Osservazione sulla traduzione
Translated by: Daniele Galasso
Bemerkung zum Übersetzen by Martin Heidegger
Hölderlins Hymne ‘Der Ister’, Klostermann, Frankfurt a. M., pp. 74-76
Chi decide e come si decide intorno all’esattezza di una "traduzione"? La nostra conoscenza del significato delle parole di una lingua straniera ce la "procuriamo" dal "dizionario". Tuttavia ci dimentichiamo troppo in fretta che le indicazioni di un dizionario riposano generalmente già su un’interpretazione anteriore dei contesti linguistici, dai quali sono tratti le singole parole ed i loro usi. Un dizionario fornirà nella maggior parte dei casi un’esatta indicazione sul significato delle parole, ma non garantisce ancora, attraverso tale esattezza, una visione perspicua [Einsicht] della verità di ciò che la parola significa e può significare, nel momento in cui incominciamo ad investigare il dominio essenziale [Wesensbereich] nominato nella parola. Un "dizionario" può fornire indicazioni utili alla comprensione delle parole, ma non è mai semplicemente e a priori un’istanza vincolante. Il richiamo ad un dizionario rimane pur sempre un richiamo ad un interpretazione, per lo più difficilmente afferrabile e nel suo modo e nei suoi limiti, di una lingua. Non appena consideriamo il linguaggio esclusivamente come mezzo di comunicazione, allora il dizionario, concepito per la tecnica della circolazione e dello scambio, è "senz’altro" "a posto" e vincolante. In vista, al contrario, dello spirito istoriale [geschichtlichen] di una lingua nella sua totalità, ad ogni dizionario manca l’immediato carattere paradigmatico e vincolante.
In realtà ciò vale tuttavia per ogni traduzione, in quanto questa deve necessariamente compiere il trapasso dallo spirito di una certa lingua in quello di un’altra. Non c’è in generale traduzione nel senso in cui sia possibile o anche solo lecito far combaciare una parola di una certa lingua con quella di un altra lingua. Tale impossibilità non deve altresì indurre a screditare la traduzione come semplice fallimento. Al contrario: la traduzione può portare alla luce addirittura connessioni presenti nella lingua tradotta, ma non esplicite. Da qui riconosciamo che ogni tradurre dev’essere un’interpretazione. Al tempo stesso però vale anche il contrario: ogni interpretazione e tutto ciò che è al suo servizio è un tradurre. Allora la traduzione non si muove solamente tra due lingue diverse, ma c’è traduzione all’interno di una stessa lingua. L’interpretazione degli Inni di Hölderlin è un tradurre all’interno della nostra stessa lingua tedesca. Lo stesso vale per l’interpretazione che ha per tema la "Critica della ragion pura" di Kant o la "Fenomenologia dello spirito" di Hegel. Riconoscere che qui si tratta necessariamente di una traduzione o di un tradurre comporta la constatazione che tali "opere" sono richiedono traduzione per la loro stessa essenza. Tale necessità però non è una mancanza, bensì il loro intimo pregio. In altre parole: rientra nell’essenza della lingua di un popolo storico, al pari una montagna, di degradare per lo più nella pianura e nel piano e contemporaneamente di innalzarsi con rare vette ad altezze altrimenti irraggiungibili. In mezzo ci sono "le mezze altezze" e i "gradi". Interpretare come traduzione è sì un render comprensibile – tuttavia non come lo intende il senso comune. Per restare alla nostra immagine, la vetta di un’opera linguistica, poetante o pensante, non può essere abbassata e l’intera la catena montuosa non può essere schiacciata sulla pianura della superficialità. Al contrario: la traduzione deve dislocare sul sentiero che sale verso la vetta. Render comprensibile non deve mai significare assimilare una poesia o un pensiero ad un qualsivoglia ritenere ed al suo orizzonte di comprensione; rendere comprensibile significa risvegliare la nostra disponibilità a spezzare ed addandonare la cieca ostinazione del senso comune, se la verità di un’opera deve dischiudersi.
Questo intermezzo intorno all’essenza della traduzione vorrebbe ricordarci che la difficoltà di una traduzione non è mai meramente tecnica, ma che in essa ne va del rapporto dell’uomo con l’essenza della parola e con la dignità della Lingua. Dimmi cosa pensi del tradurre e ti dirò chi sei.
