La terra desolata 2022
Translated by: Massimiliano Morini (University of Urbino "Carlo Bo", Italy)
The Wasteland by T. S. Eliot
Criterion n.1 (ottobre 1922)
I. LA SEPOLTURA DEI MORTI
Aprile è il mese più crudele; cresce
i lillà nella terra morta, mescola
ricordi e desideri, smuove
radici spente con pioggia primaverile.
L’inverno ci teneva caldi; copriva
la terra in neve smemorata, nutriva
un po’ di vita di tuberi secchi.
L’estate ci ha sorpresi sullo Starnbergersee
con un acquazzone; al colonnato, allora!
E più tardi, col sole, nell’Hofgarten,
a bere del caffè, un’ora di chiacchiere.
Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.
E da bambini, lì dall’arciduca,
mio cugino, mi portò fuori in slitta,
una paura! Marie, mi diceva,
Marie, tieniti stretta. E giù in picchiata.
In montagna sì che ti senti libero.
La notte per lo più leggo, e vado a sud d’inverno.
Che radici afferrano, che rami crescono
in questa pietraglia? Figlio dell’uomo,
non sai dirlo né intuirlo, sai solo
cocci di immagini dove batte il sole,
l’albero morto non dà riparo, il grillo tregua,
la pietra secca suono d’acqua. Solo
sotto questa roccia rossa c’è ombra,
(vieni all’ombra di questa roccia rossa)
e ti mostrerò una cosa diversa
dall’ombra che ti pedina al mattino
o che si leva la sera a incontrarti;
ecco – il terrore in un pugno di polvere.
Frisch weht der Wind
Der Heimat zu
Mein Irisch Kind,
Wo weilest du?
“I primi giacinti me li hai dati un anno fa;
mi chiamavano la ragazza dei giacinti.”
Ma di ritorno, tardi, dal giardino dei giacinti,
tu a braccia piene e capelli bagnati, io
muto, la vista annebbiata, non ero
né vivo né morto, e niente sapevo,
guardavo il cuore della luce, il silenzio.
Oed’ und leer das Meer.
Madame Sosostris, nota cartomante,
aveva un brutto raffreddore, eppure
ha fama di donna più saggia d’Europa,
col suo mazzo diabolico. “Ecco”, disse,
“il marinaio fenicio affogato,
(Erano i suoi occhi, quelle perle. Guarda!)
e Belladonna, Dama delle Rocce,
signora delle situazioni.
E l’uomo con tre aste, e qui la Ruota,
e poi il mercante guercio, e questa carta
bianca è qualcosa che si porta in groppa
che mi è proibito vedere. Non trovo
l’Impiccato. Attento alla morte in acqua.
Vedo folle che procedono in cerchio.
Grazie. Mi saluti nel caso Mrs Equitone
e dica che le porto l’oroscopo a casa.
La prudenza non è mai troppa, oggigiorno”.
Città irreale
sotto la nebbia bruna di un’alba invernale
c’era una folla sul London Bridge, tanti
che non credevo morte ne avesse disfatti.
Ne esalavano brevi e radi sospiri.
Fluiva con lo sguardo fisso ai piedi
in salita e poi giù, King William Street,
fino ai rintocchi di Saint Mary Woolnoth,
sonori i primi otto, il nono morto.
Lì vidi un conoscente, e gridai: “Stetson!
Tu che eri con me sulle navi a Mylae!
Il morto che hai piantato l’anno scorso,
cresce, in giardino? Fiorirà quest’anno?
O lo ha già rinsecchito la gelata?
Non farci avvicinare l’amico dell’uomo,
il cane, o lo dissotterrerà di nuovo!
Tu! Hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!”
II. PARTITA A SCACCHI
La sedia di lei, come un trono brunito
splendente sul marmo dove lo specchio
sopra colonne intarsiate di tralci
da cui sbirciava un Cupido dorato
(un altro si copriva gli occhi con un’ala),
sdoppiava fiamme (candelabri a sette bracci)
e rifletteva la luce sul tavolo
che incrociava il brillio dei suoi gioielli
riproiettato da astucci di raso;
fiale d’avorio e vetro colorato
diffondevano strani sintetici profumi,
unguenti, ciprie, liquidi, a confondere
sensi annegati negli odori; smossi
dall’aria fresca di fuori ascendevano
a ingrossare lunghi lumi di candela,
soffiando fumo in mezzo ai laquearia,
dando vita al soffitto a cassettoni.
Legno sottomarino fatto in rame
Ardeva verde e arancio in pietra colorata,
luce triste con delfino scolpito.
Sul camino antiquario troneggiava,
come in finestra su scena silvana,
Filomela in procinto, dal re barbaro
brutalmente forzata, di mutare. L’usignolo
empiva il deserto di voce inviolabile,
ma quella urlava, e ancora il mondo insiste,
“Giù, giù” a orecchie sconce, o sono sventole.
E altri ceppi di tempo rinsecchito
Parlavano sui muri; occhi sbarrati,
forme chine azzittivano la stanza,
e dalle scale un sentore di passi.
E a quel fuoco e alla spazzola, i capelli
di lei davano in punte fiammeggianti,
lumi verbali e feroci silenzi.
“Stasera ho i nervi a pezzi. Stai con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A cosa pensi? Cosa? A cosa pensi?
Non ho mai idea di cosa pensi. Pensa!”
Penso che siamo nel vicolo dei topi
dove i morti hanno lasciato le ossa.
“E quel rumore?”
Il vento sotto la porta.
“E adesso? Cosa sta facendo il vento?”
Ma niente, ti dico, niente.
“E non sai
niente? Non vedi niente? Non ti ricordi
niente?”
Mi ricordo
Che erano i suoi occhi, quelle perle.
“Sei vivo o morto? Non hai niente, in testa?”
Ma
o o o oooh, quel Rag Sha-ke-spi-rianooo
così elegante
e intelligente
“E adesso cosa faccio? Cosa faccio?
Esco così, di corsa, per la strada
coi capelli sciolti, così. E domani?
Cosa mai faremo?”
L’acqua calda alle dieci.
E se piove, un’auto chiusa alle quattro.
E ci faremo una partita a scacchi,
premendo occhi senza palpebre finché bussano alla porta.
