Finalmente redattore

Translated by: Valentina Monaca (Firenze)

Ya soy redactor by Mariano José de Larra
Revista Española, n.º 39, 19 de marzo de 1833


Per quale strana fatalità l’uomo anela sempre a ciò che non ha? Domandiamo a un imberbe che cosa desidera davvero: ‹‹Avere la barba!›› esclamerà dentro di sé. E, quando gli sarà cresciuta la barba, eccolo lì a maledire barbiere e rasoio. ‹‹Quando verrà corrisposto il mio amore per Filis?››, griderà dal profondo del suo cuore un innato desiderio di amare e di essere amato. Ora ha finalmente avuto il suo sì. Ha goduto del bene che tanto desiderava! Ed ecco che maledice l’amore e le sue spine. Laura gli fa gli occhi dolci? E il suo unico obiettivo è conquistare Amira, che lo disdegna. Da cosa nasce questa sete inesauribile, questo desiderio di vivere, sostituito da altri desideri e altri ancora, che si succedono rapidamente senza trovare mai completa soddisfazione? Padre Almeida, se non ricordo male, dice, fra le altre cose stravaganti, e lo sostiene ancora oggi, che la Provvidenza ha voluto donarci questo implacabile desiderio affinché testimoniasse, per l’eternità, che in questo mondo transitorio non siamo che di passaggio e che i nostri desideri non si avverano in questa vita, ma in un'altra perfetta e duratura. Così deve essere, e di fatto siamo grati al reverendo padre per la sua predizione e l’ardente carità con la quale ci ha liberato da questo peregrino dubbio. Io, che non sono per niente incline alla metafisica e che lascio la soluzione di questi problemi a coloro che ne sanno ben più di me sul nostro futuro, mi limito a dire che il desiderio esiste, e questo basta per giustificare quello che mi sono prefisso. Io, Figaro, ne sono la prova vivente: il diavolo mi aveva appena indotto in tentazione che sentii i primi impulsi alla scrittura, così incominciai a sfogliare tutti i giornali che mi capitavano davanti, e questo era il mio chiodo fisso dalla mattina alla sera: ‹‹Quando diventerò redattore in un giornale?››. Mi immaginavo, com’ è naturale, fatiche di Ercole per riempire con illuminanti verità le lunghe colonne di una pagina di giornale; ma la mia più grande ambizione era essere a capo di una rubrica letteraria. Mi immaginavo mentre ricevevo importanti e cordiali comunicati, mentre mi venivano consegnati, stampati a caratteri indelebili, i miei articoli e quelli dei miei amici e, senza il peso di altre responsabilità, a mio avviso, se non quella di contare e ricontare alla fine del mese il denaro sonante che un disinteressato pubblico di lettori ha la bontà di depositare, in cambio di un fascicolo di fogli, nelle apposite cassette del giornale, luminosa fiaccola della patria e strumento di civilizzazione del paese. Lasciamo da parte cause e concause, felici o infelici, che dopo mille vicissitudini mi hanno reso famoso come giornalista: in primo luogo, perché al pubblico probabilmente non interesserebbero e, in secondo luogo, perché anche per me il solo elencarle potrebbe essere più difficile di quanto sembri. Il fatto è che una sera mi sono coricato autore di pamphlet e di commedie altrui e mi sono svegliato giornalista: mi sono guardato dall’alto al basso, utilizzando uno specchio che avevo a quel tempo, non tanto lungo quanto tutta la mia statura, il che sottolinea quanto fosse piccolo, e ho iniziato a controllare con attenzione se ci fosse stato qualche cambiamento rilevante nel mio corpo; ma, per fortuna, mi sono reso conto che, a meno che non ci fossero stati cambiamenti nella statura morale, per quel che riguarda la parte fisica, un giornalista è una persona identica ad un autore di pamphlet. ‹‹Finalmente redattore!››, ho esclamato contento, e ho iniziato a ideare articoli, determinato a criticare spietatamente qualunque letterato da quattro soldi che avessi incrociato sul mio cammino. Ah, povero me! Dopo tante tutte le fregature che ho, oggi non mi faccio più tante illusioni, né come giornalista, né come autore di commedie. Racconterò brevemente cosa mi è successo, senza svelare, d’altra parte, i segreti che muovono la grande macchina di un giornale, né strappare il velo del prestigio che ricopre i nostri altari, perché questo sarebbe superfluo e fuori luogo; giudichi il lettore se non sarebbe meglio vivere tranquillamente, abbonato ad un giornale, che doverlo fare velocemente e bene. – Signor Figaro! Un articolo di teatro. – Di teatro? Subito. – Io scrivo per il pubblico e il pubblico, a mio avviso, merita la verità. E così commento: ‹‹questo non è teatro! La commedia è ridicola, l’attore Tizio è un incapace e l’attrice Caia ancor peggio››. Santo cielo! Non avrei mai immaginato di dovere aprir bocca per parlare di teatro. Subito dopo, essendosi diffusa la notizia, attraverso il mio e tutti gli altri giornali dell’espoca, l’autore della commedia dichiara di essere il migliore e definisce lo scrittore dell’articolo un mentecatto; gli attori congiurano, chiudono le porte del teatro, non mi consentono più di assistere alle commedie e gridano: ‹‹Chi è quel presuntuoso che ci critica? Maledetto traduttore, farabutto, pedante! …››. ‹‹E merita questo il povero amico della verità e della cultura? Oh, che bello fare il redattore!›› Abbandonato il teatro mi do alla letteratura. Un signorotto altezzoso ha appena pubblicato un’opera indigesta. ‹‹Signor redattore – mi scrive in un’accattivante lettera – confido nel suo talento e nella nostra amicizia, di cui ha dato più volte prova (sfortunatamente di solito è vero), che stilerà un giudizio critico della mia opera, imparziale (chiama imparziale un giudizio che lo elogi) e aspetto di poter pranzare con lei per discutere insieme alcune idee che bisognerebbe evidenziare, ecc., ecc.››. Provi lei, mio caro lettore, a resistere a questi suggerimenti indiretti e scelga lei fra l’ingratitudine e la menzogna. Entrambi i vizi hanno severi detrattori e gli uni o gli altri si dovranno infuriare con il povero Figaro. ‹‹Oh, che bello fare il redattore!››. ‹‹D’accordo! Mi metterò a tradurre notizie; al lavoro!››. Affino la punta della mia piuma, sfoglio l’enorme giornale straniero; ci sono tre colonne che fanno al caso mio – ‹‹Tre colonne ho detto?