La Stella del Vespro

Translated by: Chiara Carlino (University of Strasbourg, France)

L’Étoile Vesper. Souvenirs by Colette
Fayard- Livre de Poche, Paris, 1990, pp. 7-17


- Stai bene?

- Benissimo.

- Che cosa scrivi?

- Oh! Nulla. Imbratto fogli, e poi strappo. Quando non sono in grado di fare, disfaccio. 

Stasera, il cielo si chiude, un soffio, attraverso l’iato delle finestre, canta il disgelo. È ora d’accostare le tende consunte dal sole.

Il mio apprensivo compagno penserà ancora una volta ch’io mi annoi. Le persone sane credono sempre che dall’immobilità forzata nasca la noia. È un grande errore, nel quale forse cadrei a mia volta, se anziché difettar d’una gamba fossi priva di braccia. Un’infermità si rende penosa nel suo primo anno, mentre ogni stagione, quasi ogni giorno, ci educa a un vincolo nuovo, esige una rinuncia nuova, la nostra confessione, a noi stessi, d’aver scrollato oggi la catena che domani c’inchioderà. Riconoscere, concluso il ciclo delle stagioni, la pastoia dell’anno passato e la sua impronta, è già un’adottarla come un indumento reso amabile dalla propria età. Che la malattia ci plasmi è bene accettarlo. Ancora meglio è plasmare la malattia a nostro piacimento, secondo le nostre esigenze. È una modalità di sfruttamento di cui i giovani, i robusti, non sono capaci, e posso ben concepire la difficoltà del far comprendere loro, ad esempio, che l’immobilità quasi totale sia un dono. Ma parlatemi, quanto a un male durevole, del bambino e dell’anziano, che sono uguali nella tempra, quando si accorgono, in buonafede, che ciò che generalmente è chiamato “un martirio” si sopporta più facilmente d’una spina sotto l’unghia o d’un fastidioso patereccio…

Hanno appena suonato.

     - Madame, è un uomo non bello, ha due conigli di garenna appesi sotto il camiciotto. Dice che valgono duecento franchi il pezzo, ma che è disposto a darne via uno per centocinquanta[1].

     - E perché mai?

     - Perché si tratta di Madame.

Ma come può quest’uomo non bello sapere che si tratta di me, quand’io stessa stento a saperlo?

     - Madame vuole vederlo?

No. Né lui, né il piccolo coniglio di garenna dall’occhio spento e illividito, segnato dal legaccio attorno al collo. Come s’arrestano, pietrificati, i cani parigini, all’odoroso passaggio dell’uomo, autentico selvaggio delle foreste vicine, latore in segreto di teste penzolanti e piume incollate… No, non vedrò il piccolo coniglio di garenna.

     - Io esco.

     - Con questo tempo! Ti compatisco.

     - Stai bene? Non aspetti nessuno?

     - Nessuno.      

     È una verità relativa. Tuttavia non posso confessare al mio migliore amico[2] che sono in attesa della primavera. Cos’altro potrei aspettare, se non la primavera? Sono sua creditrice, quest’anno. Mi deve quel suo retrogusto d’autunno, che non abbiamo avuto, quell’accesso febbrile che riaccende i candelabri dei marroni, desta i lillà in ottobre ed estrae dai rami nudi le foglie inaspettate, insomma: quella crisi che chiamiamo Estate di San Martino. Perché nessuno s’accorge, due volte nello stesso anno, di chiamare primavera ciò che è primaverile.

     Il sentimento d’attesa s’adatta solo alla primavera. Prima di lei, dopo di lei, valutiamo il raccolto, stimiamo la qualità della vendemmia, speriamo nel disgelo. L’estate non s’aspetta, s’impone; l’inverno lo si teme. Solo per la primavera diveniamo simili all’uccello sotto la pensilina di tegole, paragonabili al cervo che, in una notte d’inverno, nella foresta, respira l’improvvisa nebbia intiepidita dall’approssimarsi del nuovo clima. Una profonda credulità annuale s’impadronisce del mondo, libera troppo presto la voce degli uccelli, il volo dell’ape. Qualche ora appena, e ripiombiamo in quella comune condizione di miseria che ci vede costretti a sopportare l’inverno e ad aspettar la primavera…

     - Si gela qui! Pauline!

     - Ma certo, Madame. È naturale, non arriva così presto, la primavera.

…che non arriva mai secondo le nostre aspettative. Arriva – dicevamo da bambini – in automobile: rulla ed irrompe su un carro tonante, sferzato da grandi zigzag di folgori. Un altro anno, prima dell’alba, sparge vetri ovunque, sull’abbeveratoio delle galline, sul secchio ricolmo, fin nelle orme dei piedi del bestiame, sulla riva dello stagno. Non appena il sole li sfiora, essi esplodono in schegge di ghiaccio sottili e tinnanti, e la gelata, nell’istante in cui avremmo voluto rivelarle il nostro nome con la punta del dito, svanisce come l’impronta del respiro su uno specchio.

     Oppure, come nel giorno del mio ultimo matrimonio[3], una mattina la stagione novella spazza via tutto il buon lavoro d’aprile già inoltrato, riempie il cielo d’una lanugine grigia, che si discioglie in neve alla stregua d’un piumino forato. Del resto non faceva freddo, quel giorno; che neve soffice! S’attaccava agli amenti gialli dei noccioli, e cadeva così fitta che pregai il mio vecchio amico neo-sposo di fermare la macchina, per poter ascoltare il bisbiglio della neve sul letto delle foglie morte. È un mormorio molto dolce, e come sillabato. Ho cercato di descriverlo in più d’un’occasione. Paragonandolo alla bassa preghiera d’una folla orante rischio di fallire ancora una volta, soprattutto se dimentico di menzionare un altro fruscio che l’accompagna, lo accentua, come di pagine setose sfogliate diligentemente. Bella neve d’aprile… I caprifogli selvatici dei Vaux-de-Cernay la trattenevano ammonticchiata sulle loro piccole orecchie appena sbocciate, e l’acqua impetuosa delle fonti era d’un blu di colubro.

     Il menù del pranzo di nozze non disattese quel momento invernale della primavera. Prevedeva teneri zampetti di maiale cotti in pot-au-feu[4], rivestiti del loro lardo rosato e della loro cotenna, umettati del loro brodo, a sua volta esaltato da un po’ di sedano, un po’ di noce moscata, un po’ di rafano e dalle verdure più salutari, ancelle aromatiche della sovrana carne. Mangiammo anche delle crêpe… Ci si sposa senza champagne? Sì, se lo champagne cede il passo di fronte a uno di quegli incontri che rischiaravano le nostre trattorie francesi, nella fattispecie quello con un anonimo vino, fosco e dorato come un reliquiario spagnolo, capace di tener testa al maiale e ai formaggi…

     - Rieccomi qua! Che razza di tempo! Stai bene?

     - Benissimo.

     - Non starai lavorando, spero?

     - Dio me ne guardi! Al contrario, gioco.

…Un’altra volta, la primavera fa pensare a una rosa sommersa. Brilla sotto l’acqua, tutta allegri rovesci, muschi inondati in poche ore. Da un’unghia verde, sulla punta d’un ramo, gocciola senza fine una goccia, ancora una goccia e sempre una goccia, che alimenta il canto delle cascatelle sotterranee. L’embrione è acquoso, l’erba succosa, la corteccia si spacca, l’argilla sciropposa tradisce il piede. Ma un tenue lucore s’attacca a ogni piega delle acque straripate, in un istante l’iris si sguaina, e la pioggia si fa tiepida. Al crepuscolo, il fiume fuma come un falò di foglie secche…

     Una prima spuma verde s’incolla al fianco dei tronchi che guarda a nord-est, e nei nostri camini il fuoco s’agita, sbava, borbotta. Insidioso, un puzzo sale dalla cantina sino al pianterreno… “Da dove viene quest’odore?” Quest’odore viene da un barile ricolmo, alterato dalla primavera ammuffita, che da vino si trasforma in aceto. La botte ha partorito, troppo tardi, una “madre” enorme, sorta d’orribile polpo, violastro e gelatinoso…

     Gran clamore tra le casalinghe: “Il sidro è morto!” Emergono dalla dispensa, portando il lutto del sidro, brandendo un boccale colmo d’un succo fosco e torbido come la birra stagionata, e che ha perso tutte le sue virtù.

     Ogni cosa sa d’aspro, d’acre, di cetriolo invecchiato, residuo di mela, barbabietola insilata… È il tuo odore, primavera ammuffita! Ma, per quanto il sole e il vento si ricredano, tu resti il sentiero fertile e fangoso, l’impervia stradina che ci conduce al momento più bello dell’anno: il tempo di refrigerare le muffe, di servire, sul vassoio floreale del laurotino, un ultimo piccolo entremets d’effimeri scrosci, e la torrida primavera violenterà ogni sboccio.

     È quanto di più difficile vi sia da evocare. La agguanto con una gemma, un germe vermiforme, un viburno, e tiro verso di me, con circospezione… Sui campi nudi regnano il silenzio e il calore. Un popolo vario e impotente si trascina, svolazza, ricade. Deboli zampe che brancolano, zoppicano, ventri che strisciano; in ogni dove un insetto soccombe sul bordo della sorgente di vita, una larva lattiginosa imbianca il proprio sangue, la crisalide esplode come un baccello. Nelle tenebre del sottosuolo s’organizza un massacro. Davanti alla compiuta creatura una porta stava per schiudersi, e non si è schiusa… La furia di morire supererà quella di nascere?

     È la primavera arrostita, che scorcia l’erba e le lance del grano. Vento d’est, niente rugiada, il rosaio perde i suoi boccioli serrati, il ciliegio le sue ciliegie grinzose, il giovane aglio e lo scalogno sensibile avvizziscono; pietà per il fiore alato del pisello, che prega perché la pioggia lo tramuti in seme…

     A questa primavera veemente io sovrappongo ancora l’idea dell’amore, per ricordarmi soltanto la durezza interessata dello sguardo innamorato, il piccolo muso roseo dell’amore, il suo segreto linguaggio da corpo di guardia – quale modesta fanciulla, colma d’amore, non infama in cuor suo la propria rivale dandole del pidocchio e della vacca malata?… È strano che questa sorta di primavera sia ancora presente tra i miei trastulli misteriosi di donna anziana…

     - Che cosa guardi?

     - Gli aerei americani che passano. Un volo di pesci nella notte incombente… Attraversano le nuvole di pioggia come lo spinarello il suo nido fioccoso…

     Poiché è sempre prudente dissimulare. Confessare che si è impegnati esclusivamente a ricordare può ferire un innocente. E come potrei far credere a colui che m’interroga che, dopo settant’anni, rimpiango, con una forza e un’intolleranza tanto ostinate, una stagione, un cespuglio, un cielo, un paese, una possessione smisurata e inalienabile? Ritiriamoci, dunque, le mie defunte primavere ed io, dietro i grandi primi piani della mia falsa turbolenza, e troviamo riparo nella mia pazienza autentica.