Quando ha finito il soldato, il marito di Lil –
c’ho detto, che io le cose le dico in faccia,
FINITE CHE SI CHIUDE
Prima che torni Albert, fatti un po’ bella.
Che poi ti chiede, e i soldi che ti ho dato
per i denti? Ce li ha dati, io c’ero.
Cavali, fatti una bella dentiera,
zio buono, fa, non ti si può guardare.
Ha ragione, faccio io, poveraccio,
oh, quattr’anni di naia, si vuol divertire,
se non ci pensi te ci pensa un’altra.
Ah davvero, mi fa lei, e io, sì.
Ho capito, fa lei, e mi guarda storto.
FINITE CHE SI CHIUDE
Allora, faccio, se non ti va tienilo.
Poi non venire a piangere se un’altra...
Che se ti molla te la sei cercata.
Guardati lì, sembri un pezzo di antiquariato.
(E c’ha solo trentun anni.)
Cosa ci posso fare, e mi fa il muso,
son le pillole che prendo per cavarlo.
(Cinque, e l’ultimo a momenti la accoppa.)
Me le han date in farmacia, ma non mi rifaccio più.
Sei proprio scema, faccio io.
Se Albert non ti lascia stare, del resto –
cosa ti sposi a fare se non vuoi bambini?
FINITE CHE SI CHIUDE
Domenica cosciotto, c’era Albert.
Mi hanno invitato a cena, è buono caldo –
FINITE CHE SI CHIUDE
FINITE CHE SI CHIUDE
Buonanotte Bill. Notte Lou. Notte May. Notte.
Ciao ciao. Buonanotte. Buonanotte.
Buonanotte, signore, notte, care signore, notte, buonanotte.
III. IL SERMONE DEL FUOCO
La tenda del fiume è rotta: le ultime dita di foglie
affondano nel fango a riva. Il vento
va inaudito per la terra bruna. Le ninfe, partite.
Vai piano, buon Tamigi, mentre canto.
Il fiume non porta bottiglie, incarti,
fazzoletti, cartoni, mozziconi
o altri resti di sere estive. Le ninfe, partite.
E i loro amici, eredi sfaccendati della city,
partiti senza lasciare indirizzi.
Sulle rive del Lemano mi sedetti a piangere...
Vai piano, buon Tamigi, mentre canto;
piano, che parlo piano e non sto tanto.
Ma alle mie spalle un vento freddo, ed ecco,
scricchiare d’ossa, un ghigno orecchio a orecchio.
Un ratto strisciava lento tra l’erba,
ventre viscido strascicato a riva,
mentre pescavo sul canale grigio
una sera d’inverno, dal gasometro,
testa al naufragio del re mio fratello
e di mio padre re prima di lui.
Corpi bianchi nudi su terra umida,
ossa sparse in una bassa soffitta –
le fa scrocchiare il ratto, di anno in anno.
Ma alle mie spalle che rumore fanno
i clacson e le auto per portare
a primavera Sweeney dalla Porter.
Oh, sopra Mrs Porter, luna, brilla
e su sua figlia
che si lavano i piedi in acqua frizza
Et O Ces voix d’enfants, chantant dans la coupole!
Cip cip cip
giù giù giù giù giù
brutalmente forzata.
Tiriù.
Città irreale,
nebbia bruna di un meriggio invernale,
Mr Eugenides, mercante a Smirne,
barba incolta, uva passa nelle tasche,
C.i.f. Londra, documenti a vista,
mi ha invitato in francese demotico
a “colazione” al Cannon Street Hotel
poi fine settimana al Metropole.
Quando all’ora violetta schiena ed occhi
non son più in asse con la scrivania, e il motore umano
aspetta come un taxi pulsa e aspetta,
io, Tiresia, pur cieco, pulsante fra due vite,
vecchio con mammelle avvizzite, vedo –
l’ora violetta della sera invita
il marinaio a casa che ora è al largo –
la dattilografa che torna, accende
fornelli, assetta, ed apre scatolette.
Sul davanzale, arditamente stese,
si asciugano le sue combinazioni.
A mucchi sul divano, che è anche letto,
pantofole, corsetti, canottiere.
Io, vecchio con mammelle da signora,
ho osservato la scena e visto il resto,
previsto anch’io quell’ospite previsto.
Lui, giovane foruncoloso, arriva,
sguardo ardito, agentino immobiliare
da poco a cui la sicumera dona
come la seta in testa a un arricchito.
Il momento gli pare sia propizio,
pasto finito, lei stanca, annoiata,
e quindi la sollecita a carezze
non respinte, ancorché indesiderate.
Accaldato e deciso, va all’assalto;
la mano esplora, lei non si lamenta;
la vanità di lui non chiede altro,
fa un benvenuto dell’indifferenza.
(E io, Tiresia, ho presofferto tutto
sullo stesso divano barra letto,
io ch’ero a Tebe, là sopra le mura,
e camminai fra gli ultimi dei morti.)
Concede un piccolo bacio finale
E se ne va a tentoni sulle scale...
Lei si rivolge un attimo allo specchio,
semincosciente della dipartita.
Le formula, il cervello, questo a mezzo:
“È fatta: son contenta che è finita”.
Quando donna gentil si abbassa a questo
Perlustra la sua stanza vuota e afona,
poi si riavvia i capelli con un gesto
da automa, e mette un disco sul grammofono.
“Questa musica arriva dalle acque”
e dallo Strand, via Queen Victoria Street.
Città, città, io certe volte sento,
stando davanti a un pub di Lower Thames Street,
i lai gradevoli di un mandolino
e trapestii e chiacchiere da dentro
di pescaioli a pranzo ove le mura
di Magnus Martyr splendono
di inesplicabili bianco ed oro ionici.
Il fiume suda
nafta e catrame
le chiatte scivolano
con la marea che gira
vele rosse
spiegate
sottovento tendono alberi pesanti.
Le chiatte spingono
tronchi alla deriva
per l’ansa di Greenwich
oltre l’Isola dei cani
Weialala leia
Wallala leialala
Elizabeth e Leicester
batter di remi
la poppa una
conchiglia dorata
rosso e oro
brusche ondate
sulle due rive
vento di sudovest
si trascinava
le scampanate
le torri bianche
Weialala leia
Wallala leialala
“Tram, polvere sugli alberi.
