“Perspectivas equivocadas deliciosamente”.
A proposito dei disegni di Federico García Lorca
By Piero Menarini (University of Bologna, Italy)
Abstract
English:
Only thirty years ago, nobody would have imagined that someday we would consider Federico García Lorca’s drawings and paintings not as a secondary and occasional artistic expression of the artist, but as one that is parallel and complementary to his poetic activity. Through some examples, this short essay, analyses Lorca’s activity as an illustrator and relates it to his poetry, thus discovering an enhanced interpretation of his work.
Italian:
Solo una trentina di anni fa, nessuno avrebbe sospettato che un giorno avremmo dovuto considerare anche il disegno e la pittura di García Lorca come espressione artistica per nulla marginale ed episodica, ma al contrario parallela e complementare alla sua attività poetica. Questo breve saggio analizza, con alcuni esempi, l’attività del Lorca disegnatore in rapporto con la sua poesia e l’incremento di interpretazione che ne deriva.
Keywords: García Lorca, Romancero gitano, Soledad Montoya, drawings, Dibujos
©inTRAlinea & Piero Menarini (2013).
"“Perspectivas equivocadas deliciosamente”. A proposito dei disegni di Federico García Lorca"
inTRAlinea Special Issue: Palabras con aroma a mujer. Scritti in onore di Alessandra Melloni
Edited by: Maria Isabel Fernández García & Mariachiara Russo
This article can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/specials/article/2002
Malgrado decenni di studi, molti dei quali ad altissimo livello, che apparentemente hanno già analizzato tutto e più di tutto, sorge ancora a volte una domanda apparentemente semplice, ma nel fondo imbarazzante: chi e cosa fu Lorca? Un poeta, un prosatore, un drammaturgo, uno sceneggiatore, un musicista, un regista oppure, come ha cominciato ad emergere negli ultimi decenni, un disegnatore? Fu un genio in tutte le sue manifestazioni espressive oppure un ottimo dilettante? Nella considerazione della maggior parte del suo pubblico egli non è semplicemente un poeta, ma il poeta, sebbene Federico avrebbe forse preferito Poeta, con la maiuscola, così come chiamava Poesia ogni suo lavoro, indipendentemente dal genere e dalla forma. Tuttavia, non è scontato come rispondere alle domande precedenti, benché rispetto all’ultima ritengo possano sussistere pochi dubbi: fu un genio anche allorché i risultati delle sue sperimentazioni non appaiono assoluti. Non è facile rispondere soprattutto perché quanto più ne sappiamo di lui, tanto più sembra sfuggirci l’ipotesi della ragione, che vorrebbe dell’artista un’immagine nitida e definita/definibile, riducibile a profilo o a scheda, come in un manuale scolastico o in una voce enciclopedica, dove tutto appare inequivocabile ed univoco. Non così lui. Non così il poeta, e proprio a partire dalla formulazione che adotteremmo per definire un poeta come “colui che scrive versi perché vede il mondo in versi”. Lorca, che tanto spesso ha parlato dell’arte, e di sé come artista, con un gioco di maliziosa autodefinizione ci obbliga a rincorrere significati così complessi da risultare sfuggenti:
Quiero llorar porque me da la gana,
como lloran los niños del último banco,
porque yo no soy un hombre ni un poeta ni una hoja,
pero sí un pulso herido que ronda las cosas del otro lado
(Poeta en Nueva York: “Poema doble del Lago Eden”).
L’inclemenza di questa considerazione di se stesso, del proprio sentire e rappresentare il mondo, sfugge ad ogni formulazione approssimativa e ci rimanda invece ad una visione complessa: quella del poeta che vede le “cose dell’altro lato”, o “l’altro lato delle cose”, quello in cui l’inappagante e spesso avvilente verità delle apparenze è soppiantata dalla misteriosa trama delle relazioni fra le mille micro-verità che mantengono in equilibrio l’intero universo. Come esprimere allora questo mistero? Esiste uno strumento unico e privilegiato per farlo? E se esiste, è la poesia?