››. Il giorno seguente le cerco nella Revista ma inutilmente. – Signor direttore: che ne è stato delle mie colonne? – Stia zitto lei – mi risponde –, sono lì; non sono servite: questa notizia è inopportuna; questa, rischiosa; l’altra, sconveniente; quell’altra, insignificante; questa è buona, ma è tradotta male! – Lei tenga conto del fatto che per fare questo lavoro ci vogliono molte ore – rispondo pieno di entusiasmo; – alla fine è stancante… – Se lei è un uomo che si stanca facilmente, forse non è tagliato per fare questo mestiere… – Mi era venuto il mal di testa… – Un buon giornalista non ha mai mal di testa… – Oh, che bello fare il redattore! Meglio lasciar perdere: secondo lui sono un buono a nulla. Cerco un articolo importante; do un’occhiata al “Say” e allo “Smith”; il prossimo sarà un articolo di economia politica. – Gran bell’articolo (mi dice l’editore), ma, mio caro Figaro, non ne scriva un altro – Perché? – Perché così mi manda in rovina il giornale. Chi vuole che legga i suoi articoli se non sa essere divertente, pungente, né tanto meno superficiale? Se poi scrive, addirittura, cinque colonne… Tutti si sono lamentati; mai più articoli scientifici perché nessuno li legge. Così perderà il lavoro. – Oh, che bello fare il redattore! – Si incarichi di controllare gli articoli che ci consegnano e, soprattutto, le poesie di circostanza… – Ah, signor editore, ma bisognerà che io le legga! … – Esattamente, signor Figaro… – Ah no, signor editore, piuttosto recito dieci rosari completi! – Ma, signor Figaro! … – Oh, che bello fare il redattore! Politica e ancora politica. C’è un’altra soluzione? La verità è che non capisco una parola di politica. Ma perché tante storie? Sarò forse il primo a scrivere di politica senza saperne nulla? Su, all’opera! Metto insieme parole e scrivo: conferenze, protocolli, diritti, rappresentanza, monarchia, legittimità, voti, usurpazione, camere, assemblee, centralizzare, nazioni, felicità, pace, illusi, incauti, seduzione, tranquillità, guerra, belligeranti, armistizio, controproposta, adesione, rivolgimenti politici, forze, unità, governanti, massime, sistemi, ribelli, rivoluzione, ordine, centro, sinistra, modifica, carta dei diritti, riforma, ecc., ecc. Il mio articolo è già pronto, ma, oh mio Dio! Mi chiama l’editore! – Signor Figaro, lei mi vuole rovinare con le sue idee… – Le mie idee, signor editore? Mi creda, non era mia intenzione. E quindi, sono così compromettenti? … – Se lei non è prudente… – Mi perdoni, non credevo che il mio sistema politico fosse così… l’ho fatto per gioco… – Ebbene, se ci saranno delle conseguenze, ne risponderà lei… – Io, signor editore? Oh, che bello fare il redattore! Magari fosse tutto qui, e magari, povero Figaro, si fosse responsabili solo di ciò che si scrive! Ma consideriamo un altro inconveniente; supponiamo che non si faccia vivo l’autore incapace, né l’attore offeso, che l’articolo non dia fastidio a nessuno, e che tutto vada per il verso giusto. Chi sarà responsabile del fatto che degli errori di stampa non mi facciano dire un’assurdità dopo l’altra? Chi mi assicura che non verrà stampato collo per pollo, gioco al posto di giogo, normale invece di formale, prendere per rendere, volare per volere e altri errori simili? Forse dovrei stampare io stesso i miei articoli? Oh, che bello fare il redattore! Santo cielo! Ma davvero volevo fare il giornalista? Confesso, mio caro lettore, da uomo debole, che non ho mai saputo cosa volevo; giudica tu stesso, attraverso il lungo racconto delle mie disavventure giornalistiche, che qui ho tentato di riassumere, se posso e devo esclamare a ragione, adesso che finalmente lo sono: ‹‹Oh, che bello fare il redattore!››. Revista Española, n.º 39, 19 marzo 1833. Firmato: Fígaro
¿Por qué extraña fatalidad ha de anhelar el hombre siempre lo que no tiene? Preguntémosle a un joven barbilucio qué desea. «¿Cuándo tendré barbas?», exclama en su interior. Nácenle las barbas, y hele allí maldiciendo ya del barbero y de la navaja. «¿Cuándo hallaré en mi Filis correspondencia?», le grita en el fondo de su corazón un deseo innato de amar y de ser amado. Ya oyó el sí. ¡Gozó el bien que deseaba! Y ya maldice del amor y sus espinas. ¿Le prefiere Laura? Pues todo su deseo se cifra en conquistar a Amira que le desprecia. ¿De qué nace esta sed insaciable, este deseo vividor, reemplazado por otros y otros deseos que rápidamente se suceden, sin encontrar jamás sino imperfecta satisfacción? El padre Almeida, si mal no me acuerdo, dice entre otras cosas curiosas, y aun lo afianza, que la Providencia quiso poner en nosotros este deseo implacable para que nos atestiguase eternamente que no hacemos en este mundo transitorio sino una corta peregrinación, y que la satisfacción de nuestros deseos no está en esta vida, sino en otra más perfecta y duradera. Así debe de ser, y cierto que vivimos de todas suertes agradecidos a la previsión y ardiente caridad con que el reverendo padre nos quiso sacar de esta peregrina duda. Yo, que no tengo un ápice de metafísico, y que dejo la resolución de estos problemas a aquellos que tienen más noticias ciertas que yo de nuestro destino, me ciño a decir que el deseo existe, y esto basta para mi propósito. Yo, Fígaro, soy de ello una viva prueba: no bien me había tentado el enemigo malo, y sentí los primeros pujos de escritor público, cuando dieron en írseme los ojos tras cada periódico que veía, y era mi pío por mañana y noche: «¿Cuándo seré redactor de periódico?». Figurábaseme, sí, desde luego, obra de romanos el llenar y embutir con verdades luminosas las largas columnas de un papel público; pero en cambio era para mí de la mayor consideración el imaginarme a la cabeza de una sección literaria, recibiendo comunicados atentos y decorosos, viendo diariamente consignadas en indelebles caracteres de imprenta mis propias ideas y las de mis amigos, y sin más trabajo, a mi parecer, que el haber de contar y recontar al fin de mes los sonantes doblones que el público desinteresado tiene la bondad de depositar en cambio de papel en los arcones periodísticos de una empresa, luz y antorcha de la patria, y órgano de la civilización del país. Dejemos aparte las causas y concausas felices o desgraciadas que de vicisitud en vicisitud me han conducido al auge de periodista: lo uno porque al público no le importarán probablemente, y lo otro porque a mí mismo podría serme acaso más difícil de lo que a primera vista parece el