     - Forse la gamba ti fa più male del solito?

     - Assolutamente no. Rifletto!

Rifletto. È tutto dire, ma è detto con un’enfasi comica sufficiente per rassicurare colui che si preoccupa. È davvero necessario dare il nome di pensieri a una passeggiata, a una contemplazione priva di mete e propositi, a una sorta di virtuosismo del ricordo che sono la sola a non considerare vano? Parto, mi precipito su una strada un tempo familiare, con la rapidità del mio antico passo; miro la grande quercia deforme, la misera fattoria in cui il sidro e le tartine di burro mi venivano generosamente centellinati. Ecco la biforcazione del sentiero giallo, i sambuchi d’un bianco cremoso, circondati da una tale quantità d’api che, a venti passi di distanza, si può intendere il loro suono di trebbiatrice da grano… Odo le faraone singhiozzare, la scrofa borbottare… È questo il mio metodo di lavoro… Poi, tutt’a un tratto, una lacuna mentale, il vuoto, l’abolizione, una perfetta somiglianza con quello che dev’essere, penso, il principio d’una morte, la strada perduta, sbarrata, cancellata… Non importa, mi sarò assai divertita in cammino.

     Non sempre mi diverto. Un’intera notte mi vede all’inseguimento d’una briciola, d’un nome, d’una parola, che neanche servono al mio lavoro. Uno sport, una sfida. Altri sventurati, scrittori, vanno a caccia allo stesso modo? L’oggetto perseguito mi guida bruscamente, abile quanto una selvaggina braccata dieci volte. Mi capita, perché si lasci raggiungere, di cantarlo: lui, le sue fumose omonimie, il suo ritmo vagamente intravisto. Se s’addormenta, dormo anch’io. Il mio riposo lo rende imprudente, e lo catturo al mattino, innocentemente assopito. Sveglia prima di lui, lo afferro… Mi piacerebbe molto, ad esempio, ritrovare il nome di quel viaggiatore che mi garantì che in Martinica – forse non è la Martinica – intorno al giorno di San Giovanni,  - ma potrebbe anche trattarsi d’un altro santo – la terra si ricopre in un solo giorno, - piuttosto in una notte di delirio – si ricopre di fiori rosa. È evidente che sono incerta, allo stesso tempo, sul luogo, sulla data, sull’ora, e non conosco neanche il nome dei fiori. Cosa dico, dei fiori? Del fiore. Un unico fiore, un rivestimento, uno strato di fiori, ogni pollice di terra spalancato in un sorriso fiorito…

      - Ho richiesto per te quel libro che volevi, lo avrai soltanto domani. Speravi d’averlo oggi?

Ma no, migliore amico mio. Tuttavia te lo lascio credere. A quest’ora non do che appuntamenti ineluttabili. A seconda che il mio letto, che mi segue fedele come la conchiglia la sua lumaca, occupi l’una o l’altra finestra, sia rivolto a sud o ad est, riesco o meno a scorgere certe stelle conosciute da un mio nipote, intenditore del cielo astronomico. Quando gli astri che mi ha menzionato sono inaccessibili alla mia vista, io li invento e inchiodo là dove non vi sono. Per chi si muove appena è facile, la nuca rovesciata, rimestare il firmamento e il suo ordine severo.

     - Qui non abbiamo l’Orsa Maggiore, ha osservato una delle mie vicine.

Poi afferma, con il medesimo tono sostenuto:

     - Nel primo arrondissement siamo molto svantaggiati dal punto di vista della pescheria.

     Piccoli fuochi aguzzi di stelle lontane, sconvolti e smarriti per una nuvola che li affumica, ampie palpitazioni dei pianeti, turbinio siderale… Mi manca la grande stella, Venere dall’umido bagliore. Mio nipote mi spiega per quale ragione sia, così spesso, inaccessibile alla nostra vista. Ma di lei amo ricordare solo ciò che piace agli ignoranti. Per esempio, che un tempo già tradiva l’uomo con gli occhi a lei rivolti, che non riconosceva, nella Venere della sera, lo scintillante Lucifero del mattino… Come diciamo: Venere s’alza, mentre invece ella s’appresta a coricarsi[5]…  Al suo terzo nome, Vespero, io associo, appendo, quello del mio declino. Un tempo risplendeva sulla mia infanzia, sembrava sorgere dai boschi di Moutiers, nel mezzo d’un limpido tramonto. Mio padre alzava il dito, esclamava: “Vespero!” e recitava dei versi. Poi piantava il fragile e minuto telescopio sul suo treppiede e rimirava le stelle…

     Presto arriva la stagione delle notti all’aperto: quella in cui il capezzale del mio letto viene incassato nella finestra spalancata. Dal giardino, se di notte non fosse chiuso, si potrebbe intravedere, tra i balaustri, quel nido arruffato che sono i miei capelli. Dormire fuori è una delle attrattive di questa casa. Le grosse gocce di pioggia accorrono da sud, il vento rabbuffa e semina i fogli, un uccello notturno grida. Tutto penetra e girovaga nella camera aperta, tutto ciò che le notti prodigano al cielo di luci, la luna estensibile, l’alba, il lampo e la stella – salvo il grande pianeta che attraversa invisibile i cieli di Parigi, nascosto dal sole e che s’immerge quasi nel suo stesso istante. A Vespero dai tre nomi, l’ancella del sole, io dedico i miei vespri, e leggo le sue avventure celesti:

     “Ogni otto anni, Venere si mostra con un bagliore talmente intenso che la si può veder brillare in pieno giorno, e di notte recar ombra, al pari della luna. Si ricorda ancora l’anno 1849…” Dizionario Universale, andate di fretta, ed io vorrei, come voi, giocare con la durata. Nel 1849, voi eravate una giovane enciclopedia di ventisette anni, e contemplavate Venere gloriosa, visibile da dicembre a maggio, mentre da disco diventava crescente. Raccontatemi, dunque, Dizionario canuto, raccontatemi come, il 4 aprile 1857, Venere di sera, Lucifero al mattino, “raggiunse il culmine della sua grandezza e del suo fulgore, poi corse rapidamente (sic) verso il punto della propria orbita, poi precipitò nei raggi del grande astro e scomparve con esso”.

      È così difficile sfuggire al lirismo, quando si parla di Venere… Perdendo ogni misura, il Grande Dizionario prosegue, invita i suoi lettori a non perdere i passaggi e gli apogei, distanziati di centotredici anni e mezzo… Voglio davvero provare, ma ho paura di non riuscire.


[1] A parlare è Pauline Tissandier, nata Vérine, (1902-1990), domestica premurosa e fedele amica di Colette. Entrata a servizio presso la scrittrice nella primavera del 1916, appena tredicenne, la buona Pauline la servirà amorevolmente per ben trentotto anni, assistendola sino al giorno della sua morte.

[2] Dietro il placido e discreto appellativo di meilleur ami, il cui ruolo esclusivo nella vita di Colette è sottolineato dalla presenza dell’aggettivo possessivo mon, si cela Maurice Goudeket (1899-1977). Conosciuto nel 1925 e diventato suo terzo ed ultimo marito dieci anni dopo, Goudeket condividerà quasi trent’anni della vita della scrittrice, rivelandosi suo amante, amico, sostegno, cavalier servente e premuroso amministratore della sua ricca  e coinvolgente opera.   

[3] Il matrimonio tra Colette e Maurice Goudeket fu celebrato il 3 aprile 1935, alle undici del mattino, presso il municipio dell’VIII arrondissement parigino. Il pranzo di nozze ebbe luogo presso una locanda chiamata “Au père Léopold”.

[4] Il pot-au-feu (letteralmente, “pentola al fuoco”) è un tradizionale piatto della cucina francese del nord, costituito da un bollito di manzo e verdure. Il sostantivo designa anche, per estensione, la pentola adibita alla cottura del lesso. 

[5] Sin dall’antichità il pianeta Venere è stato oggetto d’una scissione da parte della cultura popolare, che ne associava il bagliore a due diversi astri, identificati con due nomi distinti: Lucifero, stella del mattino, latore di luce nella fase aurorale,  e Vespero, stella della sera, visibile ad ovest dell’orizzonte, subito dopo il tramonto.

- Tu es bien?

- Très bien.

- Qu’est-ce que tu écris ?

- Oh ! rien. Je gratte du papier, et puis je déchire. Quand je ne peux pas faire, je défais.

Ce soir, le ciel se ferme, un souffle, par les hiatus des fenêtres, chante le dégel. Il est l’heure de croiser les rideaux usés par le soleil.

Mon compagnon soucieux va penser encore une fois que je m’ennuie. Les personnes valides croient toujours que de l’immobilité forcée naît l’ennui. C’est une grande erreur, dans laquelle sans doute je tomberais moi-même, si au lieu de pécher par une jambe je manquais de bras. Une infirmité se fait affligeante pendant sa première année, alors que chaque saison, presque chaque jour, nous instruit d’une contrainte nouvelle, nous demande un renoncement nouveau, l’aveu, de nous-même à nous-même, d’avoir secoué aujourd’hui la chaîne qui demain rivera. Le cycle de saisons accompli, reconnaître l’entrave de l’an dernier et sa marque, c’est déjà l’adopter comme un vêtement que son âge rend aimable. Que le mal nous façonne, il faut bien l’accepter. Mieux est de façonner le mal à notre usage, et même à notre commodité. C’est une manière d’exploitation à laquelle les jeunes, les robustes sont malhabiles, et je conçois bien qu’on leur fasse difficilement comprendre, par exemple, que la quasi-immobilité est un cadeau. Mais parlez-moi, pour un long mal, de l’enfant et du vieillard, qui sont égaux dans l’endurance, quand ils s’aperçoivent, de bonne foi, que ce qu’on nomme couramment « un martyre » se supporte plus aisément qu’une épine sous l’ongle ou qu’un mauvais panaris…

On vient de sonner.

- Madame, c’est un homme pas beau, qui a deux garenne pendus sous sa blouse. Il dit que ça vaut deux cents francs pièce, mais qu’il en laissera un à cent cinquante.

- Pourquoi ?

- Parce que c’est Madame.

Mais comment cet homme pas beau peut-il savoir que je suis moi, puisque j’ai tant de peine à le savoir moi-même ?

- Madame veut le voir ?

Non. Ni lui, ni le petit garenne à l’œil terne et bleui, marqué du lacet autour du cou. Que sur l’odorant passage de l’homme, authentique sauvage des forêts proches, secrètement porteur de têtes pendantes et plumes agglutinées, les chiens parisiens s’arrêtent, pétrifiés… Je ne verrai pas le petit garenne…

- Je sors.

- Par ce temps ! Je te plains.

- Tu es bien ? Tu n’attends personne ?

- Personne.