Wer entscheidet aber und wie entscheidet man über die Richtigkeit einer "Übersetzung"? Unsere Kenntnis der Wortbedeutungen einer fremden Sprache "beschaffen" wir uns aus dem "Wörterbuch". Aber wir vergessen zu leicht, dass die Angaben eines Wörterbuches ja durchgänging auf einer voraufgehenden Auslegung der sprachlichen Zusammenhänge beruhen müssen, aus denen die einzelnen Worte und Wortverwendungen entnommen sind. Ein Wörterbuch wird in den meisten Fällen eine richtige Auskunft geben über die Wortbedeutung; es verbürgt aber durch diese Richtigkeit noch nicht die Einsicht in die Wahrheit dessen, was das Wort bedeutet und bedeuten kann, sofern wir dem im Wort gennanten Wesensbereich nachfragen. Ein "Wörterbuch" kann Hinweise geben für das Wortverständnis, aber es ist niemals eine schlechthin und im voraus verbindliche Instanz. Die Berufung auf das Wörterbuch bleibt immer nur die Berufung auf eine in ihrer Art und ihren Grenzen meist gar nicht fassbare Auslegung einer Sprache. Sobald wir freilich die Sprache nur als Verkehrsmittel betrachten, ist das auf die Technik des Verkehrs und des Austausches zugeschnittene Wörterbuch "ohne weiteres" "in der Ordnung" und verbindlich. Auf den geschichtlichen Geist einer Sprache im Ganzen hin gesehen, fehlt dagegen jedem Wörterbuch die unmittelbare Masstäblichkeit und Verbindlichkeit.
In Wahrheit gilt dies freilich von jeder Übersetzung, weil sie notwendig den Überschritt vom Sprachgeist der einen Sprache in den einer anderen vollziehen muss. Es gibt überhaupt keine Übersetzung im Sinne, dass das Wort der einen Sprache mit dem Wort der anderen zur Deckung gebracht werden könnte oder auch nur dürfte. Diese Ünmöglichkeit soll jedoch wiedurm nicht dazu verleiten, die Übersetzung im Sinne eines blossen Versagens abzuwerten. Im Gegenteil: Die Übersetzung kann sogar Zusammenhänge ans Licht bringen, die in der übersetzten Sprache zwar liegen, aber nicht herausgelegt sind. Hieraus erkennen wir, dass jedes Übersetzen ein Auslegen sein muss. Zugleich gilt aber auch das Umgekehrte: Jede Auslegung und alles, was in ihrem Dienst steht, ist ein Übersetzen. Dann bewegt sich das Übersetzen nicht allein zwischen zwei verschiedenen Sprachen, sondern es gibt innerhalb derselben Sprache ein Übersetzen. Die Auslegung der Hymnen Hölderlins ist ein Übersetzen innerhalb unserer deutschen Sprache. Das gleiche gilt von der Auslegung, die z. B. Kants "Kritik der reinen Vernunft" oder Hegels "Phänomenologie des Geistes" zum Thema hat. In der Erkenntnis, dass es sich hier notwendig um ein Übersetzen handelt, liegt die Anerkennung, dass solche "Werke" ihrem Wesen nach übersetzungsbedürftig sind. Diese Bedürftigkeit ist aber kein Mangel, sondern ihr innerer Vorzug. Mit anderen Worten: Im Wesen der Sprache eines geschichtlichen Volkes liegt es, gleich einem Gebirge zumal in die Ebene und in das Flache auszulaufen und zugleich mit seltenen Gipfeln in sonst unzugängliche Höhen hinaufzuragen. Dazwischen sind die "halben Höhen" und "Stufen". Das Auslegen als Übersetzen ist zwar ein Verständlichmachen – freilich nicht in dem Sinne, wie der gemeine Verstand dies meint. Um im Bild zu bleiben: Der Gipfel eines dichterischen oder denkerischen Sprachwerks darf durch die Übersetzung nicht abgetragen und das ganze Gebirge auf das Flachland des Oberflächlichen eingeebnet werden, sondern umgekehrt: Die Übersetzung muss auf den Pfad des Aufstieges zum Gipfel versetzen. Verständlichmachen darf nie heissen, eine Dichtung und ein Denken jedem beliebigen Meinen und dessen Verständnis-Horizont anzugleichen; verständlich-machen heisst, das Verständnis dafür wecken, dass der blinde Eigensinn des gewöhnlichen Meinens gebrochen und verlassen werden muss, wenn die Wahrheit eines Werkes sich enthüllen soll.