Se leggiamo con attenzione la traiettoria di Lorca c’è da credere che egli non abbia mai inteso che la sola parola potesse assolvere ad un compito così stremante ed arduo. Il che non significa affatto affermare che egli non sia poeta, ma assegnare alla sua concezione di poesia una totalità che supera ogni definizione parziale. Se è vero che per Federico «la poesía existe en todas las cosas» (come scrisse fin dal prologo alla sua prima opera edita, Impresiones y paisajes, del 1918) e si realizza ogni volta che si riesce ad esprimere quanto sta dietro le forme e a superare la banalità del sensibile-epidermico, allora è evidente che non può esistere un veicolo d’espressione esclusivo. È evidente, cioè, che essere poeti non allude ad un mestiere, ma ad un atteggiamento, non significa solo scrivere versi, ma sapersi moltiplicare per cogliere di volta in volta quale o quali modalità espressive assumere per decifrare il senso profondo e globale delle cose:
[...] es imprescindible ser uno y ser mil para sentir las cosas en todos sus matices
(Impresiones y paisajes).
Il suo primo amore fu la musica, sia classica che popolare: per ragioni famigliari e contingenti non poté dedicarvisi professionalmente, ma neppure l’abbandonò mai, tanto che nel 1931 incise i cinque celebri dischi delle Canciones populares antiguas, accompagnando al piano la voce dell’Argentinita (Encarnación López Júlvez).[1] Il suo primo libro edito, Impresiones y paisajes, apparso nel 1918 e dopo pochi giorni ritirato dal mercato, era in prosa: poetica, certo, ma pur sempre prosa. Nel 1920 diede alle scene la fallimentare commedia El maleficio de la mariposa: teatro poetico, certo, ma pur sempre teatro. Solo nel 1921 pubblicò versi: è il Libro de poemas, una delle opere più amate in Italia, che riscosse però scarsi consensi. Dal 1922 cominciò ad interessarsi al recupero del teatro dei burattini, scrivendo copioni e organizzando la celebre rappresentazione granadina del 1923, a cui prese parte anche il grande maestro Manuel de Falla e nella quale Federico assunse per la prima volta vari ruoli: impresario, autore, regista, attore/animatore, scenografo e costumista. Nel 1927, con Canciones, e nel 1928, col Romancero gitano, si consacrò poeta. Ma l’anno seguente, a New York, oltre alle note poesie surrealiste poi riunite postume in Poeta en Nueva York, scrisse una sceneggiatura cinematografica, Viaje a la luna, mai realizzata, sebbene non avesse nulla da invidiare al Chien andalou di Buñuel. Gli anni Trenta lo videro soprattutto impegnato nel teatro, come drammaturgo, ma anche come regista, attore e direttore di progetti, quale quello celeberrimo della Barraca, nel quale tutte le espressioni artistiche dell’epoca trovarono un punto di fusione e di interazione.
E infine i disegni, dallo scarabocchio al calligramma, dalla caricatura alla scenografia, dal quadretto andaluso a modo di ex-voto alla più ardita stilizzazione e sintesi surrealista. Certo, era risaputo che Lorca fosse anche disegnatore, ma si pensava che si trattasse di strappi episodici o di un vezzo collaterale comune a tanti scrittori del primo Novecento, magari gonfiato dagli amici. Furono infatti proprio gli amici catalani che lo convinsero, peraltro senza dover ricorrere ad eccessive pressioni, ad esporre alle Galeries Dalmau di Barcellona 24 suoi disegni, dal 25 giugno al 2 luglio 1927. Nel 1932 (26 giugno-3 luglio) Lorca partecipò ad una controversa collettiva di giovani pittori d’avanguardia all’Ateneo Popular di Huelva. In questa seconda ed ultima esposizione presentò 8 disegni. Fu un amico e ammiratore appassionato, Gregorio Prieto, pittore professionista, a dedicare, già nel 1946, una “monografia” a Lorca disegnatore (Prieto 1946), presto seguita da quella, più tecnica, di Gebser (1949).