Highbury mi fe’, disfecemi Richmond,
e Kew. A Richmond alzai le ginocchia
supina dentro a un’angusta canoa”.
“Ho i piedi a Moorgate, il cuore lo tengo
sotto i tacchi. Lui poi mi fa, piangendo,
‘Ricominciamo da zero. Mi impegno.’
Io zitta. Con chi vuoi che me la prenda?”
“Spiaggia di Margate.
Mi si connette
niente con niente.
Mani sporche, unghie rotte.
I miei, gente modesta, che si aspetta
niente.”
la la
Poi venni a Cartagine
Fuoco fuoco fuoco fuoco
Oh Signore tu mi cogli
Oh Signore tu cogli
fuoco
IV. MORTE IN ACQUA
Phlebas fenicio, mezzo mese morto,
non sa di gridi di gabbiani e onde,
di perdite e profitti.
Sott’acqua una corrente
sussurra e lo disossa. Su, poi giù,
riattraversa vecchiaia e gioventù
entrando nel gorgo.
Giudeo, Gentile,
tu che giri il timone e studi il vento,
considera Phlebas, che come te era bello e alto.
V. QUEL CHE DISSE IL TUONO
Dopo le torce rosse e i volti madidi
dopo i silenzi gelidi in giardino
finita l’agonia in mezzo alle rocce
con pianti e strepiti
la prigione, il palazzo ed il riverbero
del tuono a primavera, là sui monti,
colui che già era vivo adesso è morto
noi che eravamo vivi, moribondi,
basta un po’ di pazienza.
Qui non c’è acqua, solo roccia,
roccia e non acqua e la strada sabbiosa
strada che piega su fra le montagne
montagne fatte di roccia senz’acqua
acqua, fermarsi a berla, se ci fosse
non si può ragionare fra le rocce
sudore secco, piedi nella sabbia
ci fosse qualche goccia fra le rocce
morte, bocche cariate che non sputano
non puoi stenderti o metterti seduto
non c’è neanche silenzio qui fra i monti
ma tuono secco sterile e non pioggia
e non c’è solitudine fra i monti
ma ringhi e ghigni in facce rosse arcigne
da dentro il fango secco delle case
ci fosse acqua
e non roccia
e poi acqua
e acqua
sorgente
pozza nella roccia
anche solo suono d’acqua
non la cicala
e canto d’erba secca
ma suono d’acqua sulla roccia
il tordo eremita canta fra i pini
tip tap tip tap tap tap tap
ma non c’è acqua.
Chi è il terzo che sta sempre lì al tuo fianco?
Quando conto ci siamo solo io e te
ma se guardo alla strada bianca, avanti,
c’è sempre un altro che ti cammina a fianco,
avanza avvolto in un mantello bruno
e ha il cappuccio, non so se è uomo o donna
ma chi si muove in silenzio al tuo fianco?
Cos’è questo suono alto nell’aria
mormorio lamentazione materna
quali orde incappucciate invadono
piane infinite, inciampano in terra crepata
nel tondo vuoto del piatto orizzonte
Che città c’è lì sopra le montagne
crepa e ricresce e scoppia nel violetto
torri precipiti
Gerusalemme Atene Alessandria
Vienna Londra
irreale
Scostandosi la lunga chioma nera
la donna fece sussurrare corde
e bimbi-pipistrelli nel violetto
con un fischio e un batter d’ali
si misero a strisciare per il muro
a testa in giù per aria c’eran torri
e campane memorate e rintocchi
e canti da cisterne vuote e pozzi esausti.
In questa buca ammuffita tra i monti
poco lume di luna, e l’erba canta
fra lapidi cadute e la cappella
c’è la cappella vuota, casa solo al vento.
Non ha finestre, la porta sbatacchia.
Le ossa secche non fan male a nessuno.
Solo un gallo sulla trave del tetto
chi chi ri chi chi chi ri chi
in un lampo. Poi una botta di vento
che porta pioggia
Il Gange era infossato, foglie flaccide
in attesa di pioggia, nubi nere
addossate laggiù sull’Himavant.
Giungla acquattata in agguato.
Poi parlò il tuono
DA
Datta: che abbiamo dato?
Amico, sangue che mi agita il cuore
lo spaventoso momento di resa
che una vita di prudenza non cancella
per questo e non altro siamo esistiti
ma non lo trovi in nessun necrologio
o in ricordi filati da ragni benevoli
sigilli rotti da scarni notai
nelle nostre stanze vuote
DA
Dayadhvam: ho sentito la chiave girare
nella porta una volta e una sola
4pensiamo alla chiave, ognuno in prigione
e pensare alla chiave fa la prigione
ma al calar della notte, voci eteree,
si rianima un attimo Coriolano finito
DA
Damyata: la barca rispondeva
lieta alla mano esperta di vele e remi
calmo il mare, il tuo cuore avrebbe risposto
lieto all’invito, battendo obbediente
alle mani in controllo
Mi son seduto a riva
a pescare, la piana arida dietro
ma almeno, sistemare le mie terre?
casca Londra casca il mondo casca la terra
Poi s’ascose nel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon – Oh rondine, rondine
Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie
I miei cocci a fermare le rovine
Ci penso io. Geronimo rifà il matto.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih
Il testo di partenza non è incluso in questa pubblicazione perché il testo d'arrivo è presentato come (parzialmente) indipendente, e perché non rientra nell'autorizzazione data da Faber & Faber e dall'Estate of T.S. Eliot. Si fa presente ai lettori che mentre The Waste Land è ancora coperta da diritti d'autore in Europa, questi diritti sono scaduti negli Stati Uniti d'America. Il testo di T.S. Eliot si trova perciò pubblicato su siti come poetryfoundation.org; e la versione su cui è basata La terra desolata 2022 (quella pubblicata sul n. 1 del Criterion, ottobre 1922), in particolare, si può leggere in versione fotostatica su archive.org.
I. LA SEPOLTURA DEI MORTI
Aprile è il mese più crudele; cresce i lillà nella terra morta, mescola ricordi e desideri, smuove radici spente con pioggia primaverile. L’inverno ci teneva caldi; copriva la terra in neve smemorata, nutriva un po’ di vita di tuberi secchi. L’estate ci ha sorpresi sullo Starnbergersee con un acquazzone; al colonnato, allora! E più tardi, col sole, nell’Hofgarten, a bere del caffè, un’ora di chiacchiere. Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch. E da bambini, lì dall’arciduca, mio cugino, mi portò fuori in slitta, una paura! Marie, mi diceva, Marie, tieniti stretta. E giù in picchiata. In montagna sì che ti senti libero. La notte per lo più leggo, e vado a sud d’inverno.