C’est une vérité relative. Je ne peux pourtant pas avouer à mon meilleur ami que j’attends le printemps. Qu’attendrais-je, sinon le printemps ? Je suis sa créancière, cette année. Il me doit son revenez-y d’automne, que nous n’avons pas eu, l’accès fébrile qui rallume les candélabres des marronniers, force les lilas en octobre et tire des ramures dénudées les feuilles imprévues, enfin la crise que nous appelons Été de la Saint-Martin. Car personne ne s’avise, deux fois la même année, de nommer printemps ce qui est printanier.

Le sentiment d’attente ne s’ajuste qu’au seul printemps. Avant lui, après lui nous escomptons la moisson, nous supputons la vendange, nous espérons le dégel. On n’attend pas l’été, il s’impose ; on redoute l’hiver. Pour le seul printemps nous devenons pareils à l’oiseau sous l’auvent de tuile, pareils au cerf lorsqu’une certaine nuit il respire, dans la forêt d’hiver, l’inopiné brouillard que tiédit l’approche du temps nouveau. Une profonde crédulité annuelle s’empare du monde, libère trop tôt la voix des oiseaux, le vol de l’abeille. Quelques heures, et nous retombons à la commune misère d’endurer l’hiver et d’attendre le printemps…

- On gèle ici ! Pauline !

- Bien sûr, Madame. C’est régulier, on n’est pas de sitôt au printemps.

… qui n’arrive jamais selon notre attente. Il arrive – disions-nous enfants – en voiture, c’est-à-dire qu’il roule et s’irrue sur un char de tonnerre, fouaillé par de grands zigzags de foudre. Une autre année, avant l’aube, il pose partout ses vitres, sur l’abreuvoir des poules, sur le seau plein, jusque dans les empreintes des pieds du bétail, au bord de la mare. Dès que le soleil les touche elles sautent en éclats de glace mince et tintante, et la gelée, au moment que nous voulions lui confier notre nom au bout du doigt, s’évanouit comme l’haleine sur un miroir.

Ou bien, comme le jour de mon dernier mariage, le renouveau efface un matin tout le bon travail d’avril déjà bien avancé, emplit le ciel d’une bourre grise qui se dénoue en neige comme un édredon crevé. Il ne faisait pas froid, d’ailleurs, ce matin-là : quelle moelleuse neige ! Elle s’accrochait aux minons jaunes des noisetiers, et tombait si serrée que je priai mon vieil ami le nouveau marié d’arrêter la voiture, pour que je pusse écouter le chuchotement de la neige sur le lit des feuilles mortes. C’est un murmure très doux, et comme syllabé. J’ai plus d’une fois cherché à le décrire. En le comparant à la prière basse d’une foule orante, je vais échouer encore une fois, surtout si j’oublie de mentionner qu’un autre bruissement l’accompagne, le souligne, comme de pages soyeuses feuilletées diligemment. Belle neige d’avril… Les chèvrefeuilles sauvages des Vaux-de-Cernay la retenaient amoncelée sur leurs petites oreilles nouvelles, et l’eau impétueuse des sources était d’un bleu de couleuvre.

Le menu du déjeuner de noces ne mentit pas à ce moment hivernal du printemps. Il comportait de fondants jambonneaux de cochon cuits en pot-au-feu, habillées de leur lard rosé et de leur couenne, mouillés de leur bouillon qui fleurait un peu le céleri, un peu la noix muscade, un peu le raifort et tous les sains légumes, serviteurs aromatiques de la maîtresse viande. Nous eûmes aussi des crêpes… Se marie-t-on sans champagne ? Oui, si le champagne s’efface devant une de ces rencontres qui ensoleillaient nos auberges françaises, en l’espèce celle d’un cru anonyme, sombre et doré comme une châsse espagnole, et qui tenait le coup devant le cochon et devant les fromages…

- Me revoilà. Quel temps ! Tu es bien ?

- Très bien.

- Tu ne travailles pas, j’espère ?

- Dieu m’en préserve ! Au contraire, je joue.

… Une autre fois, le renouveau fait songer à une rose immergée. Il brille sous l’eau, tout averses gaies, mousses crues en quelques heures. D’un ongle vert, au bout d’une branche, s’égoutte sans fin une goutte, encore une goutte et toujours une goutte, qui alimente le chant des cascatelles souterraines. L’embryon est aqueux, l’herbe jute, l’écorce fend, l’argile sirupeuse trahit le pied. Mais une sourde lueur s’attache à chaque pli des eaux débordées, en un moment l’iris se dégaine, et la pluie est tiède. Au crépuscule, la rivière fume comme un feu de fanes…

Une première écume verte se colle à la face des troncs qui regarde le nord-est, et dans nos cheminées le feu sue, bave et grommelle. Insidieuse, une odeur monte de la cave jusqu’au rez-de-chaussée… « Qu’est-ce qui sent comme ça ? » Ce qui sent comme ça, c’est un fût plein, que le printemps moisi dénature et qui de vin tourne en vinaigre. On accouche la barrique, trop tard, d’une « mère » énorme, sorte de poulpe horrible, violâtre et gélatineux…

Grande clameur chez les ménagères : « Le cidre est tué ! » Elles émergent du cellier, menant le deuil du cidre, brandissant un pichet plein d’un jus sombre et trouble comme la vieille bière, et qui a perdu toutes ses vertus.

Tout sent le sur, l’aigre, le cornichon hors d’âge, le marc de pomme, la betterave ensilée… C’est ton odeur, printemps moisi ! Mais pour peu que le soleil et le vent se ravisent, tu es pourtant le chemin fertile et vaseux, l’acide venelle qui nous mène au plus beau de l’année : le temps de réfrigérer les moisissures, de servir, sur la fleur en plateau du lauriertin, un dernier petit entremets de giboulée éphémère, et le printemps torride violentera toutes les éclosions.

C’est le plus difficile à évoquer. Je l’empoigne par un bourgeon, un genre vermiforme, une viorne, et je tire à moi, avec précaution… Sur les champs nus règnent le silence et la chaleur. Un peuple impotent et divers se traîne, volette, retombe. Des pattes débiles tâtonnent, boitent, des ventres rampent ; partout un insecte succombe au bord de la source de vie, une larve laiteuse rend son sang blanc, la chrysalide éclate comme une cosse. Un massacre s’organise dans les ténèbres du sous-sol. Devant la créature achevée une porte allait s’ouvrir, et ne s’est pas ouverte… La fureur de mourir va-t-elle surpasser celle de naître ?

C’est le printemps rôti, qui accourcit l’herbe et les lances du blé. Vent d’est, pas de rosée, le rosier perd ses boutons fermés, le cerisier ses cerises ridées, l’ail jeune, l’échalote sensible pâment, pitié pour la fleur ailée du pois, qui prie que la pluie la change en graine…

     À ce printemps véhément je superpose encore l’idée de l’amour, pour ne me rappeler que la dureté intéressée de la vue amoureuse, le petit groin rose de l’amour, son secret langage de corps de garde – quelle modeste jeune fille, habitée d’amour, ne flétrit in petto sa rivale en la traitant de gueule de pou et de vache malade ?… Il est étrange que cette sorte de printemps soit encore au nombre de mes récréations mystérieuses de femme âgée…

     - Qu’est-ce que tu regardes ?

     - Les avions américains qui passent. Un vol de poissons dans la nuit tombante… Ils traversent les nuages de pluie comme l’épinoche son nid floconneux…

     Car il est toujours prudent de dissimuler. Avouer que l’on n’est occupée qu’à se souvenir, c’est de quoi blesser un innocent. Et comment ferais-je croire à celui-ci, qui m’interroge, que passé soixante-dix ans je suis en train de regretter, avec une force et une intolérance si têtues, une saison, un buisson, un ciel, un pays, une possession sans mesure et inaliénable ? Retirons-nous donc, mes défunts printemps et moi, derrière les gros premiers plans de ma fausse turbulence, puis gagnons l’abri de ma patience authentique.

     - Mais tu ne souffres pas davantage de ta jambe ?

     - Pas question ! Je réfléchis !

     Je réfléchis. C’est beaucoup dire, mais c’est dit avec assez d’emphase comique pour que se rassure celui qui s’inquiète. Faut-il vraiment donner le nom de pensées à une promenade, à une contemplation sans buts ni desseins, à une sorte de virtuosité du souvenir que je suis la seule à ne pas juger vaine ? Je pars, je m’élance sur un chemin autrefois familier, à la vitesse de mon ancien pas ; je vise le gros chêne difforme, la ferme pauvre où le cidre et le beurre en tartines m’étaient généreusement mesurés. Voici la bifurcation du chemin jaune, les sureaux d’un blanc crémeux, environnés d’abeilles en nombre tel qu’on entends, à vingt pas, leur son de batteuse à blé… J’entends sangloter les pintades, grommeler la truie… C’est cela, ma méthode de travail… Puis, soudain, un trou mental, le vide, l’abolition, une ressemblance parfaite, je pense, avec ce que doit être le début d’une mort, la route perdue, barrée, effacée… N’importe, je me serai bien amusée en chemin.

     Je ne m’amuse pas toujours. Une nuit entière me voit à la poursuite d’une bribe, d’un nom, d’un mot, qui ne servent même pas mon travail. Un sport, un défi. D’autres malheureux, les écrivains, chassent-ils de même sorte ? L’objet poursuivi me mène rudement, il est aussi habile qu’un gibier traqué dix fois. Il m’arrive, pour qu’il se laisse rejoindre, de le chanter, lui, ses brumeuses homonymies, son rythme entrevu vaguement. S’il s’endort, je dors. Mon repos le rend imprudent, et je le capture au matin, innocemment assoupi. Éveillée avant lui, je le saisis… Je voudrais bien, par exemple, retrouver le nom de ce voyageur, qui m’assura qu’à la Martinique – peut-être n’est-ce pas la Martinique – vers la Saint-Jean, - mais il se peut que ce soit un autre saint – la terre se couvre en un seul jour, - plutôt en une nuit de délire – se couvre de fleurs roses. On voit que j’hésite ensemble sur le lieu, la date, l’heure, et je ne sais pas même le nom des fleurs. Que dis-je, des fleurs ? De la fleur. Une seule fleur, un revêtement, un enduit de fleurs, chaque pouce de terre s’ouvrant en bouche de fleur…

     - J’ai demandé pour toi ce livre que tu voulais, tu ne l’auras que demain. Tu comptais l’avoir aujourd’hui ?

     Mais non, mon meilleur ami. Pourtant je te le laisse croire. À cette heure je ne donne que des rendez-vous inéluctables. Selon que mon lit, qui me suit aussi fidèle qu’à l’escargot sa coquille, occupe l’une ou l’autre fenêtre, envisage le Sud ou l’Est, j’aperçois ou non certains astres qu’un mien neveu, familier du ciel astronomique, connaît. Quand les étoiles qu’il m’a nommées sont inaccessibles à ma vue, je les invente et les cloue où elles ne sont pas. À qui ne bouge guère il est aisé, la nuque renversée, de brasser le firmament et son ordre sévère.