Nessuna novità, quindi. Ma nessuno avrebbe mai sospettato che un giorno avremmo dovuto considerare anche questa espressione artistica per nulla marginale ed episodica, ma al contrario parallela e complementare alla sua attività “maggiore”. E persino ingente: infatti, i disegni raccolti e catalogati[2] superano ormai i 500. Il dato, sebbene puramente quantitativo, ci porta a comprendere che Lorca non si era avventurato in questo terreno per caso, né per emulazione nei confronti dei suoi molti amici pittori, bensì con convinzione, tenacia, originalità e continuità analoghe a quelle che riservava alla scrittura (anche se non certo con gli stessi risultati). E, naturalmente, era come sempre consapevole di tutto ciò che la sua arte produceva, tanto da avere persino accarezzato il progetto di essere egli stesso a pubblicare parte della propria produzione grafica, come dimostrano due lettere all’amico Sebastià Gasch. Nella prima, risalente alla metà di settembre del 1927, avvertiva semplicemente: «Quiero editar mis dibujos. ¿No te parece? Con un prólogo tuyo» (García Lorca 1997a: 524).
Ben più determinato appare invece nella seconda, del 20 gennaio 1928:
En cuanto a editar mis dibujos, estoy muy decidido. En Barcelona quizá los editara más barato. Yo te rogaría que te enteraras sobre poco más o menos cuánto me costaría. Publicaría casi todos los que te envié y algunos más. Pondría poemas intercalados, y Dalí, además, pondría dibujos suyos y algunos poemas también. Tú harás un prólogo o estudio, y procuraríamos que el libro circulase. Dime si te parece bien este proyecto que podríamos hacer todavía mejor. Me gustaría extraordinariamente hacer esto porque sería un precioso libro de poemas (García Lorca 1997a: 546).
Probabilmente, la discreta accoglienza riservata all’esposizione barcellonese lo aveva in qualche modo stimolato e animato a fissare in una pubblicazione questo suo volto meno noto. Non dimentichiamo che, sebbene la princeps del libro che gli diede la fama, il Romancero gitano, risalga al luglio del ‘28, già da oltre un anno Federico stava facendo circolare i suoi romances tra gli amici, ed era quindi già celebre e celebrato come “il poeta dei gitani”. Liberarsi dalle etichette riduttive e pseudo-folkloristiche lo solleticava. Tuttavia, la struttura del progettato libro, così come descritta nell’ultima lettera, ci rivela, oltre che un interesse affatto marginale per l’espressione iconografica, anche che Federico non pensava di presentarsi alla ribalta del mondo artistico come disegnatore puro (anzi, afferma chiaramente che si sarebbe trattato di “uno squisito libro di poesie”) e che non avrebbe pubblicato solo opere sue, ma anche disegni e poesie di Salvador Dalí. Vale a dire che il presunto libro avrebbe avuto l’intento, originalissimo per quell’epoca, di mostrare due volti speculari e complementari dell’arte: quello di un poeta-pittore (Lorca) e quello di un pittore-poeta (Dalí).
Del resto, le recensioni che seguirono l’esposizione, tanto entusiastiche quanto amichevoli, colsero subito e a ragione la necessità di interpretare il disegno lorchiano collegandolo alla poesia.
Valga per tutte quanto scrisse Gasch (1927: 56):
Los dibujos de Lorca se dirigen exclusivamente a los puros, a los sencillos, a los capaces de sentir sin comprender; a los inefables gustadores de la infinita poesía de los objetos pueriles, anti-artísticos y anti-trascendentales: desde la tarjeta postal ilustrada, hasta el inmenso lirismo del interior de la loge de concierge, pasando por toda la patética intensitdad del cartelón del bistrot.
La recensione, in fondo, percorre la medesima linea di lettura che lo stesso Federico aveva dato di se stesso in altre lettere dirette allo stesso Gasch, nelle quali autocommentava il proprio lavoro pittorico. Ricordiamo quella del 2 settembre 1927, nella quale Lorca scriveva:
Yo he pensado y hecho estos dibujitos con criterio poético-plástico o plástico-poético en justa unión. Y muchos son metáforas lineales o tópicos sublimados como el “San Sebastián” y el “Pavo real”. He procurado escoger los rasgos esenciales de emoción y de forma, o de super-realidad y super-forma para hacer de ellos un signo que como llave mágica nos lleve a comprender mejor la realidad que tienen en el mundo (García Lorca 1997a: 519).