designarlas. El hecho es que me acosté una noche autor de folletos y de comedias ajenas, y amanecí periodista: mireme de alto abajo, sorteando un espejo que a la sazón tenía, no tan grande como mi persona, que es hacer el elogio de su pequeñez, y dime a escudriñar detenidamente si alguna alteración notable se habría verificado en mi físico; pero por fortuna eché de ver que como no fuese en la parte moral, lo que es en la exterior y palpable, tan persona es un periodista como un autor de folletos. «¡Ya soy redactor!», exclamé alborozado, y echéme a fraguar artículos, bien determinado a triturar en el mortero de mi crítica cuanto malandrín literario me saliese al camino en territorio de mi jurisdicción. Pero ¡ay de mí, insensato, que, chasco sobre chasco, vivo hoy tan desengañado de periodista como de autor de comedias! Diré brevemente lo que me aconteció, sin descubrir por otra parte los recursos ocultos que mueven la gran máquina de un periódico, ni romper el velo del prestigio que cubre nuestros altares, que eso fuera sobrado e inoportuno desinterés; y juzgue el lector si no es preferible vivir tranquilamente suscrito a un periódico, que haberle sabia y precipitadamente de componer. -¡Señor Fígaro!, un artículo de teatros. -¿De teatros? Voy allá. Yo escribo para el público, y el público, digo para mí, merece la verdad: el teatro, pues, no es teatro: la comedia es ridícula: el actor A es malo, y la actriz H es peor. ¡Santo cielo! Nunca hubiera pensado en abrir mi boca para hablar de teatros. Comunicado a renglón seguido en mi papel y en todos los contemporáneos, en que el autor de la comedia dice que es excelente, y el articulista un «acéfalo»: se conjuran los actores, cierran la puerta del teatro a mis comedias para lo sucesivo, y ponen el grito en los cielos. ¿Quién es el fatuo que nos critica? ¡Pícaro traductor, ladrón, pedante! ¿Y esto logra el pobre amigo de la verdad y de la ilustración? ¡Oh qué placer el de ser redactor! Precipítome, huyendo del teatro, en la literatura. Un señorón encopetado acaba de publicar una obra indigesta. «Señor redactor -me dice en una carta seductora-, confío en el talento de usted y en nuestra amistad, de que le tengo dadas bastantes pruebas (por desgracia suele ser verdad), que hará un juicio crítico de mi obra, imparcial (imparcial llama él a un juicio que le alabe), y espero a usted a comer para que juntos departamos acerca de algunas ideas que convendría indicar, etc., etc.» Resista usted a estas indirectas, y opte usted entre la ingratitud y la mentira. Ambos vicios tienen sus acerbos detractores, y unos u otros se han de ensangrentar en el triste Fígaro. ¡Oh qué placer el de ser redactor! ¡Bueno! Traduciré noticias; al trabajo; corto mi pluma, desenvuelvo el inmenso papel extranjero; ahí van tres columnas. ¿Tres columnas he dicho? Al día siguiente las busco en la Revista, pero inútilmente. -Señor director, ¿qué se hicieron mis columnas? -Calle usted -me responde-, ahí están; no han servido: esta noticia es inoportuna; ésa arriesgada; la otra no conviene; aquella de más allá es insignificante; estotra es buena, pero está mal traducida. -Considere usted que es preciso hacer ese trabajo en horas -replico lleno de entusiasmo-; el hombre llega a cansarse... -Si usted es hombre que se cansa alguna vez, no sirve usted para periódicos... -Me dolía ya la cabeza... -Al buen periodista nunca le debe doler la cabeza... -¡Oh qué placer el de ser redactor! Dejémonos de ese fárrago, yo no sirvo para él. Vaya un artículo profundo; ojeo el Say y el Smith; de economía política será. -Grande artículo -me dice el editor-, pero, amigo Fígaro, no vuelva usted a hacer otro. -¿Por qué? -Porque esto es matarme el periódico. ¿Quién quiere usted que le lea, si no es jocoso, ni mordaz, ni superficial? Si tiene además cinco columnas... Todos se me han quejado; nada de artículos científicos, porque nadie los lee. Perderá usted su trabajo. -¡Oh qué placer el de ser redactor! -Encárguese usted de revisar los artículos comunicados, y sobre todo las composiciones poéticas de circunstancias... -¡Ay!, señor editor, pero habrá que leerlas... -Preciso, señor Fígaro... -¡Ay!, señor editor, mejor quiero rezar diez rosarios de quince dieces. -¡Señor Fígaro...! -¡Oh qué placer el de ser redactor! Política y más política. ¿Qué otro recurso me queda? Verdad es que de política no entiendo una palabra. Pero ¿en qué niñerías me paro? ¡Si seré yo el primero que escriba política sin saberla! Manos a la obra; junto palabras y digo: «conferencias, protocolos, derechos, representación, monarquía, legitimidad, notas, usurpación, cámaras, cortes, centralizar, naciones, felicidad, paz, ilusos, incautos, seducción, tranquilidad, guerra, beligerantes, armisticio, contraproyecto, adhesión, borrascas políticas, fuerzas, unidad, gobernantes, máximas, sistemas, desquiciadores, revolución, orden, centros, izquierda, modificación, bill, reforma», etc., etc., etc. Ya hice mi artículo, pero ¡oh cielos! El editor me llama. -Señor Fígaro, usted trata de comprometerme con las ideas que propala en ese artículo... -¿Yo propalo ideas, señor editor? Crea usted que es sin saberlo. ¿Conque tanta malicia tiene...? -Si usted no tiene pulso... -Perdone usted; yo no creí que mi sistema político era tan... yo lo hice jugando... -Pues si nos para perjuicio usted será el responsable... -¿Yo, señor editor? ¡Oh qué placer el de ser redactor! ¡Oh, si esto fuese todo, y si sólo fuera uno responsable, pobre Fígaro, de lo que escribe! Pero ¡ah!, tocamos a otro inconveniente; supongo yo que ni apareció el autor necio, ni el actor ofendido, ni disgustó el artículo sino que todo fue dicha en él. ¿Quién me responde de que algún maldito yerro de imprenta no me hará decir disparate sobre disparate? ¿Quién me dice que no se pondrá «Camellos» donde yo puse «Comellas», «torner», donde escribí yo «Forner», «ritómico» donde «rítmico», y otros de la misma familia? ¿Será preciso imprimir yo mismo mis artículos? ¡Oh qué placer el de ser redactor! ¡Santo cielo! ¿Y yo deseaba ser periodista? Confieso como hombre débil, lector mío, que nunca supe lo que quise; juzga tú por el largo cuento de mis infortunios periodísticos, que mucho procuré abreviarte, si puedo y debo con sobrada razón exclamar ahora que ya lo soy: ¡Oh qué placer el de ser redactor!...