     - Ici, nous n’avons pas de Grande-Ourse, a remarqué une de mes voisines.

     Du même ton pincé, elle dit :

     - Dans le premier arrondissement, nous sommes très désavantagés sous le rapport de la poissonnerie.

     Petits feux aigues des étoiles lointaines, affolés et perdus pour un nuage qui les enfume, palpitations larges des planètes, tournoiement sidéral… Il me manque la grande planète, Vénus à l’humide éclat. Le mien neveu m’explique pourquoi elle est si souvent inaccessible à notre vue. Mais je n’aime retenir d’elle que ce qui plaît aux ignorants. Par exemple qu’elle trompait déjà, autrefois, l’homme aux yeux levés vers elle, qui ne reconnaissait pas, dans Vénus du soir, le brasillant Lucifer du matin… Que nous disons : Vénus se lève, lorsqu’elle est près de son coucher… À son troisième nom, Vesper, j’associe, je suspends celui de mon propre déclin. Autrefois, elle resplendissait sur mon enfance, semblait surgir des bois de Moutiers, au milieu d’un couchant apaisé. Mon père levait le doigt, nommait : « Vesper ! » et récitait des vers. Puis il plantait le faible petit télescope sur son trépied et visait les étoiles…

     Bientôt vient la saison de coucher dehors, c’est-à-dire d’encastrer le chevet de mon lit dans la fenêtre ouverte. Du jardin, s’il n’était fermé la nuit, on pourrait voir entre les balustres mes cheveux en nid bourru. Coucher dehors est un des charmes de ce logis. Les grosses gouttes de pluie accourent du Sud, le vent rebrousse et sème les papiers, un nocturne crie. Tout pénètre et divague dans la chambre ouverte, tout ce que les nuits prodiguent au ciel de lumières, la lune extensible, l’aube, l’éclair et l’étoile – sauf la grande planète qui traverse invisible les ciels de Paris, effacée par le soleil et qui s’immerge presque en même temps que lui. À Vesper au trois noms, la suivante du soleil, je dédie mes propres vêpres, et je lis ses aventures célestes :

     « À chaque période de huit ans, Vénus se montre avec un si grand éclat qu’on peut la voir briller en plein jour, et la nuit porter ombre, comme la lune. On se rappelle encore l’année 1849… » Dictionnaire Universel, vous allez fort, et je voudrais, comme vous, jouer avec la durée. En 1849, vous étiez une jeune encyclopédie de vingt-sept ans, et vous contempliez Vénus glorieuse, visible de décembre à mai, durant que de disque elle passait croissant. Contez-moi donc, Dictionnaire chenu, contez-moi comment, le 4 avril 1857, Vénus du soir, Lucifer du matin « atteignit le maximum de sa grandeur et de son éclat, puis fila rapidement (sic) vers le point de son orbite, puis tomba dans les rayons du grand astre et disparut avec lui ».

     Tant il est difficile d’échapper au lyrisme, lorsqu’on parle de Vénus… Perdant toute mesure, le Grand Dictionnaire continue, invite ses lecteurs à ne point manquer les passages et les apogées, espacés de cent treize ans et demi… Je veux bien essayer, mais j’ai peur de ne pas réussir.

- Stai bene?

- Benissimo.

- Che cosa scrivi?

- Oh! Nulla. Imbratto fogli, e poi strappo. Quando non sono in grado di fare, disfaccio. 

Stasera, il cielo si chiude, un soffio, attraverso l’iato delle finestre, canta il disgelo. È ora d’accostare le tende consunte dal sole.

Il mio apprensivo compagno penserà ancora una volta ch’io mi annoi. Le persone sane credono sempre che dall’immobilità forzata nasca la noia. È un grande errore, nel quale forse cadrei a mia volta, se anziché difettar d’una gamba fossi priva di braccia. Un’infermità si rende penosa nel suo primo anno, mentre ogni stagione, quasi ogni giorno, ci educa a un vincolo nuovo, esige una rinuncia nuova, la nostra confessione, a noi stessi, d’aver scrollato oggi la catena che domani c’inchioderà. Riconoscere, concluso il ciclo delle stagioni, la pastoia dell’anno passato e la sua impronta, è già un’adottarla come un indumento reso amabile dalla propria età. Che la malattia ci plasmi è bene accettarlo. Ancora meglio è plasmare la malattia a nostro piacimento, secondo le nostre esigenze. È una modalità di sfruttamento di cui i giovani, i robusti, non sono capaci, e posso ben concepire la difficoltà del far comprendere loro, ad esempio, che l’immobilità quasi totale sia un dono. Ma parlatemi, quanto a un male durevole, del bambino e dell’anziano, che sono uguali nella tempra, quando si accorgono, in buonafede, che ciò che generalmente è chiamato “un martirio” si sopporta più facilmente d’una spina sotto l’unghia o d’un fastidioso patereccio…

Hanno appena suonato.

     - Madame, è un uomo non bello, ha due conigli di garenna appesi sotto il camiciotto. Dice che valgono duecento franchi il pezzo, ma che è disposto a darne via uno per centocinquanta[1].

     - E perché mai?

     - Perché si tratta di Madame.

Ma come può quest’uomo non bello sapere che si tratta di me, quand’io stessa stento a saperlo?

     - Madame vuole vederlo?

No. Né lui, né il piccolo coniglio di garenna dall’occhio spento e illividito, segnato dal legaccio attorno al collo. Come s’arrestano, pietrificati, i cani parigini, all’odoroso passaggio dell’uomo, autentico selvaggio delle foreste vicine, latore in segreto di teste penzolanti e piume incollate… No, non vedrò il piccolo coniglio di garenna.

     - Io esco.

     - Con questo tempo! Ti compatisco.

     - Stai bene? Non aspetti nessuno?

     - Nessuno.      

     È una verità relativa. Tuttavia non posso confessare al mio migliore amico[2] che sono in attesa della primavera. Cos’altro potrei aspettare, se non la primavera? Sono sua creditrice, quest’anno. Mi deve quel suo retrogusto d’autunno, che non abbiamo avuto, quell’accesso febbrile che riaccende i candelabri dei marroni, desta i lillà in ottobre ed estrae dai rami nudi le foglie inaspettate, insomma: quella crisi che chiamiamo Estate di San Martino. Perché nessuno s’accorge, due volte nello stesso anno, di chiamare primavera ciò che è primaverile.

     Il sentimento d’attesa s’adatta solo alla primavera. Prima di lei, dopo di lei, valutiamo il raccolto, stimiamo la qualità della vendemmia, speriamo nel disgelo. L’estate non s’aspetta, s’impone; l’inverno lo si teme. Solo per la primavera diveniamo simili all’uccello sotto la pensilina di tegole, paragonabili al cervo che, in una notte d’inverno, nella foresta, respira l’improvvisa nebbia intiepidita dall’approssimarsi del nuovo clima. Una profonda credulità annuale s’impadronisce del mondo, libera troppo presto la voce degli uccelli, il volo dell’ape. Qualche ora appena, e ripiombiamo in quella comune condizione di miseria che ci vede costretti a sopportare l’inverno e ad aspettar la primavera…

     - Si gela qui! Pauline!

     - Ma certo, Madame. È naturale, non arriva così presto, la primavera.

…che non arriva mai secondo le nostre aspettative. Arriva – dicevamo da bambini – in automobile: rulla ed irrompe su un carro tonante, sferzato da grandi zigzag di folgori. Un altro anno, prima dell’alba, sparge vetri ovunque, sull’abbeveratoio delle galline, sul secchio ricolmo, fin nelle orme dei piedi del bestiame, sulla riva dello stagno. Non appena il sole li sfiora, essi esplodono in schegge di ghiaccio sottili e tinnanti, e la gelata, nell’istante in cui avremmo voluto rivelarle il nostro nome con la punta del dito, svanisce come l’impronta del respiro su uno specchio.

     Oppure, come nel giorno del mio ultimo matrimonio[3], una mattina la stagione novella spazza via tutto il buon lavoro d’aprile già inoltrato, riempie il cielo d’una lanugine grigia, che si discioglie in neve alla stregua d’un piumino forato. Del resto non faceva freddo, quel giorno; che neve soffice! S’attaccava agli amenti gialli dei noccioli, e cadeva così fitta che pregai il mio vecchio amico neo-sposo di fermare la macchina, per poter ascoltare il bisbiglio della neve sul letto delle foglie morte. È un mormorio molto dolce, e come sillabato. Ho cercato di descriverlo in più d’un’occasione. Paragonandolo alla bassa preghiera d’una folla orante rischio di fallire ancora una volta, soprattutto se dimentico di menzionare un altro fruscio che l’accompagna, lo accentua, come di pagine setose sfogliate diligentemente. Bella neve d’aprile… I caprifogli selvatici dei Vaux-de-Cernay la trattenevano ammonticchiata sulle loro piccole orecchie appena sbocciate, e l’acqua impetuosa delle fonti era d’un blu di colubro.

     Il menù del pranzo di nozze non disattese quel momento invernale della primavera. Prevedeva teneri zampetti di maiale cotti in pot-au-feu[4], rivestiti del loro lardo rosato e della loro cotenna, umettati del loro brodo, a sua volta esaltato da un po’ di sedano, un po’ di noce moscata, un po’ di rafano e dalle verdure più salutari, ancelle aromatiche della sovrana carne. Mangiammo anche delle crêpe… Ci si sposa senza champagne? Sì, se lo champagne cede il passo di fronte a uno di quegli incontri che rischiaravano le nostre trattorie francesi, nella fattispecie quello con un anonimo vino, fosco e dorato come un reliquiario spagnolo, capace di tener testa al maiale e ai formaggi…

     - Rieccomi qua! Che razza di tempo! Stai bene?

     - Benissimo.

     - Non starai lavorando, spero?

     - Dio me ne guardi! Al contrario, gioco.

…Un’altra volta, la primavera fa pensare a una rosa sommersa. Brilla sotto l’acqua, tutta allegri rovesci, muschi inondati in poche ore. Da un’unghia verde, sulla punta d’un ramo, gocciola senza fine una goccia, ancora una goccia e sempre una goccia, che alimenta il canto delle cascatelle sotterranee. L’embrione è acquoso, l’erba succosa, la corteccia si spacca, l’argilla sciropposa tradisce il piede. Ma un tenue lucore s’attacca a ogni piega delle acque straripate, in un istante l’iris si sguaina, e la pioggia si fa tiepida. Al crepuscolo, il fiume fuma come un falò di foglie secche…

     Una prima spuma verde s’incolla al fianco dei tronchi che guarda a nord-est, e nei nostri camini il fuoco s’agita, sbava, borbotta. Insidioso, un puzzo sale dalla cantina sino al pianterreno… “Da dove viene quest’odore?” Quest’odore viene da un barile ricolmo, alterato dalla primavera ammuffita, che da vino si trasforma in aceto. La botte ha partorito, troppo tardi, una “madre” enorme, sorta d’orribile polpo, violastro e gelatinoso…

     Gran clamore tra le casalinghe: “Il sidro è morto!” Emergono dalla dispensa, portando il lutto del sidro, brandendo un boccale colmo d’un succo fosco e torbido come la birra stagionata, e che ha perso tutte le sue virtù.