Il segno grafico o la parola, dunque, altro non sono che “strumenti” in mano al poeta, in mano a colui, cioè, che «ronda las cosas del otro lado», quel lato in cui si può cogliere il reticolo relazionale ed essenziale della realtà. Ma forse ancora più chiarificatrici sono le parole che seguono quelle sopra citate, con le quali di nuovo Lorca afferma - con evidente allusione polemica nei confronti del realismo e dello pseudo-realismo - la necessità che l’arte sia interpretazione e ri-creazione della realtà, non descrizione:
Estos dibujos son poesía pura o plástica pura a la vez. Me siento limpio, confortado, alegre, niño cuando los hago. Y me da horror la palabra que tengo que usar para llamarlos. Y me da horror el poema con versos. Y me da horror la pintura que llaman directa que no es sino una angustiosa lucha con las formas en la que el pintor sale siempre vencido y con obra muerta. En estas abstracciones mías veo yo realidad creada que se une con la realidad que nos rodea como el reloj concreto se une al concepto de tiempo de una manera como lapa en la roca (García Lorca 1997a: 519).
Lorca parla dei propri disegni con precisione assoluta, in relazione non solo alle loro caratteristiche formali, ma soprattutto alla loro genesi, che è, come già abbiamo visto, la medesima di tutta la sua poesia: è la sua poetica.
* * *
I disegni di Lorca potrebbero essere catalogati, oltre che cronologicamente o a seconda della loro ubicazione (ad es., su fogli sparsi o a commento di lettere o per illustrare libri dedicati), come giustamente fa Mario Hernández (1990), anche seguendo criteri ora tematici ora stilistici. Non è azzardato infatti affermare che è possibile leggere la produzione grafica lorchiana attraverso la presenza di filoni espressivi ben definiti i quali, fra l’altro, non corrispondono sempre a norme di periodizzazioni. Tanto per esemplificarne alcuni, troviamo, ad esempio, un filone figurativo-popolareggiante (donne e santi, visti all’”andalusa”, e marinai), uno astratto-geometrico (di sapore cubista), un altro di stilizzazioni esasperate (basate sul procedimento della rarefazione e riduzione dei segni compositivi), uno di labirinti o mappe e uno di sdoppiamenti di persone, o di persone e il loro doppio. Ci sono poi il ciclo caricaturale del Rinconcillo (1923) e quello di Poeta en Nueva York (1929-30), le ininterrotte serie di pagliacci e Pierrot, ecc. Naturalmente queste tipologie non sempre compaiono a sé stanti, ma interferiscono con altre, per cui si può avere l’inserimento del doppio all’interno di un’immagine andalusa (cfr., ad es., la Leyenda de Jerez, n° 106). Ma sostanzialmente la categorizzazione sopra accennata mi sembra abbastanza plausibile, anche perché, in un certo senso, corrisponde a definizioni poetiche.
Tuttavia, più che di relazione fra disegno e poesia, parrebbe più corretto parlare di simbiosi, nonché di intercambiabilità strumentale (non però con i medesimi risultati, ripeto). È innegabile infatti che, tralasciando i tanti disegni d’occasione, la produzione grafica espressamente pensata e realizzata da Lorca in quanto tale, cioè autonoma rispetto alla parola, sia quasi sempre aggregabile, più che associabile, a qualche sua scrittura poetica o teatrale. Viceversa, molte sono le sue opere letterarie che appaiono “illustrabili” con qualche disegno: tanto che in molti casi non è possibile affermare se venga prima il segno grafico o la parola poetica.
Certo, costituirebbe un grosso errore, un ingombrante elemento di devianza, non “leggere” in autonomia segni e parole. A questo proposito Lorca è chiarissimo nella seconda delle sopra citate lettere a Gasch: parola e segno pittorico si occupano della stessa cosa (rappresentare la “super-realtà”), ma non sono omologabili. D’altra parte, come giustamente osserva Hernández (1990: 30): «Los dibujos lorquianos subrayan o acompañan contenidos de su obra literaria y alcanzan, a la vez, plena autonomía artística».
È però anche vero che non appena si mettano in relazione disegno e poesia, scaturiscono nuove suggestioni e, a volte, persino imprevedibili espansioni le quali, riflettendosi su entrambi, aprono un nuovo piano interpretativo, non certo prevedibile né scontato.
Un esempio di ciò può essere rappresentato dallo stupendo disegno policromo, intitolato Soledad Montoya, realizzato da Lorca sull’esemplare del Romancero gitano dedicato e donato a Rafael Suárez Solís all’Avana nel 1930, ora conservato nel Museo de Bellas Artes de Cuba (Hernández 1990: 63, 219).