Diese Zwischenbemerkung über das Wesens des Übersetzens möchte daran erinnern, dass die Schwierigkeit einer Übersetzung niemals seine bloss technische ist, sondern dass sie das Verhältnis des Menschen zum Wesen des Wortes und zur Würde der Sprache angeht. Sage mir, was du vom Übersetzen hältst, und ich sage dir, wer du bist.
Chi decide e come si decide intorno all’esattezza di una "traduzione"? La nostra conoscenza del significato delle parole di una lingua straniera ce la "procuriamo" dal "dizionario". Tuttavia ci dimentichiamo troppo in fretta che le indicazioni di un dizionario riposano generalmente già su un’interpretazione anteriore dei contesti linguistici, dai quali sono tratti le singole parole ed i loro usi. Un dizionario fornirà nella maggior parte dei casi un’esatta indicazione sul significato delle parole, ma non garantisce ancora, attraverso tale esattezza, una visione perspicua [Einsicht] della verità di ciò che la parola significa e può significare, nel momento in cui incominciamo ad investigare il dominio essenziale [Wesensbereich] nominato nella parola. Un "dizionario" può fornire indicazioni utili alla comprensione delle parole, ma non è mai semplicemente e a priori un’istanza vincolante. Il richiamo ad un dizionario rimane pur sempre un richiamo ad un interpretazione, per lo più difficilmente afferrabile e nel suo modo e nei suoi limiti, di una lingua. Non appena consideriamo il linguaggio esclusivamente come mezzo di comunicazione, allora il dizionario, concepito per la tecnica della circolazione e dello scambio, è "senz’altro" "a posto" e vincolante. In vista, al contrario, dello spirito istoriale [geschichtlichen] di una lingua nella sua totalità, ad ogni dizionario manca l’immediato carattere paradigmatico e vincolante. In realtà ciò vale tuttavia per ogni traduzione, in quanto questa deve necessariamente compiere il trapasso dallo spirito di una certa lingua in quello di un’altra. Non c’è in generale traduzione nel senso in cui sia possibile o anche solo lecito far combaciare una parola di una certa lingua con quella di un altra lingua. Tale impossibilità non deve altresì indurre a screditare la traduzione come semplice fallimento. Al contrario: la traduzione può portare alla luce addirittura connessioni presenti nella lingua tradotta, ma non esplicite. Da qui riconosciamo che ogni tradurre dev’essere un’interpretazione. Al tempo stesso però vale anche il contrario: ogni interpretazione e tutto ciò che è al suo servizio è un tradurre. Allora la traduzione non si muove solamente tra due lingue diverse, ma c’è traduzione all’interno di una stessa lingua. L’interpretazione degli Inni di Hölderlin è un tradurre all’interno della nostra stessa lingua tedesca. Lo stesso vale per l’interpretazione che ha per tema la "Critica della ragion pura" di Kant o la "Fenomenologia dello spirito" di Hegel. Riconoscere che qui si tratta necessariamente di una traduzione o di un tradurre comporta la constatazione che tali "opere" sono richiedono traduzione per la loro stessa essenza. Tale necessità però non è una mancanza, bensì il loro intimo pregio. In altre parole: rientra nell’essenza della lingua di un popolo storico, al pari una montagna, di degradare per lo più nella pianura e nel piano e contemporaneamente di innalzarsi con rare vette ad altezze altrimenti irraggiungibili. In mezzo ci sono "le mezze altezze" e i "gradi". Interpretare come traduzione è sì un render comprensibile – tuttavia non come lo intende il senso comune. Per restare alla nostra immagine, la vetta di un’opera linguistica, poetante o pensante, non può essere abbassata e l’intera la catena montuosa non può essere