Per quale strana fatalità l’uomo anela sempre a ciò che non ha? Domandiamo a un imberbe che cosa desidera davvero: ‹‹Avere la barba!›› esclamerà dentro di sé. E, quando gli sarà cresciuta la barba, eccolo lì a maledire barbiere e rasoio. ‹‹Quando verrà corrisposto il mio amore per Filis?››, griderà dal profondo del suo cuore un innato desiderio di amare e di essere amato. Ora ha finalmente avuto il suo sì. Ha goduto del bene che tanto desiderava! Ed ecco che maledice l’amore e le sue spine. Laura gli fa gli occhi dolci? E il suo unico obiettivo è conquistare Amira, che lo disdegna. Da cosa nasce questa sete inesauribile, questo desiderio di vivere, sostituito da altri desideri e altri ancora, che si succedono rapidamente senza trovare mai completa soddisfazione? Padre Almeida, se non ricordo male, dice, fra le altre cose stravaganti, e lo sostiene ancora oggi, che la Provvidenza ha voluto donarci questo implacabile desiderio affinché testimoniasse, per l’eternità, che in questo mondo transitorio non siamo che di passaggio e che i nostri desideri non si avverano in questa vita, ma in un'altra perfetta e duratura. Così deve essere, e di fatto siamo grati al reverendo padre per la sua predizione e l’ardente carità con la quale ci ha liberato da questo peregrino dubbio. Io, che non sono per niente incline alla metafisica e che lascio la soluzione di questi problemi a coloro che ne sanno ben più di me sul nostro futuro, mi limito a dire che il desiderio esiste, e questo basta per giustificare quello che mi sono prefisso. Io, Figaro, ne sono la prova vivente: il diavolo mi aveva appena indotto in tentazione che sentii i primi impulsi alla scrittura, così incominciai a sfogliare tutti i giornali che mi capitavano davanti, e questo era il mio chiodo fisso dalla mattina alla sera: ‹‹Quando diventerò redattore in un giornale?››. Mi immaginavo, com’ è naturale, fatiche di Ercole per riempire con illuminanti verità le lunghe colonne di una pagina di giornale; ma la mia più grande ambizione era essere a capo di una rubrica letteraria. Mi immaginavo mentre ricevevo importanti e cordiali comunicati, mentre mi venivano consegnati, stampati a caratteri indelebili, i miei articoli e quelli dei miei amici e, senza il peso di altre responsabilità, a mio avviso, se non quella di contare e ricontare alla fine del mese il denaro sonante che un disinteressato pubblico di lettori ha la bontà di depositare, in cambio di un fascicolo di fogli, nelle apposite cassette del giornale, luminosa fiaccola della patria e strumento di civilizzazione del paese. Lasciamo da parte cause e concause, felici o infelici, che dopo mille vicissitudini mi hanno reso famoso come giornalista: in primo luogo, perché al pubblico probabilmente non interesserebbero e, in secondo luogo, perché anche per me il solo elencarle potrebbe essere più difficile di quanto sembri. Il fatto è che una sera mi sono coricato autore di pamphlet e di commedie altrui e mi sono svegliato giornalista: mi sono guardato dall’alto al basso, utilizzando uno specchio che avevo a quel tempo, non tanto lungo quanto tutta la mia statura, il che sottolinea quanto fosse piccolo, e ho iniziato a controllare con attenzione se ci fosse stato qualche cambiamento rilevante nel mio corpo; ma, per fortuna, mi sono reso conto che, a meno che non ci fossero stati cambiamenti nella statura morale, per quel che riguarda la parte fisica, un giornalista è una persona identica ad un autore di pamphlet. ‹‹Finalmente redattore!››, ho esclamato contento, e ho iniziato a ideare articoli, determinato a criticare spietatamente qualunque letterato da quattro soldi che avessi incrociato sul mio cammino. Ah, povero me! Dopo tante tutte le fregature che ho, oggi non mi faccio più tante illusioni, né come giornalista, né come autore di commedie. Racconterò brevemente cosa mi è successo, senza svelare, d’altra parte, i segreti che muovono la grande macchina di un giornale, né strappare il velo del prestigio che ricopre i nostri altari, perché questo sarebbe superfluo e fuori luogo; giudichi il lettore se non sarebbe meglio vivere tranquillamente, abbonato ad un giornale, che doverlo fare velocemente e bene. – Signor Figaro! Un articolo di teatro. – Di teatro? Subito. – Io scrivo per il pubblico e il pubblico, a mio avviso, merita la verità. E così commento: ‹‹questo non è teatro! La commedia è ridicola, l’attore Tizio è un incapace e l’attrice Caia ancor peggio››. Santo cielo! Non avrei mai immaginato di dovere aprir bocca per parlare di teatro. Subito dopo, essendosi diffusa la notizia, attraverso il mio e tutti gli altri giornali dell’espoca, l’autore della commedia dichiara di essere il migliore e definisce lo scrittore dell’articolo un mentecatto; gli attori congiurano, chiudono le porte del teatro, non mi consentono più di assistere alle commedie e gridano: ‹‹Chi è quel presuntuoso che ci critica? Maledetto traduttore, farabutto, pedante! …››. ‹‹E merita questo il povero amico della verità e della cultura? Oh, che bello fare il redattore!›› Abbandonato il teatro mi do alla letteratura. Un signorotto altezzoso ha appena pubblicato un’opera indigesta. ‹‹Signor redattore – mi scrive in un’accattivante lettera – confido nel suo talento e nella nostra amicizia, di cui ha dato più volte prova (sfortunatamente di solito è vero), che stilerà un giudizio critico della mia opera, imparziale (chiama imparziale un giudizio che lo elogi) e aspetto di poter pranzare con lei per discutere insieme alcune idee che bisognerebbe evidenziare, ecc., ecc.››. Provi lei, mio caro lettore, a resistere a questi suggerimenti indiretti e scelga lei fra l’ingratitudine e la menzogna. Entrambi i vizi hanno severi detrattori e gli uni o gli altri si dovranno infuriare con il povero Figaro. ‹‹Oh, che bello fare il redattore!››. ‹‹D’accordo! Mi metterò a tradurre notizie; al lavoro!››. Affino la punta della mia piuma, sfoglio l’enorme giornale straniero; ci sono tre colonne che fanno al caso mio – ‹‹Tre colonne ho detto?