Figura 1. Soledad Montoya
Il disegno illustra la poesia “Romance de la pena negra”, la cui “protagonista” è appunto Soledad Montoya, personaggio andaluso emblematico o, meglio ancora, «concreción de la Pena sin remedio, de la pena negra, de la cual no se puede salir más que abriendo con un cuchillo un ojal bien hondo en el costado siniestro», come disse lo stesso Lorca nella Conferencia-recital del “Romancero gitano” (García Lorca 1997b: 183). Ebbene, il disegno in questione può essere letto secondo due direttive. La prima, prettamente grafica, ci porta a vedere questo personaggio femminile come una raffigurazione popolareggiante esemplare, e quindi tipologica, ben riconoscibile nell’iconografia lorchiana: immagine non solo terrena - a dispetto della sua essenza mitica (nel senso letterale di esponente del mito andaluso della pena oscura) -, ma geograficamente specificata e ristretta entro un ambito ben preciso: l’Andalusia. Dal punto di vista della composizione volumetrica abbiamo uno spazio equamente bipartito: in primo piano, sulla sinistra e in interno, una figura umana femminile; in secondo piano, sulla destra e in esterno, l’apertura su uno sfondo con bottega. Si tratta di uno schema compositivo caratteristico di questa sezione della grafica lorchiana, basata sulla contrapposizione di due volumi: uno piatto e chiuso, in primo piano (l’interno), e l’altro prospettico e aperto, in secondo piano (l’esterno, con le varianti ‘giardino’ e/o ‘fontana’). Ma tale struttura compositiva, nella quale le figure umane sono rinchiuse tra pareti casalinghe con ansia di esterno, si presenta solo nel caso delle donne (si vedano i disegni 70, 72, 160, 240.3, ecc.). Se infatti le figure umane sono maschili (quasi sempre marinai), anche il volume di primo piano di sinistra rappresenta un esterno come quello destro (con le varianti ‘locanda’, ‘taverna’ o ‘calzoleria’, e relative insegne: si vedano i disegni 106, 163, 191, 192, ecc.). Nel disegno in questione, invece, si ha, caso unico, la fusione tra il primo ed il secondo tipo, in quanto pur essendoci in primo piano una figura femminile, il secondo piano presenta una locanda, come chiarisce l’insegna “Vino”. Essendo l’osteria la meta dei marinai - meta quindi maschile dell’oblio o dell’incontro casuale, spesso anche omosessuale -, si può azzardare che l’aspirazione segreta di Soledad sia appunto di segno maschile. D’altra parte, le relazioni Soledad-mare e mare-pena/perdizione sono esplicite nello stesso romance:
Soledad de mis pesares,
caballo que se desboca,
al fin encuentra la mar
y se lo tragan las olas.
No me recuerdes el mar
que la pena negra, brota
en las tierras de aceituna
bajo el rumor de las hojas.
I tratti somatici di Soledad Montoya sono marcatissimi e leggermente deformati; l’abito ha colori intensi; l’interno da casa paesana è essenziale e quasi povero; tutte le prospettive appaiono “deliziosamente deformate” (come l’autore dirà nella didascalia del Quadro III di Don Perlimplín), ecc. È il modo di Lorca di rappresentare il “colore locale” - umano e/o ambientale - ricorrendo ad una serie limitata e selezionata di dati realistici i quali, una volta distribuiti all’interno dello scarno impianto grafico, finiscono per produrre un effetto ora iper-realistico (“fotografico”, avrebbe detto lui, come nella didascalia iniziale de La casa de Bernarda Alba), ora super-realistico (come nel caso delle scenografie de El público), perciò in nessun caso plausibile o verosimile. Un mondo quindi non raffigurato, ma ri-descritto e re-interpretato, seppure figurativamente. D’altra parte, il disegno comprende anche due iscrizioni: quella già menzionata sullo sfondo esterno, a destra, “Vino”, solo apparentemente mimetica, e quella centrale, interna, decisamente emblematica, poiché si tratta della sostituzione del corpo straziato di Cristo con la parola “Hombre” su un crocifisso appeso alla parete totalmente spoglia alle spalle di Soledad.
