni post-traduttive generate nella cultura ricevente negli anni successivi”, ovvero quali cambiamenti sono avvenuti nella cultura ricevente dopo la traduzione e quale ruolo la traduzione ha svolto in tali cambiamenti.
Montréal è una città post-traduttiva perché è una conseguenza della traduzione, perché il suo ambiente culturale e fisico è stato profondamente trasformato dalle sue lingue e dalla loro interazione. L’Aquila è post-traduttiva perché è stata tradotta e tradita dal terremoto e perché ha dovuto imparare a tradursi di conseguenza. Venezia è post-traduttiva perché è il risultato di una traduzione, e perché è alla ricerca di una nuova traduzione che possa farci dimenticare tutte le cattive traduzioni che ne sono state prodotte nella storia, e che permetta a chi la visita una vera comprensione del suo linguaggio intimo.
C’è un ultimo aspetto che la città e la traduzione condividono e che offre loro un’identità instabile e quindi mobile, ed è l’eterna incompiutezza di entrambe. Ogni traduzione è strutturalmente incompiuta, perché nessuna traduzione è mai “la” traduzione definitiva, ma piuttosto uno spazio di negoziazione del testo e tra le lingue. Allo stesso modo, ogni città viene costantemente ridisegnata, ricostruita (fisicamente e non) dai movimenti all’interno delle sue strade e dei quartieri delle persone che vi abitano, che col loro movimento danno nuove vite e nuovi significati agli stessi spazi, continuamente abitati in modi diversi e quindi continuamente reinventati. Si è spesso parlato dei migranti come uomini tradotti, ma forse si è sempre dimenticata la parte più importante dell’equazione: chi migra non solo viene tradotto, ma soprattutto traduce a sua volta lo spazio in cui arriva, con la propria presenza, e la propria prospettiva della città, che è del tutto inedita. La chiave è l’ospitalità: per lo spazio, come per il testo, è la capacità di accogliere la novità introdotta a essere decisiva perché l’incontro dia buoni frutti.
La città è il miglior esempio possibile di una costante incompiutezza e mancanza che diventa un beneficio. In ogni momento incompiuta e completa allo stesso tempo, nella sua unità che raccoglie tutte le sue diversità, la città è quindi continuamente inedita ma allo stesso tempo la storia delle sue stratificazioni persiste, perché la città non abbandona mai del tutto nessuna delle sue fasi costruttive (anche le più antiche e nascoste possono da un momento all’altro tornare in superficie). Lo stesso è vero per la traduzione, che inevitabilmente contribuisce all’eterno futuro della lingua, delle culture e dei popoli. Contribuisce insomma, a quell’incompiutezza che invece di diventare un problema, diventa il dono più importante di questa pratica, che apre le porte ad una verità più fluida e meno assoluta.
Se, come scrive Brossard, “on dit de certaines villes qu’elles donnent des leçons” (1998: 56), la lezione della Montréal letta da Sherry Simon è quella di una città che “stimule l’imagination translinguale” (Simon 2008: 21), quella dell’Aquila è la scoperta di una nuova lingua che non cancelli il passato ma sappia andare oltre, mentre quella di Venezia è che ogni traduzione, persino la più estrema e la più riuscita, lascia ancora spazio per una nuova traduzione.
Bibliografia
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URL: [url=https://cinergie.unibo.it/article/view/8430/8624]https://cinergie.unibo.it/article/view/8430/8624[/url] (consultato il 19 ottobre 2019).
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©inTRAlinea & Giuseppe Sofo (2021).
"Per una grammatica dello spazio Montréal, L’Aquila, Venezia: tre città in traduzione"
inTRAlinea Special Issue: Space in Translation
Edited by: Lucia Quaquarelli, Licia Reggiani & Marc Silver
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