Che radici afferrano, che rami crescono in questa pietraglia? Figlio dell’uomo, non sai dirlo né intuirlo, sai solo cocci di immagini dove batte il sole, l’albero morto non dà riparo, il grillo tregua, la pietra secca suono d’acqua. Solo sotto questa roccia rossa c’è ombra, (vieni all’ombra di questa roccia rossa) e ti mostrerò una cosa diversa dall’ombra che ti pedina al mattino o che si leva la sera a incontrarti; ecco – il terrore in un pugno di polvere.
Frisch weht der Wind Der Heimat zu Mein Irisch Kind, Wo weilest du?
“I primi giacinti me li hai dati un anno fa; mi chiamavano la ragazza dei giacinti.” Ma di ritorno, tardi, dal giardino dei giacinti, tu a braccia piene e capelli bagnati, io muto, la vista annebbiata, non ero né vivo né morto, e niente sapevo, guardavo il cuore della luce, il silenzio.
Oed’ und leer das Meer.
Madame Sosostris, nota cartomante, aveva un brutto raffreddore, eppure ha fama di donna più saggia d’Europa, col suo mazzo diabolico. “Ecco”, disse, “il marinaio fenicio affogato, (Erano i suoi occhi, quelle perle. Guarda!) e Belladonna, Dama delle Rocce, signora delle situazioni. E l’uomo con tre aste, e qui la Ruota, e poi il mercante guercio, e questa carta bianca è qualcosa che si porta in groppa che mi è proibito vedere. Non trovo l’Impiccato. Attento alla morte in acqua. Vedo folle che procedono in cerchio. Grazie. Mi saluti nel caso Mrs Equitone e dica che le porto l’oroscopo a casa. La prudenza non è mai troppa, oggigiorno”.
Città irreale sotto la nebbia bruna di un’alba invernale c’era una folla sul London Bridge, tanti che non credevo morte ne avesse disfatti. Ne esalavano brevi e radi sospiri. Fluiva con lo sguardo fisso ai piedi in salita e poi giù, King William Street, fino ai rintocchi di Saint Mary Woolnoth, sonori i primi otto, il nono morto. Lì vidi un conoscente, e gridai: “Stetson! Tu che eri con me sulle navi a Mylae! Il morto che hai piantato l’anno scorso, cresce, in giardino? Fiorirà quest’anno? O lo ha già rinsecchito la gelata? Non farci avvicinare l’amico dell’uomo, il cane, o lo dissotterrerà di nuovo! Tu! Hypocrite lecteur! – mon semblable, – mon frère!”
II. PARTITA A SCACCHI
La sedia di lei, come un trono brunito splendente sul marmo dove lo specchio sopra colonne intarsiate di tralci da cui sbirciava un Cupido dorato (un altro si copriva gli occhi con un’ala), sdoppiava fiamme (candelabri a sette bracci) e rifletteva la luce sul tavolo che incrociava il brillio dei suoi gioielli riproiettato da astucci di raso; fiale d’avorio e vetro colorato diffondevano strani sintetici profumi, unguenti, ciprie, liquidi, a confondere sensi annegati negli odori; smossi dall’aria fresca di fuori ascendevano a ingrossare lunghi lumi di candela, soffiando fumo in mezzo ai laquearia, dando vita al soffitto a cassettoni. Legno sottomarino fatto in rame Ardeva verde e arancio in pietra colorata, luce triste con delfino scolpito. Sul camino antiquario troneggiava, come in finestra su scena silvana, Filomela in procinto, dal re barbaro brutalmente forzata, di mutare. L’usignolo empiva il deserto di voce inviolabile, ma quella urlava, e ancora il mondo insiste, “Giù, giù” a orecchie sconce, o sono sventole. E altri ceppi di tempo rinsecchito Parlavano sui muri; occhi sbarrati, forme chine azzittivano la stanza, e dalle scale un sentore di passi. E a quel fuoco e alla spazzola, i capelli di lei davano in punte fiammeggianti, lumi verbali e feroci silenzi.
“Stasera ho i nervi a pezzi. Stai con me. Parlami. Perché non parli mai? Parla. A cosa pensi? Cosa? A cosa pensi? Non ho mai idea di cosa pensi. Pensa!”
Penso che siamo nel vicolo dei topi dove i morti hanno lasciato le ossa.
“E quel rumore?” Il vento sotto la porta. “E adesso? Cosa sta facendo il vento?” Ma niente, ti dico, niente. “E non sai niente? Non vedi niente? Non ti ricordi niente?”
Mi ricordo Che erano i suoi occhi, quelle perle. “Sei vivo o morto? Non hai niente, in testa?” Ma o o o oooh, quel Rag Sha-ke-spi-rianooo
così elegante e intelligente
“E adesso cosa faccio? Cosa faccio? Esco così, di corsa, per la strada coi capelli sciolti, così. E domani? Cosa mai faremo?” L’acqua calda alle dieci. E se piove, un’auto chiusa alle quattro. E ci faremo una partita a scacchi, premendo occhi senza palpebre finché bussano alla porta.
Quando ha finito il soldato, il marito di Lil – c’ho detto, che io le cose le dico in faccia, FINITE CHE SI CHIUDE Prima che torni Albert, fatti un po’ bella. Che poi ti chiede, e i soldi che ti ho dato per i denti? Ce li ha dati, io c’ero. Cavali, fatti una bella dentiera, zio buono, fa, non ti si può guardare. Ha ragione, faccio io, poveraccio, oh, quattr’anni di naia, si vuol divertire, se non ci pensi te ci pensa un’altra. Ah davvero, mi fa lei, e io, sì. Ho capito, fa lei, e mi guarda storto. FINITE CHE SI CHIUDE Allora, faccio, se non ti va tienilo. Poi non venire a piangere se un’altra... Che se ti molla te la sei cercata. Guardati lì, sembri un pezzo di antiquariato. (E c’ha solo trentun anni.) Cosa ci posso fare, e mi fa il muso, son le pillole che prendo per cavarlo. (Cinque, e l’ultimo a momenti la accoppa.) Me le han date in farmacia, ma non mi rifaccio più. Sei proprio scema, faccio io. Se Albert non ti lascia stare, del resto – cosa ti sposi a fare se non vuoi bambini? FINITE CHE SI CHIUDE Domenica cosciotto, c’era Albert. Mi hanno invitato a cena, è buono caldo – FINITE CHE SI CHIUDE FINITE CHE SI CHIUDE Buonanotte Bill. Notte Lou. Notte May. Notte. Ciao ciao. Buonanotte. Buonanotte. Buonanotte, signore, notte, care signore, notte, buonanotte.