››. Il giorno seguente le cerco nella Revista ma inutilmente. – Signor direttore: che ne è stato delle mie colonne? – Stia zitto lei – mi risponde –, sono lì; non sono servite: questa notizia è inopportuna; questa, rischiosa; l’altra, sconveniente; quell’altra, insignificante; questa è buona, ma è tradotta male! – Lei tenga conto del fatto che per fare questo lavoro ci vogliono molte ore – rispondo pieno di entusiasmo; – alla fine è stancante… – Se lei è un uomo che si stanca facilmente, forse non è tagliato per fare questo mestiere… – Mi era venuto il mal di testa… – Un buon giornalista non ha mai mal di testa… – Oh, che bello fare il redattore! Meglio lasciar perdere: secondo lui sono un buono a nulla. Cerco un articolo importante; do un’occhiata al “Say” e allo “Smith”; il prossimo sarà un articolo di economia politica. – Gran bell’articolo (mi dice l’editore), ma, mio caro Figaro, non ne scriva un altro – Perché? – Perché così mi manda in rovina il giornale. Chi vuole che legga i suoi articoli se non sa essere divertente, pungente, né tanto meno superficiale? Se poi scrive, addirittura, cinque colonne… Tutti si sono lamentati; mai più articoli scientifici perché nessuno li legge. Così perderà il lavoro. – Oh, che bello fare il redattore! – Si incarichi di controllare gli articoli che ci consegnano e, soprattutto, le poesie di circostanza… – Ah, signor editore, ma bisognerà che io le legga! … – Esattamente, signor Figaro… – Ah no, signor editore, piuttosto recito dieci rosari completi! – Ma, signor Figaro! … – Oh, che bello fare il redattore! Politica e ancora politica. C’è un’altra soluzione? La verità è che non capisco una parola di politica. Ma perché tante storie? Sarò forse il primo a scrivere di politica senza saperne nulla? Su, all’opera! Metto insieme parole e scrivo: conferenze, protocolli, diritti, rappresentanza, monarchia, legittimità, voti, usurpazione, camere, assemblee, centralizzare, nazioni, felicità, pace, illusi, incauti, seduzione, tranquillità, guerra, belligeranti, armistizio, controproposta, adesione, rivolgimenti politici, forze, unità, governanti, massime, sistemi, ribelli, rivoluzione, ordine, centro, sinistra, modifica, carta dei diritti, riforma, ecc., ecc. Il mio articolo è già pronto, ma, oh mio Dio! Mi chiama l’editore! – Signor Figaro, lei mi vuole rovinare con le sue idee… – Le mie idee, signor editore? Mi creda, non era mia intenzione. E quindi, sono così compromettenti? … – Se lei non è prudente… – Mi perdoni, non credevo che il mio sistema politico fosse così… l’ho fatto per gioco… – Ebbene, se ci saranno delle conseguenze, ne risponderà lei… – Io, signor editore? Oh, che bello fare il redattore! Magari fosse tutto qui, e magari, povero Figaro, si fosse responsabili solo di ciò che si scrive! Ma consideriamo un altro inconveniente; supponiamo che non si faccia vivo l’autore incapace, né l’attore offeso, che l’articolo non dia fastidio a nessuno, e che tutto vada per il verso giusto. Chi sarà responsabile del fatto che degli errori di stampa non mi facciano dire un’assurdità dopo l’altra? Chi mi assicura che non verrà stampato collo per pollo, gioco al posto di giogo, normale invece di formale, prendere per rendere, volare per volere e altri errori simili? Forse dovrei stampare io stesso i miei articoli? Oh, che bello fare il redattore! Santo cielo! Ma davvero volevo fare il giornalista? Confesso, mio caro lettore, da uomo debole, che non ho mai saputo cosa volevo; giudica tu stesso, attraverso il lungo racconto delle mie disavventure giornalistiche, che qui ho tentato di riassumere, se posso e devo esclamare a ragione, adesso che finalmente lo sono: ‹‹Oh, che bello fare il redattore!››. Revista Española, n.º 39, 19 marzo 1833. Firmato: Fígaro ¿Por qué extraña fatalidad ha de anhelar el hombre siempre lo que no tiene? Preguntémosle a un joven barbilucio qué desea. «¿Cuándo tendré barbas?», exclama en su interior. Nácenle las barbas, y hele allí maldiciendo ya del barbero y de la navaja. «¿Cuándo hallaré en mi Filis correspondencia?», le grita en el fondo de su corazón un deseo innato de amar y de ser amado. Ya oyó el sí. ¡Gozó el bien que deseaba! Y ya maldice del amor y sus espinas. ¿Le prefiere Laura? Pues todo su deseo se cifra en conquistar a Amira que le desprecia. ¿De qué nace esta sed insaciable, este deseo vividor, reemplazado por otros y otros deseos que rápidamente se suceden, sin encontrar jamás sino imperfecta satisfacción? El padre Almeida, si mal no me acuerdo, dice entre otras cosas curiosas, y aun lo afianza, que la Providencia quiso poner en nosotros este deseo implacable para que nos atestiguase eternamente que no hacemos en este mundo transitorio sino una corta peregrinación, y que la satisfacción de nuestros deseos no está en esta vida, sino en otra más perfecta y duradera. Así debe de ser, y cierto que vivimos de todas suertes agradecidos a la previsión y ardiente caridad con que el reverendo padre nos quiso sacar de esta peregrina duda. Yo, que no tengo un ápice de metafísico, y que dejo la resolución de estos problemas a aquellos que tienen más noticias ciertas que yo de nuestro destino, me ciño a decir que el deseo existe, y esto basta para mi propósito. Yo, Fígaro, soy de ello una viva prueba: no bien me había tentado el enemigo malo, y sentí los primeros pujos de escritor público, cuando dieron en írseme los ojos tras cada periódico que veía, y era mi pío por mañana y noche: «¿Cuándo seré redactor de periódico?». Figurábaseme, sí, desde luego, obra de romanos el llenar y embutir con verdades luminosas las largas columnas de un papel público; pero en cambio era para mí de la mayor consideración el imaginarme a la cabeza de una sección literaria, recibiendo comunicados atentos y decorosos, viendo diariamente consignadas en indelebles caracteres de imprenta mis propias ideas y las de mis amigos, y sin más trabajo, a mi parecer, que el haber de contar y recontar al fin de mes los sonantes doblones que el público desinteresado tiene la bondad de depositar en cambio de papel en los arcones periodísticos de una empresa, luz y antorcha de la patria, y órgano de la civilización del país. Dejemos aparte las causas y concausas felices o desgraciadas que de vicisitud en vicisitud me han conducido al auge de periodista: lo uno porque al público no le importarán probablemente, y lo otro porque a mí mismo podría serme acaso más difícil de lo que a primera vista parece el designarlas. El hecho es que me acosté una noche autor de