Tale innaturale accostamento sarebbe destinato a rimanere incomprensibile, o a sollecitare elucubrazioni svianti, se non ne trovassimo la chiave all’interno dell’ambito teatrale lorchiano. Infatti, sempre nel 1930 e sempre all’Avana, Lorca terminava la prima stesura del suo celebre dramma El público. Ebbene, in quest’opera complessa e ancora in gran parte da decifrare, un dettaglio colpisce in modo particolare: nel Quadro V si ha al centro della scena un letto verticale con appeso un personaggio, si suppone, insanguinato e chiamato Desnudo Rojo. La didascalia d’apertura dice esattamente:
(En el centro de la escena, una cama de frente y perpendicular, como pintada por un primitivo, donde hay un desnudo rojo coronado de espinas azules. [...]).
L’identificazione di questo Desnudo Rojo con Cristo è patente (in particolare con quello dell’allora assai nota Crocifissione di Mathias Grünewald), così come evidenti sono anche le analogie sceno-grafiche con le sopra rilevate deformazioni prospettiche naïves del Don Perlimplín (altro personaggio “cristico”)[3] e dei disegni figurativi lorchiani, non ultimo quello che stiamo interpretando.
Alla fine del Quadro V, nello stesso istante in cui inizia l’agonia del personaggio, il letto gira su se stesso, rivelando crocifisso, sul lato opposto, un altro personaggio, già apparso fin dal Quadro I e il cui nome era, ed è, Hombre 1°. Al di là di qualsiasi considerazione teatrale,[4] ciò che ci interessa ora è notare che ne El público Lorca opera una sorta di identificazione tra due personaggi, Cristo (Desnudo Rojo) e l’Hombre, dove il secondo si propone come doppio del primo. Cioè, Cristo è un uomo (l’uomo? ogni essere umano?) e non il figlio di Dio. Esattamente come nel disegno di Soledad Montoya, nel quale Lorca sostituisce il corpo del figlio di Dio sulla croce con la parola “Hombre”.[5] In questo modo Soledad appare come l’ennesima personificazione del Cristo secondo Lorca, ma non secondo i Vangeli. La ragazza è discesa dal Sacromonte granadino per trovare se stessa, il proprio amore, la ragione della propria esistenza, ma di sottecchi pare non scorgere altro che la solitudine/disperazione che si consuma, senza amore e senza amare, all’interno di una bettola.
I tre sproporzionati chiodi che nel disegno sembrano conficcare il crocifisso alla parete, sottolineano due topoi tipicamente lorchiani, la vita come agonia (lotta) e l’uomo doppiamente omologato al Cristo:[6] da una parte perché persegue un amore che non si completerà mai e che porterà alla morte; dall’altra perché vittima di un Dio che non è padre, ma impietoso esattore di progetti di sofferenza arbitraria ed improduttiva che egli stesso ha imposto. Agonia, solitudine e il pensiero di un’improbabile fuga verso l’osteria sono i tratti di Soledad (che significa “solitudine”).
E queste sono le parole che, ormai rassegnato, alza al cielo l’Hombre 1° de El público prima di morire:
Agonía. Soledad del hombre en el sueño lleno de ascensores y trenes donde tú vas a velocidades inasibles. Soledad de los edificios, de las esquinas, de las playas, donde tú no aparecerías ya nunca (García Lorca, 1987: 176).
Le due iscrizioni, dunque, sembrano essere le autentiche chiavi di interpretazione del disegno: chiavi che aprono porte inquiete sulle identità nascoste, forse anche a se stessi, sui doppi, sul retro della maschera.
Come si vede, il disegno di Soledad Montoya offre diversi piani interpretativi, a seconda di come lo si legga. Potrebbe essere semplicemente la raffigurazione di una donna che attende l’uscita dell’amato dall’osteria: scena paesana tradizionale. Se lo si relaziona al romance che di fatto illustra, allora appare come la condensazione grafica della metafora della discesa dalla contemplazione di Dio alla ricerca dell’uomo.[7] Se invece si privilegia il nesso sopra evidenziato con El público, il disegno allude allora al gioco drammatico dei doppi, delle verità intime che, come si diceva all’inizio, stanno dietro/dentro ad ogni apparenza.
Probabilmente Lorca poeta, Lorca drammaturgo, Lorca disegnatore, Lorca, insomma, opera consapevolmente a tutti e tre i livelli. E non potrebbe essere diversamente.