III. IL SERMONE DEL FUOCO
La tenda del fiume è rotta: le ultime dita di foglie affondano nel fango a riva. Il vento va inaudito per la terra bruna. Le ninfe, partite. Vai piano, buon Tamigi, mentre canto. Il fiume non porta bottiglie, incarti, fazzoletti, cartoni, mozziconi o altri resti di sere estive. Le ninfe, partite. E i loro amici, eredi sfaccendati della city, partiti senza lasciare indirizzi. Sulle rive del Lemano mi sedetti a piangere... Vai piano, buon Tamigi, mentre canto; piano, che parlo piano e non sto tanto. Ma alle mie spalle un vento freddo, ed ecco, scricchiare d’ossa, un ghigno orecchio a orecchio.
Un ratto strisciava lento tra l’erba, ventre viscido strascicato a riva, mentre pescavo sul canale grigio una sera d’inverno, dal gasometro, testa al naufragio del re mio fratello e di mio padre re prima di lui. Corpi bianchi nudi su terra umida, ossa sparse in una bassa soffitta – le fa scrocchiare il ratto, di anno in anno. Ma alle mie spalle che rumore fanno i clacson e le auto per portare a primavera Sweeney dalla Porter.
Oh, sopra Mrs Porter, luna, brilla e su sua figlia che si lavano i piedi in acqua frizza Et O Ces voix d’enfants, chantant dans la coupole!
Cip cip cip giù giù giù giù giù brutalmente forzata. Tiriù.
Città irreale, nebbia bruna di un meriggio invernale, Mr Eugenides, mercante a Smirne, barba incolta, uva passa nelle tasche, C.i.f. Londra, documenti a vista, mi ha invitato in francese demotico a “colazione” al Cannon Street Hotel poi fine settimana al Metropole.
Quando all’ora violetta schiena ed occhi non son più in asse con la scrivania, e il motore umano aspetta come un taxi pulsa e aspetta, io, Tiresia, pur cieco, pulsante fra due vite, vecchio con mammelle avvizzite, vedo – l’ora violetta della sera invita il marinaio a casa che ora è al largo – la dattilografa che torna, accende fornelli, assetta, ed apre scatolette. Sul davanzale, arditamente stese, si asciugano le sue combinazioni. A mucchi sul divano, che è anche letto, pantofole, corsetti, canottiere. Io, vecchio con mammelle da signora, ho osservato la scena e visto il resto, previsto anch’io quell’ospite previsto. Lui, giovane foruncoloso, arriva, sguardo ardito, agentino immobiliare da poco a cui la sicumera dona come la seta in testa a un arricchito. Il momento gli pare sia propizio, pasto finito, lei stanca, annoiata, e quindi la sollecita a carezze non respinte, ancorché indesiderate. Accaldato e deciso, va all’assalto; la mano esplora, lei non si lamenta; la vanità di lui non chiede altro, fa un benvenuto dell’indifferenza. (E io, Tiresia, ho presofferto tutto sullo stesso divano barra letto, io ch’ero a Tebe, là sopra le mura, e camminai fra gli ultimi dei morti.) Concede un piccolo bacio finale E se ne va a tentoni sulle scale...
Lei si rivolge un attimo allo specchio, semincosciente della dipartita. Le formula, il cervello, questo a mezzo: “È fatta: son contenta che è finita”. Quando donna gentil si abbassa a questo Perlustra la sua stanza vuota e afona, poi si riavvia i capelli con un gesto da automa, e mette un disco sul grammofono.
“Questa musica arriva dalle acque” e dallo Strand, via Queen Victoria Street. Città, città, io certe volte sento, stando davanti a un pub di Lower Thames Street, i lai gradevoli di un mandolino e trapestii e chiacchiere da dentro di pescaioli a pranzo ove le mura di Magnus Martyr splendono di inesplicabili bianco ed oro ionici.
Il fiume suda nafta e catrame le chiatte scivolano con la marea che gira vele rosse spiegate sottovento tendono alberi pesanti. Le chiatte spingono tronchi alla deriva per l’ansa di Greenwich oltre l’Isola dei cani Weialala leia Wallala leialala
Elizabeth e Leicester batter di remi la poppa una conchiglia dorata rosso e oro brusche ondate sulle due rive vento di sudovest si trascinava le scampanate le torri bianche Weialala leia Wallala leialala
“Tram, polvere sugli alberi. Highbury mi fe’, disfecemi Richmond, e Kew. A Richmond alzai le ginocchia supina dentro a un’angusta canoa”.
“Ho i piedi a Moorgate, il cuore lo tengo sotto i tacchi. Lui poi mi fa, piangendo, ‘Ricominciamo da zero. Mi impegno.’ Io zitta. Con chi vuoi che me la prenda?”
“Spiaggia di Margate. Mi si connette niente con niente. Mani sporche, unghie rotte. I miei, gente modesta, che si aspetta niente.” la la
Poi venni a Cartagine
Fuoco fuoco fuoco fuoco Oh Signore tu mi cogli Oh Signore tu cogli
fuoco
IV. MORTE IN ACQUA
Phlebas fenicio, mezzo mese morto, non sa di gridi di gabbiani e onde, di perdite e profitti. Sott’acqua una corrente sussurra e lo disossa. Su, poi giù, riattraversa vecchiaia e gioventù entrando nel gorgo.
Giudeo, Gentile, tu che giri il timone e studi il vento, considera Phlebas, che come te era bello e alto.