schiacciata sulla pianura della superficialità. Al contrario: la traduzione deve dislocare sul sentiero che sale verso la vetta. Render comprensibile non deve mai significare assimilare una poesia o un pensiero ad un qualsivoglia ritenere ed al suo orizzonte di comprensione; rendere comprensibile significa risvegliare la nostra disponibilità a spezzare ed addandonare la cieca ostinazione del senso comune, se la verità di un’opera deve dischiudersi. Questo intermezzo intorno all’essenza della traduzione vorrebbe ricordarci che la difficoltà di una traduzione non è mai meramente tecnica, ma che in essa ne va del rapporto dell’uomo con l’essenza della parola e con la dignità della Lingua. Dimmi cosa pensi del tradurre e ti dirò chi sei. | Wer entscheidet aber und wie entscheidet man über die Richtigkeit einer "Übersetzung"? Unsere Kenntnis der Wortbedeutungen einer fremden Sprache "beschaffen" wir uns aus dem "Wörterbuch". Aber wir vergessen zu leicht, dass die Angaben eines Wörterbuches ja durchgänging auf einer voraufgehenden Auslegung der sprachlichen Zusammenhänge beruhen müssen, aus denen die einzelnen Worte und Wortverwendungen entnommen sind. Ein Wörterbuch wird in den meisten Fällen eine richtige Auskunft geben über die Wortbedeutung; es verbürgt aber durch diese Richtigkeit noch nicht die Einsicht in die Wahrheit dessen, was das Wort bedeutet und bedeuten kann, sofern wir dem im Wort gennanten Wesensbereich nachfragen. Ein "Wörterbuch" kann Hinweise geben für das Wortverständnis, aber es ist niemals eine schlechthin und im voraus verbindliche Instanz. Die Berufung auf das Wörterbuch bleibt immer nur die Berufung auf eine in ihrer Art und ihren Grenzen meist gar nicht fassbare Auslegung einer Sprache. Sobald wir freilich die Sprache nur als Verkehrsmittel betrachten, ist das auf die Technik des Verkehrs und des Austausches zugeschnittene Wörterbuch "ohne weiteres" "in der Ordnung" und verbindlich. Auf den geschichtlichen Geist einer Sprache im Ganzen hin gesehen, fehlt dagegen jedem Wörterbuch die unmittelbare Masstäblichkeit und Verbindlichkeit. In Wahrheit gilt dies freilich von jeder Übersetzung, weil sie notwendig den Überschritt vom Sprachgeist der einen Sprache in den einer anderen vollziehen muss. Es gibt überhaupt keine Übersetzung im Sinne, dass das Wort der einen Sprache mit dem Wort der anderen zur Deckung gebracht werden könnte oder auch nur dürfte. Diese Ünmöglichkeit soll jedoch wiedurm nicht dazu verleiten, die Übersetzung im Sinne eines blossen Versagens abzuwerten. Im Gegenteil: Die Übersetzung kann sogar Zusammenhänge ans Licht bringen, die in der übersetzten Sprache zwar liegen, aber nicht herausgelegt sind. Hieraus erkennen wir, dass jedes Übersetzen ein Auslegen sein muss. Zugleich gilt aber auch das Umgekehrte: Jede Auslegung und alles, was in ihrem Dienst steht, ist ein Übersetzen. Dann bewegt sich das Übersetzen nicht allein zwischen zwei verschiedenen Sprachen, sondern es gibt innerhalb derselben Sprache ein Übersetzen. Die Auslegung der Hymnen Hölderlins ist ein Übersetzen innerhalb unserer deutschen Sprache. Das gleiche gilt von der Auslegung, die z. B. Kants "Kritik der reinen Vernunft" oder Hegels "Phänomenologie des Geistes" zum Thema hat. In der Erkenntnis, dass es sich hier notwendig um ein Übersetzen handelt, liegt die Anerkennung, dass solche "Werke" ihrem Wesen nach übersetzungsbedürftig sind. Diese Bedürftigkeit ist aber kein Mangel, sondern ihr innerer Vorzug. Mit anderen Worten: Im Wesen der Sprache eines geschichtlichen Volkes liegt es, gleich einem Gebirge zumal in die Ebene und in das Flache auszulaufen und zugleich mit seltenen Gipfeln in sonst