     Ogni cosa sa d’aspro, d’acre, di cetriolo invecchiato, residuo di mela, barbabietola insilata… È il tuo odore, primavera ammuffita! Ma, per quanto il sole e il vento si ricredano, tu resti il sentiero fertile e fangoso, l’impervia stradina che ci conduce al momento più bello dell’anno: il tempo di refrigerare le muffe, di servire, sul vassoio floreale del laurotino, un ultimo piccolo entremets d’effimeri scrosci, e la torrida primavera violenterà ogni sboccio.

     È quanto di più difficile vi sia da evocare. La agguanto con una gemma, un germe vermiforme, un viburno, e tiro verso di me, con circospezione… Sui campi nudi regnano il silenzio e il calore. Un popolo vario e impotente si trascina, svolazza, ricade. Deboli zampe che brancolano, zoppicano, ventri che strisciano; in ogni dove un insetto soccombe sul bordo della sorgente di vita, una larva lattiginosa imbianca il proprio sangue, la crisalide esplode come un baccello. Nelle tenebre del sottosuolo s’organizza un massacro. Davanti alla compiuta creatura una porta stava per schiudersi, e non si è schiusa… La furia di morire supererà quella di nascere?

     È la primavera arrostita, che scorcia l’erba e le lance del grano. Vento d’est, niente rugiada, il rosaio perde i suoi boccioli serrati, il ciliegio le sue ciliegie grinzose, il giovane aglio e lo scalogno sensibile avvizziscono; pietà per il fiore alato del pisello, che prega perché la pioggia lo tramuti in seme…

     A questa primavera veemente io sovrappongo ancora l’idea dell’amore, per ricordarmi soltanto la durezza interessata dello sguardo innamorato, il piccolo muso roseo dell’amore, il suo segreto linguaggio da corpo di guardia – quale modesta fanciulla, colma d’amore, non infama in cuor suo la propria rivale dandole del pidocchio e della vacca malata?… È strano che questa sorta di primavera sia ancora presente tra i miei trastulli misteriosi di donna anziana…

     - Che cosa guardi?

     - Gli aerei americani che passano. Un volo di pesci nella notte incombente… Attraversano le nuvole di pioggia come lo spinarello il suo nido fioccoso…

     Poiché è sempre prudente dissimulare. Confessare che si è impegnati esclusivamente a ricordare può ferire un innocente. E come potrei far credere a colui che m’interroga che, dopo settant’anni, rimpiango, con una forza e un’intolleranza tanto ostinate, una stagione, un cespuglio, un cielo, un paese, una possessione smisurata e inalienabile? Ritiriamoci, dunque, le mie defunte primavere ed io, dietro i grandi primi piani della mia falsa turbolenza, e troviamo riparo nella mia pazienza autentica.

     - Forse la gamba ti fa più male del solito?

     - Assolutamente no. Rifletto!

Rifletto. È tutto dire, ma è detto con un’enfasi comica sufficiente per rassicurare colui che si preoccupa. È davvero necessario dare il nome di pensieri a una passeggiata, a una contemplazione priva di mete e propositi, a una sorta di virtuosismo del ricordo che sono la sola a non considerare vano? Parto, mi precipito su una strada un tempo familiare, con la rapidità del mio antico passo; miro la grande quercia deforme, la misera fattoria in cui il sidro e le tartine di burro mi venivano generosamente centellinati. Ecco la biforcazione del sentiero giallo, i sambuchi d’un bianco cremoso, circondati da una tale quantità d’api che, a venti passi di distanza, si può intendere il loro suono di trebbiatrice da grano… Odo le faraone singhiozzare, la scrofa borbottare… È questo il mio metodo di lavoro… Poi, tutt’a un tratto, una lacuna mentale, il vuoto, l’abolizione, una perfetta somiglianza con quello che dev’essere, penso, il principio d’una morte, la strada perduta, sbarrata, cancellata… Non importa, mi sarò assai divertita in cammino.

     Non sempre mi diverto. Un’intera notte mi vede all’inseguimento d’una briciola, d’un nome, d’una parola, che neanche servono al mio lavoro. Uno sport, una sfida. Altri sventurati, scrittori, vanno a caccia allo stesso modo? L’oggetto perseguito mi guida bruscamente, abile quanto una selvaggina braccata dieci volte. Mi capita, perché si lasci raggiungere, di cantarlo: lui, le sue fumose omonimie, il suo ritmo vagamente intravisto. Se s’addormenta, dormo anch’io. Il mio riposo lo rende imprudente, e lo catturo al mattino, innocentemente assopito. Sveglia prima di lui, lo afferro… Mi piacerebbe molto, ad esempio, ritrovare il nome di quel viaggiatore che mi garantì che in Martinica – forse non è la Martinica – intorno al giorno di San Giovanni,  - ma potrebbe anche trattarsi d’un altro santo – la terra si ricopre in un solo giorno, - piuttosto in una notte di delirio – si ricopre di fiori rosa. È evidente che sono incerta, allo stesso tempo, sul luogo, sulla data, sull’ora, e non conosco neanche il nome dei fiori. Cosa dico, dei fiori? Del fiore. Un unico fiore, un rivestimento, uno strato di fiori, ogni pollice di terra spalancato in un sorriso fiorito…

      - Ho richiesto per te quel libro che volevi, lo avrai soltanto domani. Speravi d’averlo oggi?

Ma no, migliore amico mio. Tuttavia te lo lascio credere. A quest’ora non do che appuntamenti ineluttabili. A seconda che il mio letto, che mi segue fedele come la conchiglia la sua lumaca, occupi l’una o l’altra finestra, sia rivolto a sud o ad est, riesco o meno a scorgere certe stelle conosciute da un mio nipote, intenditore del cielo astronomico. Quando gli astri che mi ha menzionato sono inaccessibili alla mia vista, io li invento e inchiodo là dove non vi sono. Per chi si muove appena è facile, la nuca rovesciata, rimestare il firmamento e il suo ordine severo.

     - Qui non abbiamo l’Orsa Maggiore, ha osservato una delle mie vicine.

Poi afferma, con il medesimo tono sostenuto:

     - Nel primo arrondissement siamo molto svantaggiati dal punto di vista della pescheria.

     Piccoli fuochi aguzzi di stelle lontane, sconvolti e smarriti per una nuvola che li affumica, ampie palpitazioni dei pianeti, turbinio siderale… Mi manca la grande stella, Venere dall’umido bagliore. Mio nipote mi spiega per quale ragione sia, così spesso, inaccessibile alla nostra vista. Ma di lei amo ricordare solo ciò che piace agli ignoranti. Per esempio, che un tempo già tradiva l’uomo con gli occhi a lei rivolti, che non riconosceva, nella Venere della sera, lo scintillante Lucifero del mattino… Come diciamo: Venere s’alza, mentre invece ella s’appresta a coricarsi[5]…  Al suo terzo nome, Vespero, io associo, appendo, quello del mio declino. Un tempo risplendeva sulla mia infanzia, sembrava sorgere dai boschi di Moutiers, nel mezzo d’un limpido tramonto. Mio padre alzava il dito, esclamava: “Vespero!” e recitava dei versi. Poi piantava il fragile e minuto telescopio sul suo treppiede e rimirava le stelle…

     Presto arriva la stagione delle notti all’aperto: quella in cui il capezzale del mio letto viene incassato nella finestra spalancata. Dal giardino, se di notte non fosse chiuso, si potrebbe intravedere, tra i balaustri, quel nido arruffato che sono i miei capelli. Dormire fuori è una delle attrattive di questa casa. Le grosse gocce di pioggia accorrono da sud, il vento rabbuffa e semina i fogli, un uccello notturno grida. Tutto penetra e girovaga nella camera aperta, tutto ciò che le notti prodigano al cielo di luci, la luna estensibile, l’alba, il lampo e la stella – salvo il grande pianeta che attraversa invisibile i cieli di Parigi, nascosto dal sole e che s’immerge quasi nel suo stesso istante. A Vespero dai tre nomi, l’ancella del sole, io dedico i miei vespri, e leggo le sue avventure celesti:

     “Ogni otto anni, Venere si mostra con un bagliore talmente intenso che la si può veder brillare in pieno giorno, e di notte recar ombra, al pari della luna. Si ricorda ancora l’anno 1849…” Dizionario Universale, andate di fretta, ed io vorrei, come voi, giocare con la durata. Nel 1849, voi eravate una giovane enciclopedia di ventisette anni, e contemplavate Venere gloriosa, visibile da dicembre a maggio, mentre da disco diventava crescente. Raccontatemi, dunque, Dizionario canuto, raccontatemi come, il 4 aprile 1857, Venere di sera, Lucifero al mattino, “raggiunse il culmine della sua grandezza e del suo fulgore, poi corse rapidamente (sic) verso il punto della propria orbita, poi precipitò nei raggi del grande astro e scomparve con esso”.

      È così difficile sfuggire al lirismo, quando si parla di Venere… Perdendo ogni misura, il Grande Dizionario prosegue, invita i suoi lettori a non perdere i passaggi e gli apogei, distanziati di centotredici anni e mezzo… Voglio davvero provare, ma ho paura di non riuscire.


[1] A parlare è Pauline Tissandier, nata Vérine, (1902-1990), domestica premurosa e fedele amica di Colette. Entrata a servizio presso la scrittrice nella primavera del 1916, appena tredicenne, la buona Pauline la servirà amorevolmente per ben trentotto anni, assistendola sino al giorno della sua morte.

[2] Dietro il placido e discreto appellativo di meilleur ami, il cui ruolo esclusivo nella vita di Colette è sottolineato dalla presenza dell’aggettivo possessivo mon, si cela Maurice Goudeket (1899-1977). Conosciuto nel 1925 e diventato suo terzo ed ultimo marito dieci anni dopo, Goudeket condividerà quasi trent’anni della vita della scrittrice, rivelandosi suo amante, amico, sostegno, cavalier servente e premuroso amministratore della sua ricca  e coinvolgente opera.   

[3] Il matrimonio tra Colette e Maurice Goudeket fu celebrato il 3 aprile 1935, alle undici del mattino, presso il municipio dell’VIII arrondissement parigino. Il pranzo di nozze ebbe luogo presso una locanda chiamata “Au père Léopold”.

[4] Il pot-au-feu (letteralmente, “pentola al fuoco”) è un tradizionale piatto della cucina francese del nord, costituito da un bollito di manzo e verdure. Il sostantivo designa anche, per estensione, la pentola adibita alla cottura del lesso. 