V. QUEL CHE DISSE IL TUONO
Dopo le torce rosse e i volti madidi dopo i silenzi gelidi in giardino finita l’agonia in mezzo alle rocce con pianti e strepiti la prigione, il palazzo ed il riverbero del tuono a primavera, là sui monti, colui che già era vivo adesso è morto noi che eravamo vivi, moribondi, basta un po’ di pazienza.
Qui non c’è acqua, solo roccia, roccia e non acqua e la strada sabbiosa strada che piega su fra le montagne montagne fatte di roccia senz’acqua acqua, fermarsi a berla, se ci fosse non si può ragionare fra le rocce sudore secco, piedi nella sabbia ci fosse qualche goccia fra le rocce morte, bocche cariate che non sputano non puoi stenderti o metterti seduto non c’è neanche silenzio qui fra i monti ma tuono secco sterile e non pioggia e non c’è solitudine fra i monti ma ringhi e ghigni in facce rosse arcigne da dentro il fango secco delle case
ci fosse acqua e non roccia e poi acqua e acqua sorgente pozza nella roccia anche solo suono d’acqua non la cicala e canto d’erba secca ma suono d’acqua sulla roccia il tordo eremita canta fra i pini tip tap tip tap tap tap tap ma non c’è acqua.
Chi è il terzo che sta sempre lì al tuo fianco? Quando conto ci siamo solo io e te ma se guardo alla strada bianca, avanti, c’è sempre un altro che ti cammina a fianco, avanza avvolto in un mantello bruno e ha il cappuccio, non so se è uomo o donna ma chi si muove in silenzio al tuo fianco?
Cos’è questo suono alto nell’aria mormorio lamentazione materna quali orde incappucciate invadono piane infinite, inciampano in terra crepata nel tondo vuoto del piatto orizzonte
Che città c’è lì sopra le montagne crepa e ricresce e scoppia nel violetto torri precipiti Gerusalemme Atene Alessandria Vienna Londra irreale
Scostandosi la lunga chioma nera la donna fece sussurrare corde e bimbi-pipistrelli nel violetto con un fischio e un batter d’ali si misero a strisciare per il muro a testa in giù per aria c’eran torri e campane memorate e rintocchi e canti da cisterne vuote e pozzi esausti.
In questa buca ammuffita tra i monti poco lume di luna, e l’erba canta fra lapidi cadute e la cappella c’è la cappella vuota, casa solo al vento. Non ha finestre, la porta sbatacchia. Le ossa secche non fan male a nessuno. Solo un gallo sulla trave del tetto chi chi ri chi chi chi ri chi in un lampo. Poi una botta di vento che porta pioggia
Il Gange era infossato, foglie flaccide in attesa di pioggia, nubi nere addossate laggiù sull’Himavant. Giungla acquattata in agguato. Poi parlò il tuono DA Datta: che abbiamo dato? Amico, sangue che mi agita il cuore lo spaventoso momento di resa che una vita di prudenza non cancella per questo e non altro siamo esistiti ma non lo trovi in nessun necrologio o in ricordi filati da ragni benevoli sigilli rotti da scarni notai nelle nostre stanze vuote DA Dayadhvam: ho sentito la chiave girare nella porta una volta e una sola 4pensiamo alla chiave, ognuno in prigione e pensare alla chiave fa la prigione ma al calar della notte, voci eteree, si rianima un attimo Coriolano finito DA Damyata: la barca rispondeva lieta alla mano esperta di vele e remi calmo il mare, il tuo cuore avrebbe risposto lieto all’invito, battendo obbediente alle mani in controllo
Mi son seduto a riva a pescare, la piana arida dietro ma almeno, sistemare le mie terre? casca Londra casca il mondo casca la terra
Poi s’ascose nel foco che gli affina Quando fiam uti chelidon – Oh rondine, rondine Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie I miei cocci a fermare le rovine Ci penso io. Geronimo rifà il matto. Datta. Dayadhvam. Damyata. Shantih shantih shantih |
Il testo di partenza non è incluso in questa pubblicazione perché il testo d'arrivo è presentato come (parzialmente) indipendente, e perché non rientra nell'autorizzazione data da Faber & Faber e dall'Estate of T.S. Eliot. Si fa presente ai lettori che mentre The Waste Land è ancora coperta da diritti d'autore in Europa, questi diritti sono scaduti negli Stati Uniti d'America. Il testo di T.S. Eliot si trova perciò pubblicato su siti come poetryfoundation.org; e la versione su cui è basata La terra desolata 2022 (quella pubblicata sul n. 1 del Criterion, ottobre 1922), in particolare, si può leggere in versione fotostatica su archive.org. |
La terra desolata 2022: un testo nuovo, fatto per invecchiare
Secondo un frusto luogo comune, le traduzioni invecchiano prima dei loro modelli. Un testo importante viene solitamente ritradotto ogni trenta, venti, dieci anni, perché cambiano il gusto dei lettori e la lingua d’arrivo. Gli stessi traduttori, incantati dall’apparenza di immutabilità dei loro testi di partenza, ci diranno che appena finito il lavoro vorrebbero ricominciare, produrre qualcosa di nuovo e radicalmente diverso. Tuttavia, o forse proprio per questo motivo, c’è in Italia un ambito in cui le traduzioni cercano di appropriarsi dell’aura di “originali”, presentandosi come già vecchie, esistenti da sempre anche se appena nate. È l’ambito dei classici moderni, dove i testi d’arrivo riescono spesso nell’impresa di suonare più antiquati dei loro testi di partenza otto- e novecenteschi. Il Dickens italiano è per lo più scritto in un linguaggio didascalico e nobilitante (Berman 1995: 53), laddove il Dickens inglese è comicamente polifonico (Bakhtin 1981: 259–422; Venturi 2009a). Molte traduzioni italiane di Jane Austen, certe versioni dei romanzi di Virginia Woolf, seguono così da vicino sintassi e morfologia inglesi che si presentano a tratti come antichi testi iniziatici (Morini 2010: 186–194). Presentate in edizioni eleganti, con abbondanti apparati paratestuali e ritratti d’epoca in copertina, queste traduzioni aspirano ad apparire, loro stesse, come classiche, o quanto meno come classicamente composte, quasi “immobili” (Venturi 2009b).