folletos y de comedias ajenas, y amanecí periodista: mireme de alto abajo, sorteando un espejo que a la sazón tenía, no tan grande como mi persona, que es hacer el elogio de su pequeñez, y dime a escudriñar detenidamente si alguna alteración notable se habría verificado en mi físico; pero por fortuna eché de ver que como no fuese en la parte moral, lo que es en la exterior y palpable, tan persona es un periodista como un autor de folletos. «¡Ya soy redactor!», exclamé alborozado, y echéme a fraguar artículos, bien determinado a triturar en el mortero de mi crítica cuanto malandrín literario me saliese al camino en territorio de mi jurisdicción. Pero ¡ay de mí, insensato, que, chasco sobre chasco, vivo hoy tan desengañado de periodista como de autor de comedias! Diré brevemente lo que me aconteció, sin descubrir por otra parte los recursos ocultos que mueven la gran máquina de un periódico, ni romper el velo del prestigio que cubre nuestros altares, que eso fuera sobrado e inoportuno desinterés; y juzgue el lector si no es preferible vivir tranquilamente suscrito a un periódico, que haberle sabia y precipitadamente de componer. -¡Señor Fígaro!, un artículo de teatros. -¿De teatros? Voy allá. Yo escribo para el público, y el público, digo para mí, merece la verdad: el teatro, pues, no es teatro: la comedia es ridícula: el actor A es malo, y la actriz H es peor. ¡Santo cielo! Nunca hubiera pensado en abrir mi boca para hablar de teatros. Comunicado a renglón seguido en mi papel y en todos los contemporáneos, en que el autor de la comedia dice que es excelente, y el articulista un «acéfalo»: se conjuran los actores, cierran la puerta del teatro a mis comedias para lo sucesivo, y ponen el grito en los cielos. ¿Quién es el fatuo que nos critica? ¡Pícaro traductor, ladrón, pedante! ¿Y esto logra el pobre amigo de la verdad y de la ilustración? ¡Oh qué placer el de ser redactor! Precipítome, huyendo del teatro, en la literatura. Un señorón encopetado acaba de publicar una obra indigesta. «Señor redactor -me dice en una carta seductora-, confío en el talento de usted y en nuestra amistad, de que le tengo dadas bastantes pruebas (por desgracia suele ser verdad), que hará un juicio crítico de mi obra, imparcial (imparcial llama él a un juicio que le alabe), y espero a usted a comer para que juntos departamos acerca de algunas ideas que convendría indicar, etc., etc.» Resista usted a estas indirectas, y opte usted entre la ingratitud y la mentira. Ambos vicios tienen sus acerbos detractores, y unos u otros se han de ensangrentar en el triste Fígaro. ¡Oh qué placer el de ser redactor! ¡Bueno! Traduciré noticias; al trabajo; corto mi pluma, desenvuelvo el inmenso papel extranjero; ahí van tres columnas. ¿Tres columnas he dicho? Al día siguiente las busco en la Revista, pero inútilmente. -Señor director, ¿qué se hicieron mis columnas? -Calle usted -me responde-, ahí están; no han servido: esta noticia es inoportuna; ésa arriesgada; la otra no conviene; aquella de más allá es insignificante; estotra es buena, pero está mal traducida. -Considere usted que es preciso hacer ese trabajo en horas -replico lleno de entusiasmo-; el hombre llega a cansarse... -Si usted es hombre que se cansa alguna vez, no sirve usted para periódicos... -Me dolía ya la cabeza... -Al buen periodista nunca le debe doler la cabeza... -¡Oh qué placer el de ser redactor! Dejémonos de ese fárrago, yo no sirvo para él. Vaya un artículo profundo; ojeo el Say y el Smith; de economía política será. -Grande artículo -me dice el editor-, pero, amigo Fígaro, no vuelva usted a hacer otro. -¿Por qué? -Porque esto es matarme el periódico. ¿Quién quiere usted que le lea, si no es jocoso, ni mordaz, ni superficial? Si tiene además cinco columnas... Todos se me han quejado; nada de artículos científicos, porque nadie los lee. Perderá usted su trabajo. -¡Oh qué placer el de ser redactor! -Encárguese usted de revisar los artículos comunicados, y sobre todo las composiciones poéticas de circunstancias... -¡Ay!, señor editor, pero habrá que leerlas... -Preciso, señor Fígaro... -¡Ay!, señor editor, mejor quiero rezar diez rosarios de quince dieces. -¡Señor Fígaro...! -¡Oh qué placer el de ser redactor! Política y más política. ¿Qué otro recurso me queda? Verdad es que de política no entiendo una palabra. Pero ¿en qué niñerías me paro? ¡Si seré yo el primero que escriba política sin saberla! Manos a la obra; junto palabras y digo: «conferencias, protocolos, derechos, representación, monarquía, legitimidad, notas, usurpación, cámaras, cortes, centralizar, naciones, felicidad, paz, ilusos, incautos, seducción, tranquilidad, guerra, beligerantes, armisticio, contraproyecto, adhesión, borrascas políticas, fuerzas, unidad, gobernantes, máximas, sistemas, desquiciadores, revolución, orden, centros, izquierda, modificación, bill, reforma», etc., etc., etc. Ya hice mi artículo, pero ¡oh cielos! El editor me llama. -Señor Fígaro, usted trata de comprometerme con las ideas que propala en ese artículo... -¿Yo propalo ideas, señor editor? Crea usted que es sin saberlo. ¿Conque tanta malicia tiene...? -Si usted no tiene pulso... -Perdone usted; yo no creí que mi sistema político era tan... yo lo hice jugando... -Pues si nos para perjuicio usted será el responsable... -¿Yo, señor editor? ¡Oh qué placer el de ser redactor! ¡Oh, si esto fuese todo, y si sólo fuera uno responsable, pobre Fígaro, de lo que escribe! Pero ¡ah!, tocamos a otro inconveniente; supongo yo que ni apareció el autor necio, ni el actor ofendido, ni disgustó el artículo sino que todo fue dicha en él. ¿Quién me responde de que algún maldito yerro de imprenta no me hará decir disparate sobre disparate? ¿Quién me dice que no se pondrá «Camellos» donde yo puse «Comellas», «torner», donde escribí yo «Forner», «ritómico» donde «rítmico», y otros de la misma familia? ¿Será preciso imprimir yo mismo mis artículos? ¡Oh qué placer el de ser redactor! ¡Santo cielo! ¿Y yo deseaba ser periodista? Confieso como hombre débil, lector mío, que nunca supe lo que quise; juzga tú por el largo cuento de mis infortunios periodísticos, que mucho procuré abreviarte, si puedo y debo con sobrada razón exclamar ahora que ya lo soy: ¡Oh qué placer el de ser redactor!...