[5] Sin dall’antichità il pianeta Venere è stato oggetto d’una scissione da parte della cultura popolare, che ne associava il bagliore a due diversi astri, identificati con due nomi distinti: Lucifero, stella del mattino, latore di luce nella fase aurorale,  e Vespero, stella della sera, visibile ad ovest dell’orizzonte, subito dopo il tramonto.

- Tu es bien?

- Très bien.

- Qu’est-ce que tu écris ?

- Oh ! rien. Je gratte du papier, et puis je déchire. Quand je ne peux pas faire, je défais.

Ce soir, le ciel se ferme, un souffle, par les hiatus des fenêtres, chante le dégel. Il est l’heure de croiser les rideaux usés par le soleil.

Mon compagnon soucieux va penser encore une fois que je m’ennuie. Les personnes valides croient toujours que de l’immobilité forcée naît l’ennui. C’est une grande erreur, dans laquelle sans doute je tomberais moi-même, si au lieu de pécher par une jambe je manquais de bras. Une infirmité se fait affligeante pendant sa première année, alors que chaque saison, presque chaque jour, nous instruit d’une contrainte nouvelle, nous demande un renoncement nouveau, l’aveu, de nous-même à nous-même, d’avoir secoué aujourd’hui la chaîne qui demain rivera. Le cycle de saisons accompli, reconnaître l’entrave de l’an dernier et sa marque, c’est déjà l’adopter comme un vêtement que son âge rend aimable. Que le mal nous façonne, il faut bien l’accepter. Mieux est de façonner le mal à notre usage, et même à notre commodité. C’est une manière d’exploitation à laquelle les jeunes, les robustes sont malhabiles, et je conçois bien qu’on leur fasse difficilement comprendre, par exemple, que la quasi-immobilité est un cadeau. Mais parlez-moi, pour un long mal, de l’enfant et du vieillard, qui sont égaux dans l’endurance, quand ils s’aperçoivent, de bonne foi, que ce qu’on nomme couramment « un martyre » se supporte plus aisément qu’une épine sous l’ongle ou qu’un mauvais panaris…

On vient de sonner.

- Madame, c’est un homme pas beau, qui a deux garenne pendus sous sa blouse. Il dit que ça vaut deux cents francs pièce, mais qu’il en laissera un à cent cinquante.

- Pourquoi ?

- Parce que c’est Madame.

Mais comment cet homme pas beau peut-il savoir que je suis moi, puisque j’ai tant de peine à le savoir moi-même ?

- Madame veut le voir ?

Non. Ni lui, ni le petit garenne à l’œil terne et bleui, marqué du lacet autour du cou. Que sur l’odorant passage de l’homme, authentique sauvage des forêts proches, secrètement porteur de têtes pendantes et plumes agglutinées, les chiens parisiens s’arrêtent, pétrifiés… Je ne verrai pas le petit garenne…

- Je sors.

- Par ce temps ! Je te plains.

- Tu es bien ? Tu n’attends personne ?

- Personne.

C’est une vérité relative. Je ne peux pourtant pas avouer à mon meilleur ami que j’attends le printemps. Qu’attendrais-je, sinon le printemps ? Je suis sa créancière, cette année. Il me doit son revenez-y d’automne, que nous n’avons pas eu, l’accès fébrile qui rallume les candélabres des marronniers, force les lilas en octobre et tire des ramures dénudées les feuilles imprévues, enfin la crise que nous appelons Été de la Saint-Martin. Car personne ne s’avise, deux fois la même année, de nommer printemps ce qui est printanier.

Le sentiment d’attente ne s’ajuste qu’au seul printemps. Avant lui, après lui nous escomptons la moisson, nous supputons la vendange, nous espérons le dégel. On n’attend pas l’été, il s’impose ; on redoute l’hiver. Pour le seul printemps nous devenons pareils à l’oiseau sous l’auvent de tuile, pareils au cerf lorsqu’une certaine nuit il respire, dans la forêt d’hiver, l’inopiné brouillard que tiédit l’approche du temps nouveau. Une profonde crédulité annuelle s’empare du monde, libère trop tôt la voix des oiseaux, le vol de l’abeille. Quelques heures, et nous retombons à la commune misère d’endurer l’hiver et d’attendre le printemps…

- On gèle ici ! Pauline !

- Bien sûr, Madame. C’est régulier, on n’est pas de sitôt au printemps.

… qui n’arrive jamais selon notre attente. Il arrive – disions-nous enfants – en voiture, c’est-à-dire qu’il roule et s’irrue sur un char de tonnerre, fouaillé par de grands zigzags de foudre. Une autre année, avant l’aube, il pose partout ses vitres, sur l’abreuvoir des poules, sur le seau plein, jusque dans les empreintes des pieds du bétail, au bord de la mare. Dès que le soleil les touche elles sautent en éclats de glace mince et tintante, et la gelée, au moment que nous voulions lui confier notre nom au bout du doigt, s’évanouit comme l’haleine sur un miroir.

Ou bien, comme le jour de mon dernier mariage, le renouveau efface un matin tout le bon travail d’avril déjà bien avancé, emplit le ciel d’une bourre grise qui se dénoue en neige comme un édredon crevé. Il ne faisait pas froid, d’ailleurs, ce matin-là : quelle moelleuse neige ! Elle s’accrochait aux minons jaunes des noisetiers, et tombait si serrée que je priai mon vieil ami le nouveau marié d’arrêter la voiture, pour que je pusse écouter le chuchotement de la neige sur le lit des feuilles mortes. C’est un murmure très doux, et comme syllabé. J’ai plus d’une fois cherché à le décrire. En le comparant à la prière basse d’une foule orante, je vais échouer encore une fois, surtout si j’oublie de mentionner qu’un autre bruissement l’accompagne, le souligne, comme de pages soyeuses feuilletées diligemment. Belle neige d’avril… Les chèvrefeuilles sauvages des Vaux-de-Cernay la retenaient amoncelée sur leurs petites oreilles nouvelles, et l’eau impétueuse des sources était d’un bleu de couleuvre.

Le menu du déjeuner de noces ne mentit pas à ce moment hivernal du printemps. Il comportait de fondants jambonneaux de cochon cuits en pot-au-feu, habillées de leur lard rosé et de leur couenne, mouillés de leur bouillon qui fleurait un peu le céleri, un peu la noix muscade, un peu le raifort et tous les sains légumes, serviteurs aromatiques de la maîtresse viande. Nous eûmes aussi des crêpes… Se marie-t-on sans champagne ? Oui, si le champagne s’efface devant une de ces rencontres qui ensoleillaient nos auberges françaises, en l’espèce celle d’un cru anonyme, sombre et doré comme une châsse espagnole, et qui tenait le coup devant le cochon et devant les fromages…

- Me revoilà. Quel temps ! Tu es bien ?

- Très bien.

- Tu ne travailles pas, j’espère ?

- Dieu m’en préserve ! Au contraire, je joue.

… Une autre fois, le renouveau fait songer à une rose immergée. Il brille sous l’eau, tout averses gaies, mousses crues en quelques heures. D’un ongle vert, au bout d’une branche, s’égoutte sans fin une goutte, encore une goutte et toujours une goutte, qui alimente le chant des cascatelles souterraines. L’embryon est aqueux, l’herbe jute, l’écorce fend, l’argile sirupeuse trahit le pied. Mais une sourde lueur s’attache à chaque pli des eaux débordées, en un moment l’iris se dégaine, et la pluie est tiède. Au crépuscule, la rivière fume comme un feu de fanes…

Une première écume verte se colle à la face des troncs qui regarde le nord-est, et dans nos cheminées le feu sue, bave et grommelle. Insidieuse, une odeur monte de la cave jusqu’au rez-de-chaussée… « Qu’est-ce qui sent comme ça ? » Ce qui sent comme ça, c’est un fût plein, que le printemps moisi dénature et qui de vin tourne en vinaigre. On accouche la barrique, trop tard, d’une « mère » énorme, sorte de poulpe horrible, violâtre et gélatineux…

Grande clameur chez les ménagères : « Le cidre est tué ! » Elles émergent du cellier, menant le deuil du cidre, brandissant un pichet plein d’un jus sombre et trouble comme la vieille bière, et qui a perdu toutes ses vertus.

Tout sent le sur, l’aigre, le cornichon hors d’âge, le marc de pomme, la betterave ensilée… C’est ton odeur, printemps moisi ! Mais pour peu que le soleil et le vent se ravisent, tu es pourtant le chemin fertile et vaseux, l’acide venelle qui nous mène au plus beau de l’année : le temps de réfrigérer les moisissures, de servir, sur la fleur en plateau du lauriertin, un dernier petit entremets de giboulée éphémère, et le printemps torride violentera toutes les éclosions.

C’est le plus difficile à évoquer. Je l’empoigne par un bourgeon, un genre vermiforme, une viorne, et je tire à moi, avec précaution… Sur les champs nus règnent le silence et la chaleur. Un peuple impotent et divers se traîne, volette, retombe. Des pattes débiles tâtonnent, boitent, des ventres rampent ; partout un insecte succombe au bord de la source de vie, une larve laiteuse rend son sang blanc, la chrysalide éclate comme une cosse. Un massacre s’organise dans les ténèbres du sous-sol. Devant la créature achevée une porte allait s’ouvrir, et ne s’est pas ouverte… La fureur de mourir va-t-elle surpasser celle de naître ?

C’est le printemps rôti, qui accourcit l’herbe et les lances du blé. Vent d’est, pas de rosée, le rosier perd ses boutons fermés, le cerisier ses cerises ridées, l’ail jeune, l’échalote sensible pâment, pitié pour la fleur ailée du pois, qui prie que la pluie la change en graine…

     À ce printemps véhément je superpose encore l’idée de l’amour, pour ne me rappeler que la dureté intéressée de la vue amoureuse, le petit groin rose de l’amour, son secret langage de corps de garde – quelle modeste jeune fille, habitée d’amour, ne flétrit in petto sa rivale en la traitant de gueule de pou et de vache malade ?… Il est étrange que cette sorte de printemps soit encore au nombre de mes récréations mystérieuses de femme âgée…

     - Qu’est-ce que tu regardes ?

     - Les avions américains qui passent. Un vol de poissons dans la nuit tombante… Ils traversent les nuages de pluie comme l’épinoche son nid floconneux…

     Car il est toujours prudent de dissimuler. Avouer que l’on n’est occupée qu’à se souvenir, c’est de quoi blesser un innocent. Et comment ferais-je croire à celui-ci, qui m’interroge, que passé soixante-dix ans je suis en train de regretter, avec une force et une intolérance si têtues, une saison, un buisson, un ciel, un pays, une possession sans mesure et inaliénable ? Retirons-nous donc, mes défunts printemps et moi, derrière les gros premiers plans de ma fausse turbulence, puis gagnons l’abri de ma patience authentique.

     - Mais tu ne souffres pas davantage de ta jambe ?

     - Pas question ! Je réfléchis !