unzugängliche Höhen hinaufzuragen. Dazwischen sind die "halben Höhen" und "Stufen". Das Auslegen als Übersetzen ist zwar ein Verständlichmachen – freilich nicht in dem Sinne, wie der gemeine Verstand dies meint. Um im Bild zu bleiben: Der Gipfel eines dichterischen oder denkerischen Sprachwerks darf durch die Übersetzung nicht abgetragen und das ganze Gebirge auf das Flachland des Oberflächlichen eingeebnet werden, sondern umgekehrt: Die Übersetzung muss auf den Pfad des Aufstieges zum Gipfel versetzen. Verständlichmachen darf nie heissen, eine Dichtung und ein Denken jedem beliebigen Meinen und dessen Verständnis-Horizont anzugleichen; verständlich-machen heisst, das Verständnis dafür wecken, dass der blinde Eigensinn des gewöhnlichen Meinens gebrochen und verlassen werden muss, wenn die Wahrheit eines Werkes sich enthüllen soll. Diese Zwischenbemerkung über das Wesens des Übersetzens möchte daran erinnern, dass die Schwierigkeit einer Übersetzung niemals seine bloss technische ist, sondern dass sie das Verhältnis des Menschen zum Wesen des Wortes und zur Würde der Sprache angeht. Sage mir, was du vom Übersetzen hältst, und ich sage dir, wer du bist. |
Questa breve riflessione sulla traduzione è prelevata da un corso che Heidegger tenne all’Università di Friburgo nel semestre estivo del 1941 (proprio quando sotto il suo naso imperversa la guerra, lo sterminio nei campi…ma questa è un’altra storia. O, forse, no?!) ed ora pubblicata nel Volume 53 della Gesamtausgabe con il titolo Hölderlins Hymne ‘Der Ister’. Il corso appartenente al ciclo delle letture che in quegli anni Heidegger dedica agli inni di Hölderlin. Heidegger inserice questo breve intermezzo sulla traduzione, quando si tratta di interpretare (e quindi, in qualche modo, di tradurre) il significato del deinon, evocato nel primo canto dell’Antigone di Sofocle che in una delle tante traduzioni italiane suona così:
"Molti sono i prodigi (deina)
e nulla è più prodigioso (deinoteron)
dell’uomo,
che varca canuto
sospinto dal vento tempestoso del sud,
fra le ondate penetrando
che infuriano d’attorno,
e la più eccelsa fra gli dei,
la Terra imperitura infaticabile,
consuma volgendo l’aratro
anno dopo anno
e con l’equina prole rivolta."
(Sofocle: Antigone; Tr. it di Franco Ferrari, BUR, pp. 83-85)
Ebbene quello che qui viene reso con "prodigi" (traduzione canonica) viene "tradotto" da Heidegger con Unheimlich (termine divenuto famoso dopo Freud e che apre ad un "ventaglio di sensi", direbbe Mallarmé, quasi incontrollabile: spaesamento, perturbante, non-familiare etc.). Proprio per giustificare questo gesto di violenza filologica, Heidegger si sente costretto ad inframezzare, nel corso della sua lettura-interpretazione, questo breve excursus sulla traduzione.
Chi ha un pò di esperienza con le letture heideggriane riconosce subito un certo stile nel trattare le questioni intorno al linguaggio. Il linguaggio non è semplicemente uno strumento a nostra disposizione e con cui comunichiamo, esprimiamo etc., ma è essenzialmente "qualcosa" di più radicale ed originario, nel senso che qui "linguaggio" è il nome di un’apertura da qui ogni atto di significazione diviene possibile. Il linguaggio, in sostanza, è l’evento che ci fa apparire le cose, vincolandoci a dirle nel modo in cui le fa apparire. Perché io dica in generale qualcosa, bisogna, come dire, che il linguaggio sia già qui; e questo semplice assioma, forse, lo si dimentica troppo spesso.
©inTRAlinea & Daniele Galasso (1998).
"Osservazione sulla traduzione". Translation from the work of Martin Heidegger.
This translation can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/translations/item/1000