Lo scrittore Mariano José de Larra nasce a Madrid nel 1809 e, come molti ragazzini spagnoli di quell’epoca, è figlio di un esiliato politico. Suo padre è un afrancesado. Dai quattro ai nove anni Larra vive in Francia. Lì, nei collegi di Burdeaux e Parigi, riceve l’istruzione primaria. Il francese si sovrappone quindi al suo elementare spagnolo appreso da piccolo in patria. A partire dai nove anni, l’educazione di Larra percorre le normali tappe formative di qualsiasi bambino spagnolo del suo ceto in quel periodo: frequenta la scuola degli Scolopi e il Collegio imperiale dei gesuiti, si iscrive all’Università di Valladolid ma, all’età di diciassette, interrompe gli studi. Durante tutto il periodo della sua educazione, Larra vive lontano dalla famiglia. Si è speculato molto sul rapporto con la famiglia senza che questo sia stato di alcuna utilità per la comprensione dell’opera dell’autore. È possibile, tuttavia, che l’allontanamento dalla famiglia durante l’infanzia e l’adolescenza abbia contribuito a delineare il suo carattere indipendente, preparandolo a scontrarsi criticamente con la realtà. A quanto pare le disavventure familiari contribuirono all’interruzione degli studi. Ad ogni modo, Larra acquisì delle basi umanistiche che in seguito stimolarono le sue doti naturali di scrittore. Larra non ricevette, quindi, una formazione universitaria come la maggioranza di altri scrittori suoi coetanei, tra cui ricordiamo Mesonero Romanos, Espronceda, Ventura de la Vega e Patricio de la Escosura. Nel 1826, anno in cui Larra abbandona gli studi, viene stilato in Spagna il manifesto dei «realisti puri». Il Manifiesto de la Federación de Realistas Puros accusa Fernando VII di non rappresentare con la dovuta integrità i principi della corona e reclama, pertanto, la necessità di elevare al trono don Carlos. Contro di loro si pongono quelle forze che, unendo interessi economici e sociali di classe con l’ideologia politica del liberalismo moderato, preparano la successione di Isabella II contro le pretese di don Carlos. Il risultato sarà il trionfo della borghesia. L’assolutismo politico, da una parte, e la società dell’Ancien Régime, dall’altra, costituivano un ostacolo per lo sviluppo delle nuove forze economiche e sociali che si andavano compattando, provenienti dalle periferie della penisola. Per quanto il regime di Fernando VII tentasse di rallentare il corso della storia, la classe sociale in ascesa imponeva le proprie soluzioni, rappresentate formalmente dal liberalismo. Larra appartiene a questa classe, alla gioventù che si incorpora in questo processo storico, conquistata dall’ideale romantico della libertà. È proprio fra il 1827 e il 1828, in questo momento di crisi provocato dall’opposizione dei realisti, quando appaiono le sue prime pubblicazioni. È già presente in lui il germe della vocazione letteraria e la coscienza politica comune ai giovani della generazione sua e di Espronceda. Il panorama letterario a lui contemporaneo è però desolante. Gli scrittori più conosciuti si trovavano in esilio o mantenevano il silenzio; un grande abisso separava gli scrittori della letteratura nazionale, tanto dalle correnti innovatrici di altri paesi, quanto dalla stessa letteratura spagnola degli scrittori esiliati. Non circolavano giornali, né opere teatrali. In questo vuoto si può ben capire il valore che poteva avere anche la più piccola innovazione apportata da una gioventù di letterati in gestazione. Larra, quindi, cerca di rompere questo grande silenzio con le sue prime pubblicazioni. Allo stesso tempo vive una condizione di spaccatura interna fra l’ideale della libertà e la consapevolezza della mancanza di mezzi. Quest’ideale non nasce in lui solo come negazione di un regime politico, piuttosto è fortemente segnato da un profondo scetticismo nei confronti della società in cui non possono avvenire cambiamenti drastici e repentini con il passaggio da un sistema politico all’altro. Tutti gli articoli di Larra scritti in questo primo periodo sono pieni di allusioni alle assurdità del sistema di governo che rendeva sempre più manifesta la propria incapacità di tenere la rotta. Ma la politica non era l’unico argomento che assorbiva la sua attività di scrittore, né il solo ambito contro cui si scagliava la sua satira ingegnosa e loquace. Infatti, la critica letteraria e la critica teatrale in particolar modo, gli offrivano spunti per scrivere articoli non meno notevoli, senza contare gli articoli propriamente detti di costume, che scrisse nello stesso periodo e che contribuirono in ugual misura alla sua celebrità. È in particolar modo negli articoli che scrive per la Revista Española, che Larra esprime con evidenza la sua aspirazione al costumbrismo; non si tratta però di mero desiderio di descrivere con nostalgia gli usi e i costumi locali, quanto piuttosto di un tentativo di decifrare il senso de «las costumbres» in prospettiva del futuro, in un momento storico di profonde trasformazioni sociali. In questo contesto si iscrive l’articolo che si propone in traduzione e che sarà analizzato nei paragrafi successivi. Per quel che riguarda la vita privata dell’autore, sappiamo che poco dopo il suo ritorno dalla Francia cercò di riallacciare i rapporti con la donna da sempre amata, Dolores Armijo, che viveva ad Avila. Dolores, ritornando a Madrid, annuncia allo scrittore, il 13 maggio 1837, che andrà a fargli visita accompagnata da un’amica. Larra sembra a questo punto convinto della possibilità di riprendere l’antica relazione. Quel giorno fa visita a Mesonero Romanos e alla moglie e passeggia per il Prado accompagnato da Mariano Roa de Togores, con il quale vorrebbe scrivere un’opera teatrale sulla figura di Quevedo. Era un lunedì di Carnevale e, quando si era fatto ormai buio, riceve in visita Dolores, accompagnata dalla cognata. Viene con l’intenzione di rifiutare una nuova proposta d’amore. Quando le due donne vanno via e non sono ancora molto lontane Larra si toglie la vita (José Escobar, Los orígenes de la obra de Larra, Madrid, Editorial Prensa Española, 1973). Si potrebbe provare a dare varie spiegazioni ma è più probabile che, nel gesto di Larra, maturo e consapevole, vi sia la prova evidente del senso di perdita della speranza che sentiva nei confronti di una società corrotta e incapace di comprendere la disperazione che celava dietro le sue innumerevoli invettive. Nell’articolo “Ya soy redactor”, l’autore presenta ai suoi lettori un’esperienza personale – tutti i suoi articoli infatti prendono spunto dalla propria quotidianità – un aneddoto sulle sue mille traversie lavorative, col fine di dimostrare che l’uomo desidera sempre ciò che non ha, come dichiara già in apertura: ¿Por qué extraña fatalidad ha de anhelar el hombre siempre lo que no tiene? Dopo una digressione iniziale, in cui vengono chiamati in causa un certo Padre Almeida e le sue stravaganti idee sul desiderio e la provvidenza, si entra nel vivo della narrazione e, quindi, delle avventure lavorative di questo singolare redattore. L’articolo è attraversato da una sottile ironia che il lettore può cogliere facilmente nel linguaggio, fortemente iconografico, nella aggettivazione, che spesso tende all’esagerazione, ma soprattutto nell’antifrasi costante ¡Oh qué placer el de ser redactor!, che ricorre per ben otto volte, marcando il ritmo della narrazione e le diverse fasi lavorative dell’autore-protagonista Figaro: quella di critico teatrale, critico letterario, traduttore, giornalista esperto di economia politica, correttore di bozze, giornalista di politica. I problemi che sono emersi in fase di traduzione riguardano la resa della prosa di Larra