     Je réfléchis. C’est beaucoup dire, mais c’est dit avec assez d’emphase comique pour que se rassure celui qui s’inquiète. Faut-il vraiment donner le nom de pensées à une promenade, à une contemplation sans buts ni desseins, à une sorte de virtuosité du souvenir que je suis la seule à ne pas juger vaine ? Je pars, je m’élance sur un chemin autrefois familier, à la vitesse de mon ancien pas ; je vise le gros chêne difforme, la ferme pauvre où le cidre et le beurre en tartines m’étaient généreusement mesurés. Voici la bifurcation du chemin jaune, les sureaux d’un blanc crémeux, environnés d’abeilles en nombre tel qu’on entends, à vingt pas, leur son de batteuse à blé… J’entends sangloter les pintades, grommeler la truie… C’est cela, ma méthode de travail… Puis, soudain, un trou mental, le vide, l’abolition, une ressemblance parfaite, je pense, avec ce que doit être le début d’une mort, la route perdue, barrée, effacée… N’importe, je me serai bien amusée en chemin.

     Je ne m’amuse pas toujours. Une nuit entière me voit à la poursuite d’une bribe, d’un nom, d’un mot, qui ne servent même pas mon travail. Un sport, un défi. D’autres malheureux, les écrivains, chassent-ils de même sorte ? L’objet poursuivi me mène rudement, il est aussi habile qu’un gibier traqué dix fois. Il m’arrive, pour qu’il se laisse rejoindre, de le chanter, lui, ses brumeuses homonymies, son rythme entrevu vaguement. S’il s’endort, je dors. Mon repos le rend imprudent, et je le capture au matin, innocemment assoupi. Éveillée avant lui, je le saisis… Je voudrais bien, par exemple, retrouver le nom de ce voyageur, qui m’assura qu’à la Martinique – peut-être n’est-ce pas la Martinique – vers la Saint-Jean, - mais il se peut que ce soit un autre saint – la terre se couvre en un seul jour, - plutôt en une nuit de délire – se couvre de fleurs roses. On voit que j’hésite ensemble sur le lieu, la date, l’heure, et je ne sais pas même le nom des fleurs. Que dis-je, des fleurs ? De la fleur. Une seule fleur, un revêtement, un enduit de fleurs, chaque pouce de terre s’ouvrant en bouche de fleur…

     - J’ai demandé pour toi ce livre que tu voulais, tu ne l’auras que demain. Tu comptais l’avoir aujourd’hui ?

     Mais non, mon meilleur ami. Pourtant je te le laisse croire. À cette heure je ne donne que des rendez-vous inéluctables. Selon que mon lit, qui me suit aussi fidèle qu’à l’escargot sa coquille, occupe l’une ou l’autre fenêtre, envisage le Sud ou l’Est, j’aperçois ou non certains astres qu’un mien neveu, familier du ciel astronomique, connaît. Quand les étoiles qu’il m’a nommées sont inaccessibles à ma vue, je les invente et les cloue où elles ne sont pas. À qui ne bouge guère il est aisé, la nuque renversée, de brasser le firmament et son ordre sévère.

     - Ici, nous n’avons pas de Grande-Ourse, a remarqué une de mes voisines.

     Du même ton pincé, elle dit :

     - Dans le premier arrondissement, nous sommes très désavantagés sous le rapport de la poissonnerie.

     Petits feux aigues des étoiles lointaines, affolés et perdus pour un nuage qui les enfume, palpitations larges des planètes, tournoiement sidéral… Il me manque la grande planète, Vénus à l’humide éclat. Le mien neveu m’explique pourquoi elle est si souvent inaccessible à notre vue. Mais je n’aime retenir d’elle que ce qui plaît aux ignorants. Par exemple qu’elle trompait déjà, autrefois, l’homme aux yeux levés vers elle, qui ne reconnaissait pas, dans Vénus du soir, le brasillant Lucifer du matin… Que nous disons : Vénus se lève, lorsqu’elle est près de son coucher… À son troisième nom, Vesper, j’associe, je suspends celui de mon propre déclin. Autrefois, elle resplendissait sur mon enfance, semblait surgir des bois de Moutiers, au milieu d’un couchant apaisé. Mon père levait le doigt, nommait : « Vesper ! » et récitait des vers. Puis il plantait le faible petit télescope sur son trépied et visait les étoiles…

     Bientôt vient la saison de coucher dehors, c’est-à-dire d’encastrer le chevet de mon lit dans la fenêtre ouverte. Du jardin, s’il n’était fermé la nuit, on pourrait voir entre les balustres mes cheveux en nid bourru. Coucher dehors est un des charmes de ce logis. Les grosses gouttes de pluie accourent du Sud, le vent rebrousse et sème les papiers, un nocturne crie. Tout pénètre et divague dans la chambre ouverte, tout ce que les nuits prodiguent au ciel de lumières, la lune extensible, l’aube, l’éclair et l’étoile – sauf la grande planète qui traverse invisible les ciels de Paris, effacée par le soleil et qui s’immerge presque en même temps que lui. À Vesper au trois noms, la suivante du soleil, je dédie mes propres vêpres, et je lis ses aventures célestes :

     « À chaque période de huit ans, Vénus se montre avec un si grand éclat qu’on peut la voir briller en plein jour, et la nuit porter ombre, comme la lune. On se rappelle encore l’année 1849… » Dictionnaire Universel, vous allez fort, et je voudrais, comme vous, jouer avec la durée. En 1849, vous étiez une jeune encyclopédie de vingt-sept ans, et vous contempliez Vénus glorieuse, visible de décembre à mai, durant que de disque elle passait croissant. Contez-moi donc, Dictionnaire chenu, contez-moi comment, le 4 avril 1857, Vénus du soir, Lucifer du matin « atteignit le maximum de sa grandeur et de son éclat, puis fila rapidement (sic) vers le point de son orbite, puis tomba dans les rayons du grand astre et disparut avec lui ».

     Tant il est difficile d’échapper au lyrisme, lorsqu’on parle de Vénus… Perdant toute mesure, le Grand Dictionnaire continue, invite ses lecteurs à ne point manquer les passages et les apogées, espacés de cent treize ans et demi… Je veux bien essayer, mais j’ai peur de ne pas réussir.

Comprendere Colette, L’Étoile Vesper: cenni sulla prosa colettiana

La particolarità della prosa colettiana, contraddistinta da un fascino ipnotico e misterioso, risiede, principalmente, nella sua condizione di materialità.

Per Colette le parole non sono semplici agglomerati di lettere latori di significato, ma vere e proprie proiezioni dell’oggetto da esse designato, aventi una loro dimensione tangibile, croccante, saporosa, persino sensuale, capaci di colmare il divario tra il mondo scritto e il mondo non scritto calviniani[1], poiché: ‘tra il reale e l’immaginato, si pone sempre la parola, la parola magnifica e più grande dell’oggetto’[2]. D’opera in opera Colette compie il prodigio di trasformare la vita in scrittura, attraverso la creazione d’un ‘alfabeto nuovo, che scrive la carne del mondo’[3] e rende sensibile ciò che, altrimenti, sarebbe appena leggibile. Una peculiarità, questa, ulteriormente confermata da Jean-Marie Gustave Le Clézio, secondo il quale ‘Colette, è la vita: si legge Colette e si dimentica la barriera del linguaggio scritto, l’autore, la cultura’[4].

Ne L’Etoile Vesper, scritto nel 1945 e ad oggi ancora inedito in Italia, quest’esigenza d’infondere vitalità alla scrittura diviene ancor più intima e pressante, per via dei vincoli imposti dall’età e dalla malattia di cui Colette è vittima. Costretta nella propria camera del Palais-Royal da un’artrite dell’anca pressoché paralizzante, la scrittrice ormai settantaduenne si troverà, infatti, a ideare un’acuta strategia per far fronte all’infermità della donna tout court. Sfruttando le proprie limitazioni fisiche come una contrainte oulipiana in grado d’affrancare lo spirito, ella trasfigurerà il mondo circostante per edificare un nuovo spazio vitale in cui muoversi liberamente: la propria opera.

Al fine di rivivere tra le pagine, Colette si fa artigiana d’una scrittura che chiede al lettore d’essere addentata e assaporata, stimolando i sensi di quest’ultimo attraverso suggestioni visive, ritmiche e sonore fondate, in modo più o meno conscio, sull’impiego d’immagini vive, di termini estremamente precisi, d’allitterazioni, assonanze e paronomasie, d’una punteggiatura che regola l’imprevedibile fluire delle linee del testo. L’Étoile Vesper è il risultato d’un labor limae minuzioso, d’un equilibrio lucido tra paratassi e ipotassi, in cui frasi folgoranti e lapidarie s’alternano a periodi lunghi e ingarbugliati, colmi d’accessi di lirismo improvvisi, governati da punti di sospensione, incisi, trattini semplici e doppi: tutti elementi atti a riprodurre i tortuosi percorsi della memoria.

Catapultato ex abrupto nella stanza di Colette, interrogata da un marito corsivo e di passaggio, il lettore potrà ascoltare i commenti di quest’ultima a proposito della sua attività di scrittrice, udrà i sospiri dovuti alla sua condizione d’inferma, sarà testimone auricolare delle incursioni del quotidiano nel suo vagabondaggio mentale tra passato e presente. Il conferimento della facoltà d’ascolto al lettore non è affatto casuale: quella de L’Etoile Vesper è innanzi tutto, una narrazione sonora, frutto d’un testo che si presenta come una partitura di parole, in cui ogni frase si trasforma in fraseggio secondo un ritmo interno che rende la prosa della vecchiaia colettiana un flusso incessante di pensieri e melodia. Il termine stesso di “ritmo” appare nell’opera di Colette in modo ricorrente, come a volerne sottolineare l’importanza fondamentale in seno al processo di scrittura, poiché: ‘ciò che mente al ritmo mente, quasi, all’essenza della creatura’[5] e, di conseguenza, all’essenza dell’opera stessa.

Tuttavia la nozione colettiana di ritmo non identifica una sequenza ordinata di lemmi aventi una cadenza subordinata a un’idea di metro: in Colette la disposizione ritmica della frase è vincolata al giudizio silenzioso dell’orecchio, che non si darà pace finché non si riterrà del tutto soddisfatto[6], in virtù della propria “infallibilità musicale”[7]. Del resto, come afferma Beda il Venerabile nel suo De metrica arte, scritto tra il 691 e il 703, benché non possa esservi metro senza ritmo, può nondimeno esservi ritmo senza metro: mentre il primo comporta una regia con variazioni, il secondo implica variazioni prive di qualunque forma di regia cosciente. Il ritmo colettiano rappresenta, dunque, l’incarnazione stessa della soggettività della scrittrice, confermandosi quello strumento d’investigazione poetica che Henri Meschonnic reputa essenziale[8] per individuare la specificità dell’opera intesa in quanto “omogeneità del dire e del vivere”[9].