Ma più che con parole mie, mi piace chiudere queste semplici annotazioni pittoriche con alcune parole di María Zambrano: «I disegni [di García Lorca] sono la sostanza stessa della sua poesia. In essi si produce l’identità tra ciò che viene visto e lui: la visione e l’unità» (Zambrano 2013: 148).[8]
Bibliografia
Assumma, Maria Cristina (1997) Canzoniere Spagnolo. Federico García Lorca e La Argentinita, Como, Red Edizioni.
García Lorca, Federico (1986) Dibujos, proyecto y catalogación de Mario Hernández, Madrid, Ministerio de Cultura-Fundació Caixa de Barcelona.
---- (1987) El público, a cura di María Clementa Millán, Madrid, Cátedra.
---- (1989) Antología comentada (II, Teatro y Prosa), a cura di Eutimio Martín. Madrid, Ediciones de la Torre.
---- (1997a) Epistolario completo, a cura di Andrew A. Anderson e Chistopher Maurer, Madrid, Cátedra.
---- (1997b) Obras completas III (Prosa), a cura di Miguel García-Posada, Barcelona, Galaxia-Gutenberg.
Gasch, Sebastià (1927) “Una exposició i un decorat. Una exposició de F. G. Lorca”, L’Amic de les Arts, Barcelona, n° 16.
Gebser, Jean (1949) Lorca oder das Reich der Mutter, Stuttgart, Deutsche Verlags Anstalt. [Altra ed. in francese: Lorca, poète-dessinateur, Paris, GLM, 1949].
Hernández, Mario (1990) Libro de los dibujos de Federico García Lorca, Madrid, Tabapress-Fundación Federico García Lorca. [Ristampa: Granada, Comares Editorial, 1998].
Martín, Eutimio (1986) Federico García Lorca, heterodoxo y mártir. (Análisis y proyección de la obra juvenil inédita), Madrid, Siglo XXI de España Editores.
Menarini, Piero (1987) “L’Uomo dei dolori. (Struttura ed esegesi del Quadro V de El público)” in Lorca 1986, Bologna, Atesa Editrice.
Prieto, Gregorio (1946) García Lorca as a Painter, London, The de la More Press, 1946. [Ed. spagnola con introduzione bilingue e qualche aggiunta di disegni apparve: Dibujos de García Lorca, Madrid, Afrodisio Aguado, 1949].
Zambrano, María (2013) Dire luce. Scritti sulla pittura, a cura di Carmen Del Valle, presentazione di Davide Rondoni, Milano, BUR.
Note
[1] Canciones populares antiguas, HMV Gramphone, La Voz de su Amo, 7 EPL 13.589. Si veda la bella edizione curata da Maria Cristina Assumma (1997) con CD e studio critico.
[2] La classificazione più completa è l’ormai classico catalogo di Mario Hernández (1990), alla cui numerazione si fa riferimento in questo studio.
[3] Cfr. l’introduzione di Eutimio Martín al secondo volume della sua Antología comentada (García Lorca 1989: 25-38).
[4] Si veda il mio saggio: L’Uomo dei dolori. Struttura ed esegesi del Quadro V de “El público” (Menarini 1987: 65-106).
[5] Gia María Clementa Millán aveva accennato a questa relazione fra disegno e dramma nella sua introduzione a Federico García Lorca, El público (García Lorca 1987: 70).
[6] Si noti che nella poesia “Nacimiento de Cristo” di Poeta en Nueva York la passione di Cristo è identificata col numero tre: “El niño llora y mira con un tres en la frente. / San José ve en el heno tres espinas de bronce”.
[7] Si veda a questo proposito l’interessante interpretazione della poesia proposta da Eutimio Martín, Federico García Lorca, heterodoxo y mártir (Martín 1986: 357-66).
[8] Saggio del 1987, intitolato “Il sacro in Federico García Lorca” (Zambrano 2013: 148).
©inTRAlinea & Piero Menarini (2013).
"“Perspectivas equivocadas deliciosamente”. A proposito dei disegni di Federico García Lorca"
inTRAlinea Special Issue: Palabras con aroma a mujer. Scritti in onore di Alessandra Melloni
Edited by: Maria Isabel Fernández García & Mariachiara Russo
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