in un linguaggio semplice e quasi confidenziale che, peraltro, il suo amichevole rapporto con i lettori richiede. Ma, termini come deseo vividor, imperfecta satisfacción, ardiente caridad, llenar y embutir con verdades luminosas, causas y concausas, conducir al auge, e molti altri, danno un piccolo esempio di come questo compito sia tutt’altro che semplice. Non mancano espressioni iperboliche e metaforiche, ad esempio: enemigo malo per diavolo, o mi pío, espressione onomatopeica che allude a qualcosa di persistente, come un pensiero costante, un chiodo fisso in questo caso, e, ancora, in ordine di apparizione, obra de romanos per fatiche di Ercole. Larra ama inoltre impreziosire la sua prosa con sequenze descrittive; particolarmente brillante, per esempio, è la descrizione del “passaggio” da semplice autore di pamphlet a redattore: El hecho es que me acosté una noche autor de folletos y de comedias ajenas, y amanecí periodista: mireme de alto abajo, sorteando un espejo que a la sazón tenía, no tan grande como mi persona, que es hacer el elogio de su pequeñez, y dime a escudriñar detenidamente si alguna alteración notable se habría verificado en mi físico; pero por fortuna eché de ver que como no fuese en la parte moral, lo que es en la exterior y palpable, tan persona es un periodista como un autor de folletos. «¡Ya soy redactor!», exclamé alborozado, y echéme a fraguar artículos, bien determinado a triturar en el mortero de mi crítica cuanto malandrín literario me saliese al camino en territorio de mi jurisdicción. Figaro si sofferma ad esaminare minuziosamente il suo aspetto e il ritmo della narrazione, che ricorre a numerose proposizioni incidentali, tende a rallentare. Descrive i gesti e rende partecipe il lettore delle sue considerazioni non solo su se stesso, ma anche sullo specchio che, attraverso un giro di parole, definisce piccolo (no tan grande como mi persona, que es hacer el elogio de su pequeñez). Nella traduzione ho preferito esplicitare questa perifrasi nel seguente modo: non tanto lungo quanto tutta la mia statura, il che sottolinea quanto fosse piccolo. Allo stesso modo, ho scelto, poco più avanti, di non tradurre letteralmente l’espressione figurata triturar en el mortero de mi crítica, perché in italiano perderebbe la sua forza comunicativa, oltre a rallentare il ritmo; pertanto ho tradotto determinato a criticare spietatamente. Al contrario, l’espressione idiomatica esto es matarme el periódico ha in italiano un suo equivalente perfettamente calzante (così mi manda in rovina il giornale), in cui ho volutamente mantenuto il dativo etico perché inserito all’interno di un dialogo informale tra Figaro e il suo editore. Notevoli difficoltà ho riscontrato nel tradurre l’espresione …mejor quiero rezar diez rosarios de quince dieces. L’espressione spagnola, infatti, non ha corrispondenza con nessuna locuzione italiana; pertanto ho l’ho semplificata, privandola di buona parte degli elementi che la componevano e cercando di renderla, nella lingua di arrivo, in una forma molto colloquiale. Allo stesso tempo, ho mantenuto il senso iperbolico di totale rifiuto di Figaro di fronte alla richiesta del suo superiore; l’esito della traduzione è, quindi, il seguente: Ah no, signor editore, piuttosto recito dieci rosari! Procedendo nella lettura dell’articolo ci si imbatte in un falso amico, si tratta dell’espressione Si usted no tiene pulso... che, tradotto alla lettera, in italiano allude al possesso di una volontà forte e di capacità decisionale. Nel contesto in cui si trova l’espressione, è facile comprendere che non si tratta di tutto ciò, bensì della capacità di “mantenere il polso a bada” (polso è una probabile metonimia, che indica la scrittura), di avere maggior autocontrollo e, quindi nel caso specifico, di essere prudente: Se lei non è prudente… L’articolo in questione è scritto quasi interamente al presente indicativo, mentre il frammento riportato sopra è in “pretérito pasado”, quindi, sarebbe apparentemente più indicato tradurre in passato remoto. Tuttavia nella mia traduzione ho preferito del passato prossimo, sulla base del fatto che l’azione ha ripercussioni sul presente in cui scrive l’autore e non è ancora conclusa. Si potrebbe intravedere, sulla base delle osservazioni fatte sul linguaggio, una sorta di dualismo tra le forme colte, il lessico ricercato e lo stile fortemente diretto, che comporta una frequente interazione con il pubblico; ne sono una prova espressioni di questo tipo: …y juzgue el lector si no es preferible…; Confieso como hombre débil, lector mío…;… juzga tú …così come le interiezioni e le locuzioni esclamative: Pero ¡ay de mí, insensato…;¡Santo cielo!; ¡Bueno!; Pero ¡ah!. In questi casi è bastato sostituir tali le espressioni con locuzioni italiane facilmente riconoscibili dal lettore, concretamente: Ah, povero me!; Santo cielo!; D’accordo!. Quasi a conclusione del suo articolo, l’autore si dilunga in una enumerazione di termini che afferiscono all’ambito politico. Alcuni termini, in particolare desquiciadores, e bill, hanno richiesto una breve riflessione; il primo, letteralmente, significa “scardinatori”, e indica un insieme di individui che tentano di sconvolgere l’ordine; di primo acchito si potrebbe pensare che l’autore faccia riferimento agli anarchici, ad ogni modo ho preferito tradurre con il termine ribelli, evitando di caricare la parola di connotazioni politiche. Il termine bill fa, invece, riferimento al Bill of rights inglese, che ho tradotto come carta dei diritti, forse andando contro le intenzione dello stesso autore, che ha lasciato invariato il termine inglese, potendo egli stesso tradurlo. L’ultima questione da analizzare, seguendo l’ordine di apparizione nel testo, riguarda la resa di alcuni giochi di parole presenti nella frase di seguito riportata: ¿Quién me dice que no se pondrá «Camellos» donde yo puse «Comellas», «torner», donde escribí yo «Forner», «ritómico» donde «rítmico», y otros de la misma familia? Si fa riferimento alla possibilità che al momento della stampa si verifichino degli errori per cui al posto di Juan Pablo Forner y Segarra (Mérida 1756 - Madrid 1797, direttore della “Academia de Derecho” di Madrid e critico) e di Comellas, il pubblico legga rispettivamente camellos e torner. In Italia i due intellettuali spagnoli non sono per nulla conosciuti, questo esclude a priori la possibilità di calcare l’originale. Di conseguenza, la mia prima intenzione è stata quella di adattare i nomi, sostituendoli con personalità di spicco e universalmente riconosciute, per esempio artisti o intellettuali; dopo diversi tentativi falliti, l’unico rimedio valido è stato quello di ricreare il gioco di parole, facendo a meno dei nomi propri e aggiungendo un maggior numero di esempi, al fine di compensare la perdita e di rendere ancor più chiaro il gioco linguistico: Chi mi assicura che non verrà stampato collo per pollo, gioco al posto di giogo, normale invece di formale, prendere per rendere, volare per volere e altri errori simili? Concludo senza ulteriori commenti e augurandomi che anche attraverso la traduzione italiana di queste pagine si riesca ad intravedere con quale sottigliezza e destrezza allo stesso tempo, attraverso il ricorso all’ironia e al dialogo, Larra acceda alla critica pungente mostrando al suo pubblico di lettori la ridicola stoltezza umana. Valentina Monaca

©inTRAlinea & Valentina Monaca (2009).
"Finalmente redattore". Translation from the work of Mariano José de Larra.
This translation can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/translations/item/1018

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