Da L’Étoile Vesper a La Stella del Vespro: note di traduzione

Nel realizzare La Stella del Vespro, prima traduzione italiana de L’Etoile Vesper di cui, in questa sede, si presenta un estratto, è stato dunque necessario tener conto di quegli aspetti di materialità e musicalità che costituiscono, di concerto con l’icasticità delle immagini, l’unicità della scrittura di Colette, che si serve delle parole di tutti per scrivere come nessuno o, per meglio dire, come lei sola può scrivere[10].  

Una simile attitudine creatrice avvicina il lavoro della scrittrice a quello del poeta e costituisce, nello stesso tempo, una vera e propria sfida per il traduttore, chiamato a infondere nella sua opera questa specificità del tutto personale, conservandone la medesima naturalezza.

Per queste ragioni il criterio poetico teorizzato da Henri Meschonnic nella sua Poetica del tradurre[11] si è rivelato l’approccio più idoneo da adottare in vista d’una trasposizione italiana tesa alla ricerca d’una profonda corrispondenza ritmica con l’originale francese.

Il titolo scelto per la versione italiana dell’opera, La Stella del Vespro, rappresenta un esempio emblematico di tale volontà. Come si può constatare, la traduzione si è fondata sulla trasformazione del nome del pianeta Vesper nel complemento nominale ‘del Vespro’, producendo una scomposizione onomastica che, tuttavia, rispetta la dimensione poetica del titolo originale, esplicitata nella prima sezione del testo:

À Vesper aux trois noms, la suivante du soleil, je dédie mes propres vêpres.

Una dedica inequivocabile che, grazie all’assonanza tra Vesper e vêpres, sembra quasi evocare la traduzione italiana succitata, avvalorata dall’affinità etimologica che lega Vespero e il vespro, entrambi derivanti dal latino vesper.

Un’eventuale trasposizione letterale del titolo avrebbe comportato la perdita di quest’idea di sospensione, di questa tensione verso un punto di fuga irraggiungibile suscitata dalla natura ossitona del francese Vesper: producendo una cacofonia a causa dello scarto sillabico, l’italiano Vespero, inadeguato giacché proparossitono, avrebbe infatti ancorato a terra il lettore.  

L’eventuale alternativa offerta da La Stella della Sera avrebbe potuto rappresentare, dal canto suo, una soluzione all’insegna dell’eufonia implicando, però, la sparizione del rimando poetico a Vespero, permesso dall’impiego dell’italiano vespro, sinonimo letterario del sostantivo corrente sera. Nella scelta del titolo della trasposizione italiana de L’Étoile Vesper, la volontà di rispettare la componente di lirismo caratteristica di quest’opera della vecchiaia colettiana è stata dunque determinante, poiché:

Tant il est difficile d’échapper au lyrisme, lorsqu’on parle de Vénus…

Una frase, quasi una confessione, che sembra voler circoscrivere il tono distintivo d’un’opera suddivisa in tredici sezioni, a metà strada tra il capitolo e il poemetto in prosa, in cui la ristretta realtà che circonda la scrittrice subisce continue trasfigurazioni letterarie.

Nel mondo dell’anziana Colette l’apertura di finestre socchiuse si trasforma in iato, mentre un filo di vento annuncia il disgelo attraverso il canto d’una melodia di fricative labiodentali e alveolari sorde, ugualmente udibili nella traduzione italiana:

Ce soir, le ciel se ferme, un souffle, par le hiatus des fenêtres, chante le dégel. Il est l’heure de croiser les rideaux usés par le soleil.
Stasera, il cielo si chiude, un soffio, attraverso l’iato delle finestre, canta il disgelo. E’ ora d’accostare le tende consunte dal sole.

Non è un caso che nell’incipit del testo sia presente il verbo chanter, poiché l’udito è un senso latore di senso: la Colette anziana tende l’orecchio alla voce dei propri pensieri e, nell’ascoltarsi, chiede d’essere ascoltata.

Da immagini vigorose si sprigionerà allora un’incredibile potenza sonora, come in occasione dell’irresistibile venuta della primavera, - ancor più trascinante se letta pensando alle r vibranti della scrittrice, caratteristiche del suo accento borgognone - che

arrive […] en voiture, c’est-à-dire qu’il roule et s’irrue sur un char de tonnerre, fouaillé par de grands zigzags de foudre
arriva […] in automobile: rulla ed irrompe su un carro tonante, sferzato da grandi zigzag di folgori.

E da un’unghia verde, sulla punta d’un ramo, s’udrà l’anaforico gocciolare d’

une goutte, encore une goutte et toujours une goutte, qui alimente le chant des cascatelles souterraines.
una goccia, ancora una goccia e sempre una goccia, che alimenta il canto delle cascatelle sotterranee.

Mentre, al crepuscolo,

la rivière fume comme un feu de fanes…
il fiume fuma come un falò di foglie secche…

Tali esempi, estremamente significativi, mettono in luce la sonorità palpabile del discorso colettiano e si palesano in quanto spazio di movimento d’un corpo immobile, assorto nell’arduo tentativo di riprodurre  le vibrazioni della natura in forma scritta:

Quelle moelleuse neige ! […] Elle s’accrochait aux minons jaunes des noisetiers, et tombait si serrée que je priai mon vieil ami le nouveau marié d’ arrêter la voiture, pour que je puisse écouter le chuchotement de la neige sur le lit de feuilles mortes. C’est un murmure très doux, et comme syllabé. J’ai plus d’une fois cherché à le décrire. En le comparant à la prière basse d’une foule orante, je vais échouer encore une fois, surtout si j’oublie de mentionner qu’un autre bruissement l’accompagne, le souligne, comme de pages soyeuses feuilletées diligemment.

Il metodo di lavoro colettiano consiste, infatti, nella ricerca incessante della combinazione di parole perfetta, in cui il valore sonoro d’ogni lettera acquista un’importanza fondamentale, dando luogo a vere e proprie cacce al lemma:

Je ne m’amuse pas toujours. Une nuit entière me voit à la poursuite d’une bribe, d’un nom, d’un mot, qui ne servent même pas mon travail. […] L’objet poursuivi me mène rudement, il est aussi habile qu’un gibier traqué dix fois. Il m’arrive, pour qu’il se laisse rejoindre, de le chanter, lui, ses brumeuses homonymies, son rythme entrevu vaguement. S’il s’endort, je dors. Mon repos le rend imprudent, et je le capture au matin, innocemment assoupi. Eveillée avant lui, je le saisis…

Ecco, infine, un periodo in cui la presenza ricorrente di parole chiave quali chanter e rythme, conferma la validità dell’approccio traduttivo adottato in vista della trasposizione italiana de L’Étoile Vesper: la scrittura colettiana ha il vigore dell’oralità, scaturisce da un canto interiore riflesso nel movimento ritmico d’un testo che mira a tradurre i suoni del mondo, per restituirne la tangibilità al lettore.

La Stella del Vespro è il frutto d’un’esperienza di traduzione difficoltosa e suggestiva al tempo stesso: un processo arduo e lento, una ricerca meticolosa del mot juste, del son juste, volta all’armonizzazione dei sensi e dei suoni, all’accordo perfetto tra due lingue in marcia verso la scoperta d’un linguaggio unico nel suo genere, contraddistinto da quella stessa specificità ritmica che fa del francese ordinario il francese di Colette e dell’italiano ordinario… l’italiano di Colette.

Bibliografia parziale

Beaumont G. et Parinaud A., Colette, Seuil, Paris, 1973.

Benjamin W., Il compito del traduttore, Einaudi, Torino, 1976.

Calvino I., "Sul tradurre", (1963) e "Tradurre è il vero modo di leggere un testo", in Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano, 1995.

Calvino I., Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano, 2002.

Colette, Œuvres de Colette, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 2001.

Del Castillo M., Colette, une certaine France, Stock, Paris, 1999.

Ducrey G., L'ABCdaire de Colette, Flammarion, Paris, 2000.

Gauthier M., La Poïétique de Colette, Klincksieck, Paris, 1989.

Goudeket M., La Douceur de vieillir, Flammarion, Paris, 1965.

Houssa N., Le souci de l’expression chez Colette, Palais des Académies, Paris, 1958.

Kristeva J., Le Génie féminin 3, Colette, Fayard, Paris, 2002.

Meschonnic H., Pour la poétique I, Gallimard, Paris, 1970.

Meschonnic H., Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Verdier, Paris, 1982.

Meschonnic H., Poétique du traduire, Verdier, Paris, 1999.

Pichois C. e Brunet A., Colette, De Fallois, Paris, 1999.

Note

[1] Cf., a tal proposito, l’omonimo saggio d’Italo Calvino “Mondo scritto e mondo non scritto”, scritto nel 1983 e incluso nell’omonima raccolta Mondo scritto e mondo non scritto, Mondadori, Milano, 2002.

[2] ‘Entre le réel et l’imaginé, il y a toujours la place du mot, le mot magnifique et plus grand que l’objet’:  cf. Colette, « Provence », in Journal à rebours, Œuvres de Colette, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, V, 2001, p. 203.

[3] ‘Un “alphabet nouveau”, qui écrit la chair du monde’: cf. J. Kristeva, Le génie féminin, Tome 3, Colette, Fayard, Paris, 2002, p. 7.

[4] ‘Colette, c’est la vie : on lit Colette et on oublie la barrière du langage écrit, l'auteur, la culture’: cf. J.-M. Le Clézio, “Le Monde”, 25 gennaio 1973, in M. del Castillo, Colette, une certaine France, Stock, Paris, 1999, p.316.

[5] ‘Ce qui ment au rythme ment, presque, à l’essence de la créature’:  cf. Colette, Flore et Pomone, Œuvres de Colette, op. cit., IV, p. 527.

[6] Maurice Goudeket (1889-1977), ne La douceur de vieillir, Flammarion, Paris, 1965, p. 162, racconta come Colette si accanisse contro ‘le moindre bout de phrase qui ne satisfit son oreille’.

[7] La definizione di ‘musicale infaillibilité’ è di Germaine Beaumont (1890-1983), autrice di Colette, Seuil, Paris, 1951, p.19.

[8] Cf., a tal proposito, H. Meschonnic, Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Verdier, Paris, 1982.

[9] ‘Une œuvre est l'homogénéité du dire et du vivre’:  cf. H. Meschonnic, Pour la poétique I, Gallimard, Paris, 1970, p.27.

[10] Celebre è l’aforisma di Colette : ‘Il faut, avec les mots de tout le monde, écrire comme personne’.

[11] Secondo H. Meschonnic, soltanto una poetica della traduzione permette di non separare il linguaggio dalla letteratura, nel pieno rispetto della soggettività del testo scritto. Cf., a tal proposito,  H. Meschonnic, Poétique du traduire, Verdier, Paris, 1999.


©inTRAlinea & Chiara Carlino (2014).
"La Stella del Vespro". Translation from the work of Colette.
This translation can be freely reproduced under Creative Commons License.
Stable URL: https://www.intralinea.org/translations/item/2039

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