La presenza sul mercato di questo genere di testi non sarebbe di per sé un problema, se non fosse che per quanto riguarda la traduzione di ciò che Bourdieu chiama “capitale culturale” (Bourdieu 1984), essi tendono a occupare quasi tutto lo spazio disponibile. L’ipotesi secondo cui ogni ritraduzione successiva tende a migliorare quelle precedenti (Berman 1990) è stata in larga parte sconfessata (Desmidt 2009): ma si può sostenere che la presenza di versioni dello stesso testo di partenza fatte da punti di vista diversi, con finalità diverse, sia una forma di ricchezza per la cultura d’arrivo. Perciò, se a un David Copperfield scritto in un registro alto dell’italiano, e pubblicato con ampia introduzione e dovizia di note esplicative, se ne affianca uno in cui il narratore può scimmiottare il socioletto di Mrs Crupp, tanto di guadagnato. Il problema è che il secondo tipo di testo d’arrivo, in Italia, è molto meno diffuso e visibile rispetto al primo.
Per questo motivo si è deciso di pubblicare in questa sede La terra desolata 2022 – un testo d’arrivo che non intende presentarsi come classico, e il cui scopo principale è invecchiare in fretta. Anche nel campo della poesia, e soprattutto della poesia canonizzata, la tendenza dominante è quella di produrre edizioni accademiche, con testi redatti in registro alto e aderenti quanto più possibile alla grana microlinguistica dei versi di partenza (“rough winds do shake the darling buds of May”, dal sonetto XVIII di Shakespeare, diventa “rudi venti scuotono i diletti boccioli del Maggio”; Morini 2013: 94–97). The Waste Land, il caposaldo e punto d’arrivo del primo modernismo poetico anglo-americano, non fa eccezione: anche le versioni più poetiche fra quelle in commercio, quelle che a volte osano restituire due versi italiani per uno inglese (Eliot 1995), non lasciano comunque indietro nemmeno un singolo sintagma del poemetto. Persino le edizioni che cercano di trasformare The Waste Land in un testo poetico italiano lo fanno usando registri formali, e sono disposte a rinunciare alla coerenza metrica pur di non travisare l’autore sul piano referenziale (Eliot 2021).
È inevitabile che manchi, in questo panorama, una versione che dia conto di ciò che T.S. Eliot (con l’aiuto di Ezra Pound come editor) intendeva fare presentando questo poemetto frammentario, tradizionale e innovativo sul piano metrico, aulico e colloquiale a livello linguistico. The Waste Land doveva stupire o sconcertare i suoi lettori, fra 1922 e 1923, perché richiamava tutta la tradizione poetica inglese senza mai appiattirsi sui modelli che citava e a cui alludeva – e perché nell’alveo di quella tradizione inseriva voci piccolo borghesi e working class che raramente ci erano entrate, e quasi mai senza un buon grado di parafrasi d’autore. T.S. Eliot usava il pentametro giambico di Shakespeare con il nitore formale di Dryden, ma per raccontare piccole scene di squallore suburbano. Oppure girava intorno al pentametro giambico, all’alessandrino, ad altre misure classiche senza mai adagiarvisi per più di pochi versi. Accostava alle parole di Dante e Shakespeare le voci confuse provenienti da un bar londinese.
La terra desolata 2022 si propone di ricreare in italiano questo gioco fra tradizione e innovazione, soprattutto in termini metrici e linguistici. Il suo autore ha rinunciato volentieri a seguire sintagma per sintagma, oggetto per oggetto, la narrazione frammentaria del poemetto, nella consapevolezza che di quel genere di riproduzione si occupano, in grado maggiore o minore, tutte le altre versioni esistenti. Per questo la traduzione viene qui presentata da sola, senza testo di partenza a fronte,[1] anche se un rapido confronto di un passo inglese col suo corrispettivo italiano può servire a dare conto dell’effetto che si è cercato di ottenere:
On the divan are piled (at night her bed)
Stockings, slippers, camisoles, and stays.
I Tiresias, old man with wrinkled dugs
Perceived the scene, and foretold the rest –
I too awaited the expected guest.
A mucchi sul divano, che è anche letto,
pantofole, corsetti, canottiere.
Io, vecchio con mammelle da signora,
ho osservato la scena e visto il resto,
previsto anch’io quell’ospite previsto.
Il passo bi-testuale è tratto dalla sezione che descrive la scena d’amore fra dattilografa e giovane agente immobiliare. Applicati a questa scenografia povera e un po’ squallida, dizione poetica e metro tradizionale del testo inglese (i versi sono tutti pentametri giambici tranne il quarto, che si legge più come un tetrametro di nove sillabe; il passo si conclude con una rima piena, e anche “stays” fa rima con un “rays” precedente) producono un effetto eroicomico. In italiano, lo stesso effetto si ottiene con endecasillabi dal ritmo il più possibile altalenante e a tratti mimetico (gli schemi accentativi sono: 2 6 10 / 2 6 10 / 1 2 6 10 / 3 6 8 10 / 2 4 6 10, con il verso di chiusura quasi completamente giambico) e con consonanze a tenere insieme il secondo e terzo verso (importante che il lettore senta i legami finali, anche se non sono altrettanto forti o nelle stesse posizioni) e l’irrinunciabile distico finale. Che il fuoco del testo italiano sia sullo schema metrico/rimico lo si desume dal fatto che certi dettagli svaniscono (nel testo d’arrivo non ci sono le calze; Tiresia non fa il proprio nome, perché si è già presentato in precedenza) e dalla ripetizione aggiunta nell’ultimo verso (“previsto anch’io quell’ospite previsto”). Per il progetto stilistico che sottende a questa traduzione, molto più importante della perfetta riproduzione di ogni dettaglio è che si crei quel contrasto eliotiano fra tradizione metrica e poetica da una parte, oggetto della descrizione dall’altra.
L’altro punto in cui questa versione si differenzia in modo sostanziale dalle altre esistenti è il tentativo di usare il registro basso e colloquiale in modo credibile, benché non troppo caratterizzato, per i passi in cui Eliot sembra riportare discorsi sentiti per strada o in metropolitana. Questa volta il raffronto diretto con il testo di partenza non serve:
Prima che torni Albert, fatti un po’ bella.
Che poi ti chiede, e i soldi che ti ho dato
per i denti? Ce li ha dati, io c’ero.
Cavali, fatti una bella dentiera,
zio buono, fa, non ti si può guardare.
Ha ragione, faccio io, poveraccio,
oh, quattr’anni di naia, si vuol divertire,
se non ci pensi te ci pensa un’altra.
Ah davvero, mi fa lei, e io, sì.
Ho capito, fa lei, e mi guarda storto. [...]
Allora, faccio, se non ti va tienilo.
Poi non venire a piangere se un’altra...
Che se ti molla te la sei cercata.
Guardati lì, sembri un pezzo di antiquariato.
(E c’ha solo trentun anni.)
Cosa ci posso fare, e mi fa il muso,
son le pillole che prendo per cavarlo.
L’idea fondamentale è quella di rendere il parlato non inserendo qua e là dei colloquialismi, ma insistendo sulla grammatica della lingua orale – dislocazioni a destra e a sinistra, ripetizioni, ellissi, parole grammaticali polivalenti. Sempre nel nome dell’equilibrio/contrasto eliotiano fra tradizione e innovazione, il gioco sembra riuscire alla perfezione quando queste marche del parlato si inseriscono in endecasillabi perfetti (in certi casi, paradossalmente, assenti nel testo inglese: “Poi non venire a piangere se un’altra... / Che se ti molla te la sei cercata”).
La natura dell’operazione rende necessaria una postilla teorico-traduttiva: La terra desolata 2022 non si propone come realizzazione compiuta di ciò che una traduttologia ormai screditata definiva “equivalenza d’effetto”. Anche se per brevità si è parlato di ciò che Eliot “intendeva” fare e dell’effetto che The Waste Land ebbe sul pubblico del 1922, il traduttore non ha accesso diretto né alle intenzioni dell’autore né alle reazioni del pubblico. Quel che può fare è osservare il testo, come lettore storico-critico, nel suo contesto iniziale; e usare il proprio stile, come (ri)scrittore, per far passare, dello stile di partenza, quelle caratteristiche che sono sembrate fondamentali alla sua lettura. In questo senso, il traduttore si comporta da “metapoeta”, secondo la vecchia definizione di J.S: Holmes (1988: 11). Nei termini dei più recenti “translator-centred translation studies” (Robinson 1991; Morini 2020), il traduttore è consapevole di portare a termine un’impresa del tutto personale, anche se fonda la sua ricerca preliminare su criteri il più possibile oggettivi.
Resta da dire qualcosa sulla scelta del luogo di pubblicazione. Nell’ottobre del 1922, Eliot pubblicava il poemetto (ancora senza le note, l’epigrafe tratta da Petronio e la dedica a Pound) nel primo numero del Criterion, rivista da lui curata in forma anonima. Un mese dopo il testo usciva sul periodico americano The Dial; in dicembre veniva pubblicato in volume negli Stati Uniti, e solo nel 1923 in edizione inglese per la Hogarth Press dei coniugi Woolf. Pare perciò opportuno pubblicare La terra desolata 2022 nell’ottobre del centenario, in una rivista online fra le più importanti della traduttologia italiana ed europea, per marcare l’evoluzione delle modalità di stampa e delle forme della lettura. Il testo italiano qui presentato si basa su quello del 1922, ne riproduce l’immediatezza e ne segue le idiosincrasie negli spazi e nell’uso del corsivo.[2] Se è vero, come dice Pound, che la letteratura è news that stays news (Pound 1934/1961: 29), l’auspicio è che questo ritorno al passato faccia notizia, al di là dei suoi intenti celebrativi e della sua ispirazione ideologica e stilistica.
Testi citati
Bakhtin, Mikhail 1981 (1934-1935). The Dialogic Imagination, trans. Carol Emerson and Michael Holquist. Austin: University of Texas Press.
Berman, Antoine 1990. “La Retraduction Comme Espace de la Traduction”. Palimpsestes 4, 1–7.
Berman, Antoine 1995. Pour une critique des traductions: John Donne. Paris: Éditions Gallimard.
Bourdieu, Pierre 1984. Distinction: A Social Critique of the Judgment of Taste, trans. Richard Nice. New York: Routledge.
Desmidt, Isabelle 2010. “(Re)translation revisited.” Meta 54(4), 669–683.
Eliot, T.S. 1995. La Terra desolata / Quattro quartetti, trans. Angelo Tonelli. Milano: Feltrinelli.
Eliot, T.S. 2021. La terra devastata, trans. Carmen Gallo. Milano: il Saggiatore.
Holmes, J.S. 1988. Translated! Papers on Literary Translation and Translation Studies. Amsterdam: Rodopi.
Morini, Massimiliano 2010. “Translating personalities: a stylistic model”. In Fabiana Fusco and Monica Ballerini (eds), Testo e traduzione: Lingue a confronto. Frankfurt am Main: Peter Lang, pp. 175–197.
Morini, Massimiliano 2013. The Pragmatic Translator: An Integral Theory of Translation. London: Bloomsbury.
Morini, Massimiliano 2020. “Luciano Bianciardi: Interventionist translation in the age of mechanical labour”. Target 32(1), 123–143.
Pound, Ezra 1934/1961. ABC of Reading. London: Faber and Faber.
Robinson, Douglas 1991. The Translator’s Turn. Baltimore, MD: Johns Hopkins University Press.
Venturi, Paola 2009a. “David Copperfield conscripted: Italian Translations of the Novel”. Dickens Quarterly 26(4), 234–247.
Venturi, Paola 2009b. “The translator’s immobility: English modern classics in Italy”. Target 21(2), 333–357.
Note
[1] Il testo inglese è facilmente reperibile, per chi desideri metterlo a confronto con l’italiano, nelle numerose edizioni in commercio e in siti americani come poetryfoundation.org. Per le lievi differenze fra queste versioni del testo e La terra desolata 2022, tuttavia, si veda la nota 2.
[2] Chi voglia mettere a confronto La terra desolata 2022 con il suo testo di partenza può trovare il primo numero del Criterion su archive.org.
©inTRAlinea & Massimiliano Morini (2022).
"La terra desolata 2022". Translation from the work of T. S. Eliot.
In the spirit of the centenary celebrations around the publication of The Waste Land in 1922, this translation appears here with the knowledge of the TS Eliot Estate. However, it is not an authorised translation and must not be shared further.
Stable URL: https://www.intralinea.org/translations/item/2599